sabato 23 maggio 2015

Sabato a Nesce, ospite dell'avv. Morelli nel maniero di famiglia

 
 
 
 
 
 
Sabato a Nesce, ospite dell'avv. Morelli nel maniero di famiglia
 
 
In mezzo a sì orridi monti, castagneti andati l'anno scorso in fumo per un insetto distruttore, un tempo inaccessibili, oggi vi puoi arrivare anche in macchina ma se soffri il mal d'auto resta a casa che tante sono le curve e molti anche i tornanti. Eppure una volta sollo mulattiere d'inverno impraticabili come ho letto in certe relationes ad limina dei santi (?) vescovi di Rieti. In mezzo a questi monti dunque si incunea un vezzoso paesotto della Val del Salto. Si scrive NESCE ma loro pronunciano NECE sia pure con una "c" strascicata che dovrebbe prendere il posto anche  di una "s". Quando sfotto mia moglie (del luogo) lei mi contraccambia per quel nostro colto arabizzante pronunciare il nome sacrosanto di SCIASCIA. (Xaxa, scrivevano i preti).
 
Oggi, sabato infame, pioggia e freddo pur in questo fine mese di maggio (per il resto così torrido) vi ho passato una mattinata, vi ho pranzato gratis per la munificenza di una sorta di principe rinascimentale, l'avvocato Morelli;  ho ascoltato relazioni, ringraziamenti, saluti ma niente baci. E dire che presiedeva una gradevolissima bella giovane donna che  si proclamò  assessore del comune di Pescorocchiano che io credevo essere il dignitoso piuttosto giovane ma molto valido Luciano Bonventre (ma forse il vero primo nome è Salvatore come dire Totò: non fa scic, meglio Luciano).
 
Una ragazzina già ai primi turbamenti d'amore portava la fascia tricolore. Dicono che là vi è il sindaco rectius sindachessa baby. E costei senza impappinarsi ma con la cantilena classica delle scuole italiche ci sunteggiò un bel volume dal titolo "i luoghi del risorgimento nel Comune di Pescorocchiano" come meglio potete gustare nella foto che propiniamo.
 
Una bella, colta e riuscitissima iniziativa, molto meglio di quello che i supponenti miti della cultura sciasciana tentano nel mio paese che all'anagrafe risulta Racalmuto, nei vezzi letterari Regalpetra  ed ora Pierino Carbone dando eccesivo peso ad un errore evidente delle Carte vaticane vuol musicalizzare dicendolo RACALLIUTO
 
A Racalmuto se presento un libro (se mio e se al Circolo Unione, altrove non mi ospitano) sì e no conto dieci distratti avventori.  Nesce, sia pure in una stalla crestomantica stratrasformata dai satrapeschi Morelli, una frotta di gente attenta con dietro tante dure panche (a me me ne è toccata una e il mio culo fremette tanto da uscire) assiepate da scolaresche che dopo un'ora d'attesa non ce la facevano più e sia pure educatamente si misero a ciarlare per i fatti loro.
 
Non ho capito che c'entrava uno studioso (ricercatore e saggista) venuto da chissà dove che spese parole e residua attenzione per dirci che guai a dire "I BORBONI" si deve dire "I BORBONE", ma poi lui stesso in una diapositiva proiettata ad abundantiam sotto nella didascalia verga un bel "i Barboni". Vatti a fidare dei docenti delle nostre precarie scuole.
 
Tornerò sull'argomento. Intanto ebbi un colpo al cuore quando prese la porola un paio di metri di genere maschile secco ed allampanato che nella qualità di archivista non so di che mi distrugge il mio Lugini e definisce scrittura popolana quellia che persino il Mommsen dichiara epigrafi in osco. Revisionismo? Supponenza?
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Virgilio fallace, Nersae diviene Nesce, terra dei Morelli.

 

 
In mezzo a sì orridi monti, castagneti andati l'anno scorso in fumo per un insetto distruttore, un tempo inaccessibili, oggi vi puoi arrivare anche in macchina ma se soffri il mal d'auto resta a casa che tante sono le curve e molti anche i tornanti. Eppure una volta sollo mulattiere d'inverno impraticabili come ho letto in certe relationes ad limina dei santi (?) vescovi di Rieti. In mezzo a questi monti dunque si incunea un vezzoso paesotto della Val del Salto. Si scrive NESCE ma loro pronunciano NECE sia pure con una "c" strascicata che dovrebbe prendere il posto anche  di una "s". Quando sfotto mia moglie (del luogo) lei mi contraccambia per quel nostro colto arabizzante pronunciare il nome sacrosanto di SCIASCIA. (Xaxa, scrivevano i preti).
 
Oggi, sabato infame, pioggia e freddo pur in questo fine mese di maggio (per il resto così torrido) vi ho passato una mattinata, vi ho pranzato gratis per la munificenza di una sorta di principe rinascimentale, l'avvocato Morelli;  ho ascoltato relazioni, ringraziamenti, saluti ma niente baci. E dire che presiedeva una gradevolissima bella giovane donna che  si proclamò  assessore del comune di Pescorocchiano che io credevo essere il dignitoso piuttosto giovane ma molto valido Luciano Bonventre (ma forse il vero primo nome è Salvatore come dire Totò: non fa scic, meglio Luciano).
 
Una ragazzina già ai primi turbamenti d'amore portava la fascia tricolore. Dicono che là vi è il sindaco rectius sindachessa baby. E costei senza impappinarsi ma con la cantilena classica delle scuole italiche ci sunteggiò un bel volume dal titolo "i luoghi del risorgimento nel Comune di Pescopagano" come meglio potete gustare nella foto che propiniamo.
 
Una bella, colta e riuscitissima iniziativa, molto meglio di quello che i supponenti miti della cultura sciasciana tentano nel mio paese che all'anagrafe risulta Racalmuto, nei vezzi letterari Regalpetra  ed ora Pierino Carbone dando eccesivo peso ad un errore evidente delle Carte vaticane vuol, musicalizzare dicendolo RACALLIUTO
 
A Racalmuto se presento un libro (se mio e se al Circolo Unione, altrove non mi ospitano) sì e no conto dieci distratti avventori.  Nesce, sia pure in una stalla crestomantica stratrasformata dai satrapeschi Morelli, una frotta di gente attenta con dietro tante dure panche (a me me ne è toccata una e il mio culo fremette tanto da uscire) assiepate da scolaresche che dopo un'ora d'attesa non ce la facevano più e sia pure educatamente si misero a ciarlare per i fatti loro.
 
