venerdì 9 dicembre 2016

Caso analogo a Racalmuto. Esecuzione avvenuta a lu Chianu Castieddru il 23 novembre del 1811. Non impiccagione  ma decapitazione.  resecatis capite et manibus  scrisse don Paolino Tirone che assistette il delinquente  che poi accompagnò in Matrice per la sepoltura in fovea. In quella che si chiamava carnaria.
 Siamo al tempo in cui gli inglesi insediatisi in   Sicilia a mo' di protettorato dei Borbone si misero a giustiziare con pena di morte briganti di passo.  Anche per Racalmuto si diceva quel distico dialettale: quannu passi di la Turri e don Jacumu nun t' arrobba o don Jacumi nun 'è o è malato.  E pure per il Passo sotto Grotte si diceva altrettanto.  

Eugenio Napoleone Messana parla di questi briganti e forse il dottore Calogero Castronovo di Favara ci potrebbe dire di qualche pronipote di Nureddra.









Carmelo Antinoro
CHI ERA IL BANDITO NUREDDRA? - da un estratto dal libro di Salvatore Bosco: Favara le sue miserie, le sue disarmonie, Maggio 1989 Tipolitografia Moderna Modica
...Qualche vecchio fino a qualche decennio fa raccontava di un molestatore della quiete e della vita dei favaresi, di un bandito chiamato Nureddra. Non possiamo ufficialmente dire alcunché, se non quello che il filone tradizionale ci ha tramandato, forse veritiero o forse in parte frutto della immaginazione dei favaresi. Pensiamo, però, che sopra quello che si è detto intorno a questo personaggio, ci deve essere l’una e l’altra cosa. Sentiamo, dunque, quello che ci viene fornito dalla tradizione e che per questa venne costruito in un lasso di tempo di circa un secolo e più. Di questo bandito non si conoscono antenati né paterni, né materni; sappiamo solo che quando la madre di Giuseppe e Onofrio Marchese litigava con delle donne vicine di casa, nell’impeto del dire le avvertiva dicendo: “Finitela di disturbarmi; sappiate che sono nipote di Nureddra”. Il che voleva significare che se quelle continuavano a disturbarla, reagiva con tutta la pesantezza propria di suo zio Nureddra. Non pare che costui si sia legato, o abbia capeggiato una banda stabile poiché risulta che compiva le sue prodezze quasi sempre da solo. E quando non aveva compagni, più che della forza fisica si serviva della sua efficace astuzia. Il suo scenario d’azione fu prevalentemente il territorio di Favara, e non si allontanò da esso se non quando aveva bisogno di vendere la merce rapita. Spesso le refurtive erano costituite da animali: pecore, capre, buoi, o singoli o a piccoli branchi. Una volta imbattutosi per via con una grossa pattuglia di carabinieri, mentre guidava un piccolo branco di bovini per venderli a dei macellai in un paese vicino, a fine di evitare qualche domanda insidiosa da parte di quelli, che l’avrebbe potuto compromettere, cominciò a fingere di essere quasi disperato nel guidare da solo gli animalacci irrequieti. Indi, rivolto a quelli, - “Vedano, o signori” - disse - “com’è amaro il pane! Il mio padrone poteva almeno darmi un ragazzo per aiutarmi a guidare questi animalacci. Mentre cerco di metterne uno o due sulla via, un altro o altri due scappano fuori dall’armento e vanno a danneggiare il seminato dei campi. Ho un padrone senza cuore!” - “Pazienza, pazienza, buon uomo; cosa volete farci?” - gli risposero quelli, attribuendo sincerità alle parole del bandito. Un’altra volta, avvistato o conosciuto da alcuni compagni d’arme, nella campagna di Maragliano, scappò via di corsa; ma arrivato nella pianura detta Croce Viola, libera e senza anfratti, si vide perduto. Fortunatamente per lui, lungo la via c’erano alcune donne con sulla testa enormi fasci di stoppia. Ad un cenno da lui fatto a quelle sul pericolo che lo sovrastava, posarono a terra i fasci fingendo di riposarsi. E poiché lui era di dimensioni veramente piccole, una di queste se lo nascose sotto la veste, fra le cosce, ma in posizione seduta sopra una pietra. Immediatamente arrivarono le guardie a tutto sperone e domandarono alle donne se avessero visto qualcuno in atto di correre perché inseguito. “Si” - risposero; e la donna che lo teneva fra le cosce aggiunse: “Lo abbiamo visto correre precipitosamente da questa parte qua” - e indicava col braccio il sinuoso vallone che da quel punto scendeva giù verso la contrada di San Benedetto. Quelli vi si mossero al galoppo e Nureddra, raccattata la carabina che precedentemente aveva buttato tra le frasche, con le narici e la gola aiutate di puzza di vulva, ritornò da dov’era venuto. Il suo maggior campo d’azione ladresca era il Poggio di Serra Monello, dove, stando a quanto dice la tradizione, dovette consumare numerose rapine. La frequenza con cui venivano compiute fece, infatti, nascere un detto, assai significativo e occasionalmente ricordato.
Cu passa di Muneddu e u nn’è arrubbatu
o chi Nureddra u nc’è o è malatu.
