sabato 14 gennaio 2017

Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600


Una introduzione è d’obbligo

come giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?


Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.

Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.

Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»

Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?


Il Traina, l’uomo, il vescovo



Ma che vescovo fu codesto monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti. Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono, comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi, dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo confesso, è lo stesso canonico Picella  a farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso la sacra congregazione del Concilio.
Pensate che il Picella fino ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.
Codeste visite a Roma erano diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.
Fra le carte che siamo andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di elucubrazione in diritto, de jure, colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era anche qui una ragione economica. 

L’interdetto comminato al vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la
contesa fu aspra sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità canonicale, converrà con noi su tale assunto.
Vedremo come il canonico Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.
Il Camilleri prende questo vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”, storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia. Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel 1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali, ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione, o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?
Lascia che i morti seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,), l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti protesi a seppellire altri morti?


Cenni biografici del Traina


Per una strana singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente, il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis” celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV – Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i due referenti di fiducia,  il messinese don Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona; possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73 anni. 
Per quel che si vedrà, il medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci  suggeriscono che la mortalità infantile era feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.
Il certificato medico dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare almeno di doverlo sospettare.
Il Traina si proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima, di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus” scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città. et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è fatto in persona di  esso dottor Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è di 48 in 49 anni in circa per quanto
raccoglio dalla sua cognitione, et dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario, anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio.»
Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.
Il de Bardis ci informa che per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta, meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico, attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’ dotato  di grande dottrina ed è molto atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli “paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio, integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”.  Non per nulla il vescovo gli diede licenza di poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della sua vita e costumi.»

Nel gennaio del 1627 giunge al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”, invita “Y Cardinal Barverino”  e firmata da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il semplice taglio burocratico.
Il 10 febbraio il concistoro ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco Barberini, ex fratre germano nepos del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,

Il Blasco si dilunga nella descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti “relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.
Trascriviamo alcuni passi in latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina. 

«Eidem anno, indictione, mense die, et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice Cancellarium  dicti Almi Studij, et solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit tenoris infrascritti videlicet:  
In Nome Domini Amen, Nos don Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et temporalibus Vicarius Cat. sede vacante  ... (solita forma) ... significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum  fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de Mainoin  defectu lectoris  non doctoris etiam Compromotoris, et respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M. Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo  ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus, virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta, dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare confutando ac solvendo de consilio  et pari voto ad d. collegi magistrorum  et doctorum  eundem d. Franciscum nomine approbavimus 

magna cum laude

Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto

Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum solito sigillo mun.  videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque consiliarius etc. ... notum facimus  presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere insignisse  eidemque hab. primam clericalem tonsuram cum ceremonijs  ... etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor temporum  nativitatis, D.N. Jesu Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592

Ego Odoardus Tibaldesius clericus Spoletinae..

E dopo tanto latino che pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della Sicilia.

Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo d.mum d. Franciscum Traynam dignum esse ut  ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem
Cad. Barberinus
Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card. Brandinus
Idem censeo ego C. presb. card. Pius 
Item censeo ego diac. card. Aldobrandini 

Avremmo qui voglia di continuare con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto di fede del futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo nella Santa Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato per cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata almeno rispetto al moderno catechismo.

Giunto il Traina ad Agrigento, inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i canonici del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per la visita alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il vescovo che, nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I canonici attivano gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a Palermo e presso la curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante scomunica da cui sarà assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed altri maggiorenti di Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche Racalmuto sono pronti a dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio dell’Arcivescovo di Palermo. Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la curia vaticana, Ma il re, titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non ammette simili fellonie. Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto scottante per Roma. Il Traina può gongolare. Intanto comincia a provar gusto nell’arricchirsi. Considera serpi in seno i canonici e si avvale in misura crescente dei propri parenti. Il Pirri gli fa visita e l’adula nella sua possente storia religiosa della Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico racalmutese, gli dedica un suo libro di medicina (il peggiore). Tutto sembra volgere al meglio quando scoppiano i tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il nostro discorso critico iniziando con la menzione di quanto, mutando registro, annota nei suoi diari che finiscono pubblici Rocco Pirri.

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