Non ho capito che c'entrava uno studioso (ricercatore e saggista) venuto da chissà dove che spese parole e residua attenzione per dirci che guai a dire "I BORBONI" si deve dire "I BORBONE", ma poi lui stesso in una diapositiva proiettata ad abundantiam sotto nella didascalia scorgo un bel "i Barboni". Vatti a fidare dei docenti delle nostre precarie scuole.
 
Tornerò sull'argomento. Intanto ebbi un colpo al cuore quando prese la porola un paio di metri di genere maschile secco ed allampanato che nella qualità di archivista non so di che mi distrugge il mio Lugini e definisce scrittura popolana quellia che persino il Mommsen dichiara epigrafi in osco. Revisionismo? Supponenza?
 
 
 
 

come adulare una bella donna fingendo di essere masochisti!

come adulare una bella donna fingendo di essere masochisti!
 
 
L'adulazione è del maschio; la donna concupita sorride e sbeffeggia. Ho avuto sempre terrore del sarcasmo di un bella donna. Qui in gioco una donna non bella, ma  bellissima, con vistosi attributi femminili, irride alle nostre spalle. Noi pieghevoli esseri forgiati al maschile  fingiamo di manco accorgercene. A me sembra che una donna quando chiede amor sacro spera che le venga dato amor profano, ma quando dice (raramente) che non disdegna l'amor profano ecco esigere chissà quale spiritualissimo amor sacro. E noi adulatori disorientati, smarriti, vaguli, speriamo in un miracolo di una Venere rediviva, dopo la sepoltura cristiana colta ad esaltare verginità materne (vergine madre, figlia del tuo figlio, versi insensi ma mirabili).

L'adulazione è del maschio; la donna concupita sorride e sbeffeggia

L'adulazione è del maschio; la donna concupita sorride e sbeffeggia. Ho avuto sempre terrore del sarcasmo di un bella donna. Qui in gioco una donna non bella, ma  bellissima, con vistosi attributi femminili, irride alle nostre spalle. Noi pieghevoli esseri forgiati al maschile  fingiamo di manco accorgercene. A me sembra che una donna quando chiede amor sacro spera che le venga dato amor profano, ma quando dice (raramente) che non disdegna l'amor profano ecco esigere chissà quale spiritualissimo amor sacro. E noi adulatori disorientati, smarriti, vaguli, speriamo in un miracolo di una Venere rediviva, dopo la sepoltura cristiana colta ad esaltare verginità materne (vergine madre, figlia del tuo figlio, versi insensi ma mirabili).

Saluti da Santa Lucia

Oggi sabato piovoso qui a Santa Lucia di Fiamignano, dovrei esser di cupo umore in quanto  in quanto si suol dire sedotto e abbandonato. Mentalità sicula che non mi appartiene più. Io la mia vita lunga e interessante, di sicuro non vacua, l'ho tutta vissuta e quel che mi rimane è per dirla secondo i canoni della per me estranea scienza ragionieristica sorprendente sopravvenienza attiva. Ho molto il senso del reale, non credo in nulla per crogiolarmi in sentimenti e men che meno in risentimenti, Solo che oggi piove e forse vanno in fumo i lavori di ripristino del vecchio maniero della famiglia Benedetti in quel di Baccarecce  una cresta abitata  (da pochi) in quel di Pescorocchiano. Vi saluto amici, nemici  (ma per esercitazioni ludiche) e le tante donne sistematicamente di  me deluse.

giovedì 21 maggio 2015

Sono a santa lucia. Segregato da tutto

I racconti di Calogero Restivo da Racalmuto

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica, ci racconta, ricordando e commemorando:


Il fascino della memoria (ricordo di Leonardo Sciascia)


Calogero Restivo

 


Festeggiavo i miei nove anni e finivo di frequentare la terza elementare.
Sono tanti, nove anni, per un ragazzo che è troppo alto per la sua età, non è ripetente ma in ritardo con gli obblighi scolastici.
L’ultimo banco, per gli spilungoni come me, è vissuto come una punizione.
Lontana la cattedra, vista dall’ultimo banco, lontana la lavagna.

Il maestro, nella sua passeggiata tra i banchi, si ferma sempre tra il terzo e quarto posto della fila, dà un’occhiata circolare, un colpo di bacchetta (leggero) sul banco per tramettere autorità e poi torna in cattedra.
Negli ultimi banchi, si sonnecchia, si possono leggere le avventure di Tom Mix, il giornaletto nascosto in mezzo al libro, ma si può essere scoperti se questo accade durante la lettura in classe e ti si chiede di continuare a leggere dal punto in cui si è fermato il compagno.

In questo caso il maestro ti chiama presso di se per farti la ramanzina e poi ti mette in castigo, dietro la lavagna. Così andavano le cose ai miei tempi. Tutte queste cose mi si presentarono alla mente una sera di fine giugno che avevo finito l’ennesimo ripasso delle ultime avventure di Tex Willer e non avevo altro da leggere. Quella sera sono andato ad incontrare mio padre, che rientrava dal lavoro, al ponte Canale, appena fuori dal paese. Si preoccupò, vedendomi, temendo una brutta notizia. Gli dissi semplicemente e velocemente: “L’anno prossimo voglio andare in quinta”. A sera sentivo che ne parlava con mia madre. Passarono alcuni giorni, io facendo lo sciopero del silenzio e quasi della fame che, essendo mingherlino, per mia madre era una cosa grave.La mattina della domenica seguente mio padre mi chiamò “Andiamo dalla maestra Taibi” mi disse. Era, la maestra, una vecchia zitella senza età di cui tutti i ragazzi nutrivano un certo timore reverenziale.
Nelle giornate di vento forte, noi ragazzi, vedendola passare, aspettavamo con un certo cinismo che la parrucca le volasse via, ma lei, conscia del pericolo, con una mano teneva la borsa e l’ombrello e con l’altra la parrucca. Mio padre le espose il caso ed era visibilmente impacciato e nervoso.

Era un lavoratore, rigoroso nel rispetto dell’autorità che chiamava “legge”; aveva poche certezze ma certe: dopo la notte viene il giorno e dopo il quattro viene il cinque e così di seguito. Non capiva la mia richiesta ma l’assecondava.
La maestra ci pensò su qualche minuto ed alla fine sentenziò: “Si può fare”.
Stabilirono che avrei studiato durante l’estate e lei stessa mi avrebbe aiutato a preparare gli esami di settembre.Così iniziò un’ estate fatta di andata e ritorno dal Serrone, dove la maestra aveva una casa in campagna, e la sera a studiare e fare i compiti. Finalmente il giorno degli esami: tre maestri dietro il tavolo a fare domande ed io di fronte, come un accusato, a rispondere. Uno di quei maestri si chiamava Leonardo Sciascia.