Da Monello, contrada tra Favara e Castrofilippo, passava l’antica via regia, denominata di funtana d’à, la quale, prima che venisse costruito lo stradale nazionale 122, costituiva l’unico accesso, breve, che da Girgenti, e quindi anche da Favara, portava al grosso borgo agricolo di Canicatti, ricco di fiere, di commercio di animali e d’altri oggetti da mercato. Dato il posto di transito assai frequentato da commercianti e agricoltori, il poggio di Serra Monello dovette offrire al bandito Nureddra esca abbondante per le sue rapine. Stando ai due versi sopra riportati, che ne rilevano la fosca attività, egli dovette aver consumato ripetutamente numerose e fruttuose rapine proprio in quel punto in cui la via si restringe ed è incastrata in un poggio roccioso sovrastato, al lato nord, da grosse pietre che offrivano abbondante schermo all’insaziabile ladro, nonché a quanti altri prima e dopo di lui amavano frequentare quel luogo per tenere attiva la loro natura ladresca. Si racconta che quando era solo riusciva lo stesso a rapinare, in buon numero, i passanti, incutendo loro terrore con un trucco. Sistemava due o tre carabine fra le pietre, sostenute da finte braccia di pupazzi incappucciati, con le canne rivolte ai passanti, i quali, vedendole, pensavano che gli assalitori fossero in molti. In tal modo ingannava le vittime facendo passare loro la voglia di reagire mentre le spogliava del denaro e d’altri oggetti di valore. Era frequente il caso sino ad un cinquantennio fa che talune mamme, di fronte alle insistenti monellerie dei figli, sbraitassero contro di essi attribuendo loro le stesse qualità negative del fuorilegge Nureddra. “Si tintu comu Nuredda, figliu miu; u nn’haiu chi ffari!’.
A quanto scritto la Salvatore Bosco aggiungo una frase che da ragazzino sentivo dire a mio padre quando mio fratello faceva i capricci: “Nni sta facennu quantu Nureddra”. Oltre a quanto a noi pervenuto attraverso i ricordi degli anziani, a sua volta tramandato dagli anziani del loro tempo tramite aneddoti, storielle tra il reale e il surreale, nessuno mai è riuscito a dire, o meglio, a scrivere quanto di vero ci fosse in questo personaggio, ma soprattutto chi era o se fosse frutto della fantasia popolare. Tutto questo è rimasto avvolto nel mistero fino a quando, nel 2015, fra gli atti della madrice di Favara non mi sono imbattuto nell’atto di morte di Nureddra, ma non era un atto come gli altri per via di quello che era stato annotato: Appeso alla forca per mandato del tribunale della R. Corte criminale assieme a Pasquale Romano di Baldassare e Giuseppe Sajeva di Gaspare, entrambi di Girgenti. Ma chi era questo personaggio soprannominato Nureddra? Nome di battesimo Alletti Antonio Diego Giuseppe, nella vita chiamato Decu (Diego), era nato l’11 febbraio 1774 da Vincenzo Alletti e Anna Lauricella soprannominata Patacchi. Catturato venne giustiziato l’8 ottobre 1808 per impiccagione ed il corpo tumulato nelle cripte della preesistente chiesa e convento di S. Francesco fuori l’abitato, abbandonata dai frati pochi anni dopo per via del forte lezzo dei cadaveri che in quella collina venivano portati durante le epidemie e spesso mal sepolti. Diego fu il primogenito di sette figli, in ordine di nascita, Maria, Pasquale, Giuseppe, Calogero, Antonio e Angelo. Quella degli Alletti era una famiglia di contadini e bovari, già presente a Favara nella seconda metà del 1600, con una discendenza ancora oggi presente. Diego il 27 agosto 1797 sposò Diega Matina, di nove anni più giovane, la quale due anni dopo la morte del marito, nel 1810, risposò Antonio Nona; nel 1819 Salvatore Caramazza e nel 1845 Calogero Piscopo. Da questi quattro matrimoni Diega Matina ebbe solo un figlio, nel 1802, da Diego Alletti, di nome Vincenzo, come il nonno. Vincenzo, come da tradizione, faceva il bovaro e il contadino. Nel 1824 sposò Giuseppa Virone, da cui ebbe sei figli tra i quali due morti prematuramente. Gli altri quattro furono Diega che nel 1840 sposò Calogero Santamaria e nel 1846 Martino Messana da cui ebbe nove figli; Salvatore che sposò Antonia Spanò da cui ebbe due figli; Onofrio che nel 1869 sposò Rosa Milioti da cui ebbe sei figli. Di Salvatore Alletti e Antonia Spanò la figlia Giuseppa nel 1879 sposò Salvatore Re, mentre il figlio Vincenzo nel 1888 sposò Giuseppa Fanara, da cui ebbe tre figlie. Di Onofrio Alletti e Rosa Milioti solo tre figlie presero marito: Giuseppa che sposò Gioacchino Lo Porto, Diega che Sposò Antonio Scalia, Antonina che sposò Gaetano Costanza. Di Vincenzo Alletti e Giuseppa Fanara le figlie: Antonia sposò Calogero infurna, Anna sposò Salvatore Biondo, Giuseppa sposò Calogero Patti.

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    Lillo Taverna Lillo Taverna Tutto eccellente meno il fatto che Nureddra abbia potuto avere a che fare con dei carabinieri se devo credere a Carmelo e figurarsi se io non mi inchino alla notarile precisione archivistica di questo gran culture di storia patria.

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