Ero preoccupato e spaventato ma l’interrogazione è andata bene e sono stato promosso. Dopo qualche giorno iniziava il nuovo anno scolastico.
Il plesso scolastico detto “La Palma” consta di due edifici perfettamente uguali; in quello di sinistra vi sono (vi erano) le aule maschili ed in quello di destra quelle femminili, tranne due: una, quella d’angolo, era quella del maestro (allora si diceva professore) Sciascia , l’altra di un maestro di cui non ricordo il cognome. I miei compagni non capivano perchè andavo verso l’edificio di destra quando l’aula della quarta era a sinistra; mi chiamavano, mi prendevano un po’ in giro ma andai a destra, nell’aula del maestro Sciascia che faceva la quinta. Per tutto il periodo della scuola media non vi furono molte occasioni di lunghe conversazioni, un saluto se ci incontravamo.

Una sera, ero ospite presso un amico a Ribera, mi dissero che il professore Sciascia avrebbe tenuto una conferenza su Pirandello.
Mi presentai circa un’ora prima dell’inizio della conferenza.
Fummo reciprocamente contenti dell’incontro, mi fece tante domande e alla fine della conferenza l’ultimo autobus per Agrigento era partito.
Il prossimo, il giorno dopo. Cercammo una macchina a noleggio, io fui ben contento di accompagnarlo e durante il viaggio parlammo di tante cose, dei miei interessi,di come andavo a scuola ecc. Ci incontrammo di nuovo solo alla vigilia degli esami di abilitazione magistrale, i miei esami di Stato.

Gli manifestai i miei comuni, credo, timori sulla “riuscita” degli esami e ci lasciammo perchè , mi disse, aveva un giro di conferenze.
Una sera, ed era all’incirca la metà di luglio, stavo passeggiando con degli amici, (Lui stava conversando al circolo dei “nobili”) mi fece cenno di sedermi accanto a se e mi disse: “Accomodati, collega”. Ero felice, lo ringraziai caldamente perchè significava che avevo superato gli esami e me lo stava comunicando. Dopo di allora ci siamo visti spesso ma erano solo incontri occasionali. Parlavamo di poesia, mi dava consigli, mi suggeriva delle letture, mi prestava dei libri che riteneva adatti. Parlavamo anche di (gialli) e di Pasolini, mi consigliava di leggere le sue opere,ne esaltava lo stile e la sobrietà. Gli diedi da leggere delle mie poesie che allora mi sembravano dei capolavori ed erano delle semplici esercitazioni.

Alcune in seguito ebbero la sua approvazione, mi disse che potevano essere pubblicate nella rivista che allora dirigeva, ma non se ne fece niente perché sono partito per fare il militare e ci perdemmo di vista.
Nel frattempo era diventata di dominio pubblico la sua grandezza, era uscito “Il Giorno della Civetta” ed io dovevo occuparmi di risolvere i problemi della vita di tutti i giorni e le soluzioni mi portavano ben lontano dalla poesia. Da allora, più nessuno incontro, mi limitavo a leggere i libri che scriveva, le interviste che rilasciava, le notizie che riportavano i giornali. Era un modo di ritrovarsi.

Era un dialogo fra amici in cui le parole non servono.

I miei parenti di Buffalo Saccomando-Freedman: auguro un grande successo elettorale a Brenda. A Marianna e Bob tanta felicità, lunga vita e auguroni da parte del cugino siciliano Lillo



I racconti di Calogero Restivo da Racalmuto

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica, ci racconta, ricordando e commemorando:


Il fascino della memoria (ricordo di Leonardo Sciascia)


Calogero Restivo

 


Festeggiavo i miei nove anni e finivo di frequentare la terza elementare.
Sono tanti, nove anni, per un ragazzo che è troppo alto per la sua età, non è ripetente ma in ritardo con gli obblighi scolastici.
L’ultimo banco, per gli spilungoni come me, è vissuto come una punizione.
Lontana la cattedra, vista dall’ultimo banco, lontana la lavagna.

Il maestro, nella sua passeggiata tra i banchi, si ferma sempre tra il terzo e quarto posto della fila, dà un’occhiata circolare, un colpo di bacchetta (leggero) sul banco per tramettere autorità e poi torna in cattedra.
Negli ultimi banchi, si sonnecchia, si possono leggere le avventure di Tom Mix, il giornaletto nascosto in mezzo al libro, ma si può essere scoperti se questo accade durante la lettura in classe e ti si chiede di continuare a leggere dal punto in cui si è fermato il compagno.

In questo caso il maestro ti chiama presso di se per farti la ramanzina e poi ti mette in castigo, dietro la lavagna. Così andavano le cose ai miei tempi. Tutte queste cose mi si presentarono alla mente una sera di fine giugno che avevo finito l’ennesimo ripasso delle ultime avventure di Tex Willer e non avevo altro da leggere. Quella sera sono andato ad incontrare mio padre, che rientrava dal lavoro, al ponte Canale, appena fuori dal paese. Si preoccupò, vedendomi, temendo una brutta notizia. Gli dissi semplicemente e velocemente: “L’anno prossimo voglio andare in quinta”. A sera sentivo che ne parlava con mia madre. Passarono alcuni giorni, io facendo lo sciopero del silenzio e quasi della fame che, essendo mingherlino, per mia madre era una cosa grave.La mattina della domenica seguente mio padre mi chiamò “Andiamo dalla maestra Taibi” mi disse. Era, la maestra, una vecchia zitella senza età di cui tutti i ragazzi nutrivano un certo timore reverenziale.
Nelle giornate di vento forte, noi ragazzi, vedendola passare, aspettavamo con un certo cinismo che la parrucca le volasse via, ma lei, conscia del pericolo, con una mano teneva la borsa e l’ombrello e con l’altra la parrucca. Mio padre le espose il caso ed era visibilmente impacciato e nervoso.

Era un lavoratore, rigoroso nel rispetto dell’autorità che chiamava “legge”; aveva poche certezze ma certe: dopo la notte viene il giorno e dopo il quattro viene il cinque e così di seguito. Non capiva la mia richiesta ma l’assecondava.
La maestra ci pensò su qualche minuto ed alla fine sentenziò: “Si può fare”.
Stabilirono che avrei studiato durante l’estate e lei stessa mi avrebbe aiutato a preparare gli esami di settembre.Così iniziò un’ estate fatta di andata e ritorno dal Serrone, dove la maestra aveva una casa in campagna, e la sera a studiare e fare i compiti. Finalmente il giorno degli esami: tre maestri dietro il tavolo a fare domande ed io di fronte, come un accusato, a rispondere. Uno di quei maestri si chiamava Leonardo Sciascia.

Ero preoccupato e spaventato ma l’interrogazione è andata bene e sono stato promosso. Dopo qualche giorno iniziava il nuovo anno scolastico.
Il plesso scolastico detto “La Palma” consta di due edifici perfettamente uguali; in quello di sinistra vi sono (vi erano) le aule maschili ed in quello di destra quelle femminili, tranne due: una, quella d’angolo, era quella del maestro (allora si diceva professore) Sciascia , l’altra di un maestro di cui non ricordo il cognome. I miei compagni non capivano perchè andavo verso l’edificio di destra quando l’aula della quarta era a sinistra; mi chiamavano, mi prendevano un po’ in giro ma andai a destra, nell’aula del maestro Sciascia che faceva la quinta. Per tutto il periodo della scuola media non vi furono molte occasioni di lunghe conversazioni, un saluto se ci incontravamo.

Una sera, ero ospite presso un amico a Ribera, mi dissero che il professore Sciascia avrebbe tenuto una conferenza su Pirandello.
Mi presentai circa un’ora prima dell’inizio della conferenza.
Fummo reciprocamente contenti dell’incontro, mi fece tante domande e alla fine della conferenza l’ultimo autobus per Agrigento era partito.
Il prossimo, il giorno dopo. Cercammo una macchina a noleggio, io fui ben contento di accompagnarlo e durante il viaggio parlammo di tante cose, dei miei interessi,di come andavo a scuola ecc. Ci incontrammo di nuovo solo alla vigilia degli esami di abilitazione magistrale, i miei esami di Stato.

Gli manifestai i miei comuni, credo, timori sulla “riuscita” degli esami e ci lasciammo perchè , mi disse, aveva un giro di conferenze.
Una sera, ed era all’incirca la metà di luglio, stavo passeggiando con degli amici, (Lui stava conversando al circolo dei “nobili”) mi fece cenno di sedermi accanto a se e mi disse: “Accomodati, collega”. Ero felice, lo ringraziai caldamente perchè significava che avevo superato gli esami e me lo stava comunicando. Dopo di allora ci siamo visti spesso ma erano solo incontri occasionali. Parlavamo di poesia, mi dava consigli, mi suggeriva delle letture, mi prestava dei libri che riteneva adatti. Parlavamo anche di (gialli) e di Pasolini, mi consigliava di leggere le sue opere,ne esaltava lo stile e la sobrietà. Gli diedi da leggere delle mie poesie che allora mi sembravano dei capolavori ed erano delle semplici esercitazioni.

Alcune in seguito ebbero la sua approvazione, mi disse che potevano essere pubblicate nella rivista che allora dirigeva, ma non se ne fece niente perché sono partito per fare il militare e ci perdemmo di vista.
Nel frattempo era diventata di dominio pubblico la sua grandezza, era uscito “Il Giorno della Civetta” ed io dovevo occuparmi di risolvere i problemi della vita di tutti i giorni e le soluzioni mi portavano ben lontano dalla poesia. Da allora, più nessuno incontro, mi limitavo a leggere i libri che scriveva, le interviste che rilasciava, le notizie che riportavano i giornali. Era un modo di ritrovarsi.

Era un dialogo fra amici in cui le parole non servono.

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica ci racconta, ricordando e commemorando

Il suo Sciascia - Calogero Restivo, raffinata penna paratattica, ci racconta, ricordando e commemorando:

Il fascino della memoria (ricordo di Leonardo Sciascia)

Calogero Restivo
 

Festeggiavo i miei nove anni e finivo di frequentare la terza elementare.
Sono tanti, nove anni, per un ragazzo che è troppo alto per la sua età, non è ripetente ma in ritardo con gli obblighi scolastici.
L’ultimo banco, per gli spilungoni come me, è vissuto come una punizione.
Lontana la cattedra, vista dall’ultimo banco, lontana la lavagna.
Il maestro, nella sua passeggiata tra i banchi, si ferma sempre tra il terzo e quarto posto della fila, dà un’occhiata circolare, un colpo di bacchetta (leggero) sul banco per tramettere autorità e poi torna in cattedra.
Negli ultimi banchi, si sonnecchia, si possono leggere le avventure di Tom Mix, il giornaletto nascosto in mezzo al libro, ma si può essere scoperti se questo accade durante la lettura in classe e ti si chiede di continuare a leggere dal punto in cui si è fermato il compagno.
In questo caso il maestro ti chiama presso di se per farti la ramanzina e poi ti mette in castigo, dietro la lavagna. Così andavano le cose ai miei tempi. Tutte queste cose mi si presentarono alla mente una sera di fine giugno che avevo finito l’ennesimo ripasso delle ultime avventure di Tex Willer e non avevo altro da leggere. Quella sera sono andato ad incontrare mio padre, che rientrava dal lavoro, al ponte Canale, appena fuori dal paese. Si preoccupò, vedendomi, temendo una brutta notizia. Gli dissi semplicemente e velocemente: “L’anno prossimo voglio andare in quinta”. A sera sentivo che ne parlava con mia madre. Passarono alcuni giorni, io facendo lo sciopero del silenzio e quasi della fame che, essendo mingherlino, per mia madre era una cosa grave.La mattina della domenica seguente mio padre mi chiamò “Andiamo dalla maestra Taibi” mi disse. Era, la maestra, una vecchia zitella senza età di cui tutti i ragazzi nutrivano un certo timore reverenziale.
Nelle giornate di vento forte, noi ragazzi, vedendola passare, aspettavamo con un certo cinismo che la parrucca le volasse via, ma lei, conscia del pericolo, con una mano teneva la borsa e l’ombrello e con l’altra la parrucca. Mio padre le espose il caso ed era visibilmente impacciato e nervoso.
Era un lavoratore, rigoroso nel rispetto dell’autorità che chiamava “legge”; aveva poche certezze ma certe: dopo la notte viene il giorno e dopo il quattro viene il cinque e così di seguito. Non capiva la mia richiesta ma l’assecondava.
La maestra ci pensò su qualche minuto ed alla fine sentenziò: “Si può fare”.
Stabilirono che avrei studiato durante l’estate e lei stessa mi avrebbe aiutato a preparare gli esami di settembre.Così iniziò un’ estate fatta di andata e ritorno dal Serrone, dove la maestra aveva una casa in campagna, e la sera a studiare e fare i compiti. Finalmente il giorno degli esami: tre maestri dietro il tavolo a fare domande ed io di fronte, come un accusato, a rispondere. Uno di quei maestri si chiamava Leonardo Sciascia.
Ero preoccupato e spaventato ma l’interrogazione è andata bene e sono stato promosso. Dopo qualche giorno iniziava il nuovo anno scolastico.
Il plesso scolastico detto “La Palma” consta di due edifici perfettamente uguali; in quello di sinistra vi sono (vi erano) le aule maschili ed in quello di destra quelle femminili, tranne due: una, quella d’angolo, era quella del maestro (allora si diceva professore) Sciascia , l’altra di un maestro di cui non ricordo il cognome. I miei compagni non capivano perchè andavo verso l’edificio di destra quando l’aula della quarta era a sinistra; mi chiamavano, mi prendevano un po’ in giro ma andai a destra, nell’aula del maestro Sciascia che faceva la quinta. Per tutto il periodo della scuola media non vi furono molte occasioni di lunghe conversazioni, un saluto se ci incontravamo.
Una sera, ero ospite presso un amico a Ribera, mi dissero che il professore Sciascia avrebbe tenuto una conferenza su Pirandello.
Mi presentai circa un’ora prima dell’inizio della conferenza.
Fummo reciprocamente contenti dell’incontro, mi fece tante domande e alla fine della conferenza l’ultimo autobus per Agrigento era partito.
Il prossimo, il giorno dopo. Cercammo una macchina a noleggio, io fui ben contento di accompagnarlo e durante il viaggio parlammo di tante cose, dei miei interessi,di come andavo a scuola ecc. Ci incontrammo di nuovo solo alla vigilia degli esami di abilitazione magistrale, i miei esami di Stato.
Gli manifestai i miei comuni, credo, timori sulla “riuscita” degli esami e ci lasciammo perchè , mi disse, aveva un giro di conferenze.
Una sera, ed era all’incirca la metà di luglio, stavo passeggiando con degli amici, (Lui stava conversando al circolo dei “nobili”) mi fece cenno di sedermi accanto a se e mi disse: “Accomodati, collega”. Ero felice, lo ringraziai caldamente perchè significava che avevo superato gli esami e me lo stava comunicando. Dopo di allora ci siamo visti spesso ma erano solo incontri occasionali. Parlavamo di poesia, mi dava consigli, mi suggeriva delle letture, mi prestava dei libri che riteneva adatti. Parlavamo anche di (gialli) e di Pasolini, mi consigliava di leggere le sue opere,ne esaltava lo stile e la sobrietà. Gli diedi da leggere delle mie poesie che allora mi sembravano dei capolavori ed erano delle semplici esercitazioni.
Alcune in seguito ebbero la sua approvazione, mi disse che potevano essere pubblicate nella rivista che allora dirigeva, ma non se ne fece niente perché sono partito per fare il militare e ci perdemmo di vista.
Nel frattempo era diventata di dominio pubblico la sua grandezza, era uscito “Il Giorno della Civetta” ed io dovevo occuparmi di risolvere i problemi della vita di tutti i giorni e le soluzioni mi portavano ben lontano dalla poesia. Da allora, più nessuno incontro, mi limitavo a leggere i libri che scriveva, le interviste che rilasciava, le notizie che riportavano i giornali. Era un modo di ritrovarsi.
Era un dialogo fra amici in cui le parole non servono.

Scianna, chi fu mai codesto Scianna? Una specie di fotografo di corte, la corte del grande ma alquanto nevrotico scrittore di Racalmuto, la corte della Noce.

 
 
Scianna, chi fu mai codesto Scianna? Una specie di fotografo di corte, la corte del grande ma alquanto nevrotico scrittore di Racalmuto, la corte della Noce. Molti i chiamati , pochi gli eletti. Sciascia era schifiltoso. Non volle mai dare una mano di aiuto ad un qualche aspirante scrittore suo compaesano, ma ne diede tante a gente che pur scriveva all'incontrario del suo originario calligrafismo ipotattico. Scianna, era fra gli eletti. Costruì foto ad uso e consumo delle voglie del mutevole suo committente. Don Luigino, ormai vecchio e bisognoso, si prestò per una sigaretta a quella irridente foto contro il muro di fronte al deriso Circolo Unione. "Ma don Luigino, non vede che Nanà per poche sigarette la sta sfruttando?" "Per la gloria questo ed altro" rispose piccato il nobilotto mancato in eterna affossatura nella ancora esistente poltrona di vero cuoio antico, sempre di quel circolo.
 
Sciascia in esordio di scrittura, aveva deriso la festa del Monte. "Una pampilonia di festa che nell'ultima settimana di maggio qui esplode insonne e violenta". "Festa rissosa [per celebrare] un miracolo della Madonna di cui fanno fede antiche cronache". "Fiesta per tutti, rossa fiesta., urlante grappolo di gioia." "Accadde una cosa mai vista, tutti in tripudiante accordo i giovani borgesi sollevarono l'uomo di rispetto, per età e corpulenza non ce la faceva, lo issarono sudando fino alla bandiera." "Un'aria di rissa accompagna le manifestazioni religiose cui partecipano gli uomini". "Le donne vanno a piedi scalzi, il sacco del grano, bianco e legato da un fiocco azzurro, in bilico sulla testa; gli uomini cavalcano muli bardati a colori vivaci e tintinnanti di sonagliere, il grano nelle bisacce nuove".
Abbiamo stralciato e quindi falsato, ma per i devoti dello scrittore ormai mitizzato riportiamo scannerizzate pagine sciasciane delle "Parrocchie".
 
Di sicuro il modesto Scianna aveva letto e imparato a memoria gli atti sciasciani, densi di ironia e irreligiosità, cercò di recepire quello Sciascia irridente, suggere quel succo gastrico  saturo di ignava malinconia. Si cimentò nella fotografia lo Scianna. Ce lo vedete Sciascia in questa foto della festa del Monte?
Pietro Tulumello si cimentò anche lui, ma per me il modesto Pietro supera di gran lunga il dovizioso Scianna. Le sue foto sulla festa del Monte sono davvero SCIASCIANE. Io le preferisco e le addito a chi ha gusti alquanto salati rispetto a quelli dei racalmutesi di Ieri o di Oggi.  
 

Caro Sole, ti abbiamo abbandonato


Carissimo Alfredo, figlio mio selettivo,

le due tue ultime lettere che solo ora, di ritorno da Santa Lucia, ho potuto riscontrare mi riempiono di angoscia. Ti vedo per la prima volta virilmente scoraggiato. Ti dovrei dire: ma su col morale. Non me la sento.

Il mio razionale ottimismo mi dice che nel tunnel tremendo della tua disumana espiazione  sta per giungere il punto della svolta,  della speranza, della fine di una lunga notte che dura da 24 anni.

 

So che hai forze intime tali che ti permetteranno di non soccombere.

In definitiva tutti ti abbiamo lasciato solo. Il senatore pietoso Della Vdova e quelli furbarstri dell’agrigentino, le signore pietose che cercavano solo soldi per i loro mariti avvocati in decadenza, gli scrittori racalmutesi che hanno tanto speculato sul tuo caso, i blog di una inesistente regalpetra libera ed anche Malgrado Tutto, ora giornaletto fatuo per la vanesia borghesia della terra di Pirandello e di Sciascia che pur quel giornaletto l’aveva tenuto a battesimo credendo (sperando) che potesse essere cosa diversa dai soliti strumenti servizievoli  rispetto al potere di turno.

Io qui ritorno a pubblicare questa mia e le lettere tue che mi arrivano. Credo che una terza lettera di cui tu parli sia andata smarrita (e non saprei perché).

Da tempi mi chiedevi libri d’arte su Roma dal 1400 al 1700, come dire una biblioteca. Intanto mi sono affrettato a mandarti un pacco con sette chili e mezzo di libri. Una piccola sintesi il libraio me l’ha commissionata ma a stasera non  era ancora arrivata. E domani ritorno in quello che chiamo il mio esilio volontario. Vado a Baccarecce fraz. di Pescorocchiano per cercare di rendere almeno igienico un palazzetto signorile che mia moglie ha ereditato dai suoi.

 

Capisco la tua desolazione e mi compenetro ma vorrei fare qualcosa di concreto. Se penso al tuo collega ostativo di Porto Empedocle che senza manco pentirsi può pubblicare libri e farsi intervistare vestito da Armani, mi riempio d rabbia. Quanto ha contribuito Savatteri o Cavallaro per un empedoclino ed ora nulla  sono capaci di fare per rend

erti “costituzionale” la tua eterna condanna? E anche quel Mangiameli, furbo furbissimo, scrivendo e contumeliando ha benefici carcerari che tu manco te li sogni.

E allora, perché non mi riempi di corrispondenze dal carcere di Opera nella tua pessima calligrafia  che io ben leggo? Le pubblicherei nel mio BLOG CONTRA OMNIA RACALMUTO che è diffuso in mezzo mondo. Posso vantare 570 mila e rotti visitazioni. Inoltre rompendo le palle al mio amico compagno Furfaro credo che diverse tue corrispondenze anche Articolo21  potrebbe pubblicare e là avresti eco sufficiente per diventare anche tu un caso nazionale e credo che giudici, direttori carcerari, secondini e ruffiani dell’antimafia avrebbero di che temere. Non per amore o convinzione, ma per paura finirebbero per concederti quello che ti spetta di cui tu  nelle lettere che mi hai inviato e che mi accingo a pubblicare sciorini in modo per me persino  incomprensibile. Ti abbraccio.





mercoledì 20 maggio 2015

Canicattì


Carissimo Totuccio,

questo vuol essere un primo approccio alla trasmissione. Naturalmente trattasi dell’inizio. Gradisco tue osservazioni anche per modificare il seguito e correggere magari il tiro

Ecco ora la sceneggiatura finale. A te il compito di produrla.

 

 

 

 

ECCLESĺA  CORCINIANA

La città dI CANICATTI’

http://sicilia.indettaglio.it/ita/comuni/ag/canicatti/images/canicatti.jpg

 

 

[Sigla musicale da Le Parrocchie di Girgenti  - scorrono i titoli di testa – avanza il presentatore]

CANICATTi’  eccola di fronte,

nella sua grandezza,

[finiti i titoli di coda, scoppio del sorgere del sole della sinfonia Also Spreach Zarathustra di Strauss]

[carrellata di scorci della Canicattì di oggi che possono vere attinenza – anche larga –con la seguente aggettivazione o i seguenti richiami]

 aggrovigliata, da cima in fondo, inestricabile, disumanamente aggressiva, umanissima, recondita, ammaliante, repulsiva, bella, amabile, con i suoi inestricabili precordi atavici, preistorica

flessa nei tempi di mezzo, imperiosa dopo il tracollo narese dei secoli dei lumi, risplendente sotto i Borboni, esplosiva con i Savoia, egemone nei tempi dell’eldorado solfifero, ferroviaria, traviata dall’abigeato dei primi decenni del XX secolo, ironica e sardonica ma prospera sotto il regime nero, dominatrice con Guarino Amella, espansa nelle connivenze col regime bianco, città dell’uva Italia

[ed ora la musica si intristisce con la patetica di Ciakovskij all’attacco della parte più orecchiabile del primo movimento]

 regressiva per la conquista bancaria del Centro Italia, cedevole alle mire del Monte dei Paschi di  Siena , della banca Popolare di Lodi,  all’irruzione di paoline banche del Nord, alle banche nuove dei vignaioli vicentini. Frattanto le banche locali decrescono e si concedono forse per i figli prodighi dei parsimoniosi padri genuinamente canicattinesi, nobili, estrosi, sardonici, fuori dal tempo.

Vescovi coltissimi, infusori della antica lingua greca nel seminario maggiore agrigentino tornano per un mistero che l’archivio segreto vaticano ancora non rende palese e mal si adattano alle cure delle anime nella grande chiesa madre. Là geni arcipretali, longevissimi sanno essere egemoni, inossidabili, imperiosi, irriducibili. Qualche giudice quasi ragazzino viene assassinato sulla scorrimento veloce del male, della devianza mafiosa

Grande Canicattì

Ma lasciamo la parola allo storico  non indigeno che Canicattì l’ama forse più di noi per averla indagata negli archivi inaccessibili vaticani, in quelli impervi dell’EUR, tra le scartoffie della curia arcivescovile di casa nostra.

 

[Stacco – Entra lo storico non indigeno con la professoressa – la musica ora si avvale del secondo movimento della Sinfonia n. 2 di Malher]

Storico non indigeno: Canicattì domina un’hinterland tutto peculiare, un entroterra tra Agrigento e Caltanissetta, tra Licata e Cammarata e dopo avere assordito il decomporsi della civitas narense soggioga e monopolizza risorse, commercio, professioni di Montedoro, Sutera, Campofranco, Bompensiero, Milena, Racalmuto, Grotte, Castrofilippo, Naro, Sommatino, Delia, Serradifalco (in parte), propaggini di Campobello di Campobello di Licata, Ravanusa e Favara. Trattasi di una landa geologicamente ben specifica e soprattutto di un territorio ove ebbe a prosperare la civiltà sicana. Canicattl ne era allora l’epicentro egemone, la capitale insomma per dirla in termini moderni; Canicattì dopo il miracolo economico degli anni’60 e la bolla speculativa legata allo sfruttamento dell’uva Italia degli anni 80-90 e primo quinquennio del duemila, ora ha segni di cedenza che si spera vengano presto superati e si torni ai tempi aurei dell’economia agricola e del commercio aperto all’estero.

Google Instant non è disponibile. Premi Invio per cercare. Ulteriori informazioni

Google Instant è disattivato a causa della lentezza della connessione. Premi Invio per avviare la ricerca.

Premi Invio per cercare

Apertura…

 

Canicattì AG





Ma com’era Canicattì antica? Esisteva?

Strabone scrive ai tempi di Pompeo: Sicilia sotto il dominio romano. Cicerone aveva gongolato: viva la Sicilia che ha fatto gustare ai romani quanto è bello dominare i popoli- Questo il senso. Se non le parole. In quel periodo a Roma non si sa molto di questo lembo di terra all’interno di Agrigentum.

Sfogliamo quel che si credeva di sapere a Roma circa la nostra terra. Ci sovviene la Geografia di Strabone.

[qualche diapositiva del tipo sotto abbozzate]

Per Strabone, la faccenda dei Sicani – sui quali noi avremo modo di dire molto – si riduce ad un pourparler: “ a quel tempo continuavano a vivere là Siculi, SICANI, Morgeti ed altri ancora …” [v. p. 263]

[La professoressa incalza: allà dietelesan mexri deuro Sikeloi, kai Sikanoi, kai morgetes, kai alloi ….] [pag. 262]

[lo storico stizzito interrompe ….. la musica alza il tono, la telecamera spazio nei dintorni canicattinesi, possibilmente quelli più aridi]

[ Lo storico pare tradurre da Strabone VI, 2,6 pag. 273: in effetti va a ruota libera.]

[ La professoressa, piuttosto saccente, riprende a farfugliare: kai ton barbarihond’ecseleifthesan pollai, kathaper oi Kamikoito Kokalou basileion, par’o Minos dolofonethenai leghetai … [pag.  272]

[all’inizio è discorso fra sordi   … la musica prorompe …. Le immagini scorrono accattivanti: ra è la Canicatti collinare dei vigneti ad avere la meglio…… se fosse possibile filmare allevamenti di animali  sarebbe congruocon quanto andrà a dire lo storico, che finalmente ha il sopravvento.]

 

….. Strabone dice che le città dell’interno ( e si riferisce a Canicattì e dintorni) restavano indigene ma ormai quasi disabitate, eccezion fatta per Camico che si è concordi nel ritenerla Sabt’Angelo Muxaro, specie dopo gli studi di Giovanni Pugliese Carratelli nell’immediato dopoguerra.  Camico è comunque nella parte Nord dell’Agrigentino ed ha storia si dice minoica ma a noi parrebbe civiltà influenzata dai Tirreni, come dire Etruschi. Ne parlamo spesso con una grande archeologa francese, vera specialista di quella civiltà. Non ci segue molto, anche se ammette che nei Peloritani gli Etruschi hanno lasciato tracce. Noi obiettiamo che se gli etruschi con i loro zatteroni riuscivano nella traversata Pyrgi Panormo,  molto più agevole era poi circumnavigare sino all’insenatura di Akragas o di Leocata (s’intende con le approssimazioni che i posteriori toponimi hanno). Mi si chiederà che c’entrano queste dissertazioni con la storia di canicattì: direttamente non molto, ma la circolarità del sapere ci giustifica in queste divagazioni. Anche perché il nostro intento è quello di suscitare polemiche che consentano investimenti nella ricerca archeologica e storica. ECanicattì è per ora terra vergine al riguardo, ma dalle potenzialità insospettate. Cerchiamo di sollevare qualche velo, anche partendo da lontano.

Soggiunge Strabone – ed è passo che strettamente riguarda l’interland canicattinese: «I Romani, resisi conto di questo di questo stato di completo abbandono.

[ La professoressa cerca di leggere in greco le pag. 272 – ultime due righe di pag. 272 e le prime righe di pag. 274, ma viene sommersa dal vocione dello storico e dal sottofondo musicale anche se molto soft a commento delle immagini della Canicattì più florida]

una volta che  ebbero preso possesso delle montagne e delle maggior parti delle pianure, le lasciarono all’allevamento dei cavalli, dei buoi e dei montoni; per opera di questi pastori spesso l’isola corse grandi pericoli. Perché essi dedicandosi dapprima sporadicamente alle rapine, più tardi si unirono fra loro in massa e devastarono le città, come avvenne quando le bande di Eunoo occuparono Enna.»

Entra il presentatore: diciamocelo francamente: niente di nuovo dunque sotto il sole. Certa delinquenza, certa organizzazione mafiosa da queste parti non è dunque faccenda dei tempi nostri!

Lo Storico: non so che dire? Strabone pare che voglia dare una mano a certa nostra lodevole antimafia. Ma torniamo alla storia antica.

… Strabone è quindi lucido nel dirci della fertilità di questi nostri luogi v. Vi,2,7] La fertilità sarebbe superiore a quella dell’Italia quanto a «grano, miele, zafferano ed altri prodotti».

Qui mi deve essere consentita una digressione: ho una partita aperta con il Lenneo racalmutese – il dottor Giovanni Salvo. Ho trovato in autunno una sorta di crocus sotto le grotte di fra Diego a Racalmuto. L’abbiamo filmato in una puntata del nostro Le Parrocchie di Girgenti. Il professore è tato poi caruccio a spiegarci che si trattava di una specie rara di zafferano, lo zaferano giallo. Giallo per un dna del bulboche seppe nutrirsi dei seimenti solfiferi di quelle parti. Sostengo che bisogna farne una coltivazione intensiva per lo sfruttamento alimentare come avviene ad esempio dalle parti dell’Aquila. Con investimenti europei , potrebbero nascere opifici e quindi avoro per i giovani, canicattinesi o racalmutesi che siano, poco importa. Naturalmente il nostro Linneo, astratto teorico e puritano è ferocemente contrario. La natura, per lui, vorrebbe che quei rari fiori autunnali sopravvicano alteri e solitari enza contaminazione umana. Mi pare che stando a Strabone, la natura un tempo la pensasse diversamente.

Come? A questo ed altri quesiti che Strabone , questo storico che scrive in un greco classico, qua e là pone anche relativamente alla nostra Canicattì, sicuramente una qualche risposta l’ha dato un grecista del calibro di mons. FICARRA, canicattinese puro sangue, vescovo in partibus infidelium, come piace scimmiottare a Sciascia e come controbatte Vincenzo Di Natale. Ma le sue carte scientifiche  non sono note, almeno a me. Vi dovrebbero pur essere. Se eredi, letterati e storici, invece di sbranarsi per una faccenda tutto sommato politica e quindi estranea allo spirit ed alla sensibilità di Mons. Ficarra, si dedicassero al ritrovamento e alla pubblicazione di quegli studi dell’insigne grecista, sia pure insignito delle fibule arcìvescovili, ce ne avvantaggeremmo tanto tutti noi, e sicuramente la storia antica canicattinese. Ho scandagliato gli archivi segreti vaticani su mons. Ficarra. Vi è un top secret perché non sono decorsi i canonici settant’anni.Da quello che ho potuto appurare, la politica o i pruriti democristiani di Patti c’entrato poco nella vicenda di mons. Ficarra. Ebbe allora il sopravvento la preoccupazione di un papa come Giovanni XXIII di non tenere più oltre a Patti un prelato che grande studioso non non era molto versato nella gestione delle cose di questa terra in un vescovado piuttosto ribollente. Ricordiamoci che un Sindona in quelle parti nacque e nell’immediato dopoguerra già si avventurava in uno smercio non protocollare del grano di queste nostre parti. Leggere Soldi Truccati di Lombard per credere.

Il presentatore: Dottore, non divaghiamo. Prima dei romani  come era Canicattì?

Lo Storico: allora rifacciamo a TUCIDIDE.

 



Lo Storico non indigeno Ma Canicattì e dintorni sono sicani: lo sono sin dal momento in cui l’homo sapiens sapiens riesce a cavar tombe dalle friabili rocce di talune collinette disseminate nel suo territorio. A Racalmuto preferiscono questi nostri antenati una parete a strapiombo – la così detta Grotta di Fra Diego ed il frate agostiniano dello strano ordine di Centuripe non c’entra nulla; una topica di Sciascia quella – e vi scavano classiche tombe a forno o a grotticella. Tra Sicani, Siculi ed Elimi gli antichi storici vi persero la testa e molte frottole ebbero a raccontarci. La termoluminescenza (versione coars grain)  dell’Università di Catania sta spazzando via tante di queste frottole. L’autorità di un Tucidide ci aveva zittito un po’ tutti e tutti a dire che quei Sicani – cacciati dai Siculi da quel di Catania settecento anni prima della guerra di Troia – erano immigrati “Iberi , stanziati presso il fiume Sicano in Iberia, da dove i Liguri li cacciarono.

[Qui la professoressa comincia a biascicare un improbabile greco: quello leggibile in Tucidide Sikanoi  de met’autous … Tucidide VI 2,2]

Lo Storico …. Ma Tucidide sbaglia quando dice che “secondo la verità che è stata scoperta”, i nostri antenati erano quei poveri Iberi scacciati dai Liguri dal fiume Sicano”. No, caro Tucidide: avevano ragione i nostri antenati quando affermavano che a Canicattì e dintorni vi abitavano da tempo immemorabile e non era vanteria se dicevano che, dopo gli omerici Lestriconi, “i primi a stabilirsi nell’Isola sono stati i Sicani” e ciò “per il fatto di essere indigeni”. Diciamola tutta: passato l’ominide in Homo Sapiens Sapiens nelle ubertose terre del canicattinese vi avevano fatto salubre dimora i nostri Sicani, i nostri progenitori. Quelle pietre amigdaloidane trovate a iosa da altri e  da me alle falde del Castelluccio a Racalmuto (e tante sicuramente a Canicattì) stanno a testimonare che oltre trentamila anni fa vi era presenza umana nelle nostre terre. Quanto ai Sicani, i ricercatori di Milena hanno comprovato che ceramiche sicane ritrovate in quelle località potevano risalire a sette mila/seimila cinquecento anni B.P.. E se vi erano lì, ancor di più vi si devono trovare qui, per non dire a Racalmuto ed in altre località nei dintorni canicattinesi.

Noi storici – piccoli e grandi – facciamo ammenda per esserci troppo avvinghiati alle teoriche tucididee e rispettiamo la rivoluzione della ricerca archeologica. Scatta il problema delle origini dei popoli che tanto sta dando filo da torcere agli scienziati francesi. Un apporto importante può darlo Canicattì con ricerche finalizzate nel suo territorio e soprattutto nelle importantissime necropoli sicane del suoi dintorni, in atto manco inventariati dai Beni Culturali. Ad Agrigento rivestono somma importanza i templi, nessuno osa metterlo in dubbio. Ma ciò non deve impedire di convogliare risorse umane e finanziarie alla valorizzazione della civiltà sicana canicattinese. L’oblio plurisecolare deve essere fugato. E questa trasmissione vuole darne una prima spinta, speriamo proficua.



 

 

 

Post Scriptum: non credo che il materiale sopra segnatp





 [Parte da qui un documentario bene recitato e ben musicato. Le telecamere debbono seguire l’itinerario del Mauceri, l’ingegnere nisseno che percorse l’itinerario sicano da Favarotta a Canicattì – e non badiamo al capello se il centro sicano più affascinante fu scoperto a Pietralonga, erroneamente segnato dai BB.CC come in territorio racalmutese. Fornirò il testo pubblicato nel 1880. La recitazione deve essere affidata ad attrice avvenente. La musica: classica: mi piacerebbe la seconda di Malher.]

[In conclusione un breve dibattito tra lo storico racalmutese e gli studiosi canicattinesi come Augello e la titolare di Vito Soldano ed altri se disponibili o ancora vivi.]

 

 

CALOGERO TAVERNA