sabato 26 novembre 2016


Le pur venali confessioni di questo vecchio ormai più che novantenne cominciano a trasudare la vera verità di un uomo di grande sucecsso, abile nel mistificare uomini e cose, e soprattutto la veridica storia. Non avevamo avuto mai dubbi: Camilleri sino a quindici anni fu fascista nell'anima e nel corpo, così come il mio superlodato Leonardo Sciascia, che fascista lo fu sino ai suoi venti e più anni.


Interessante la  successiva biforcazine: Camilleri diventa visceralmente comunista; Sciascia visceralmente anticomunista. In entrami i casi due diversi e contrapposti innesti in un identico tronco: quello del afascismo all'italiana maniera  negli abili adattamenti della agrigentina terra dello zolfo. Là dove anche Pirandello poté  attecchire ma come non pentito uomo del FASCIO.

MI CHIEO SE ANCHE IO NON ABBIA SIMILI AGNAZIONI. FIGLIO DELLA LUPA CANDIDO SINO ALL'ETA' DI NOVE ANNI, POI PIANSI IN SEMINARIO QUANDO SEPPI CHE AVEVANO GIUSTIAZIATO MUSSOLINI PER ME IL DUX DELLE EPOPEE RACALMUTESI.

Camilleri ora si dà ad una sorta di resipisenza  esistenziale: non ha voglia di negare le sue propaggini dal fascismo empedoclino. Ci narra del vero fascismo sciasciano,  Ci svela quello che alcuni di noi dicono da tempo: Sciascia tutt'altro che campione dell'antimafia, anzi nostalgico dell'ordine che uomini di onore delle sue zolfare ruscivano ad imporre.

L'ordine nuovo, democratico, è quello  che aborre: quello della Croce e quello contraposto ma ridevole della Falce e Martello. Le due chiese visceralmente abiurate da Sciascia: la cattolica e la comunista. Eppure vive e prospera in entrambe quelle chiese: adulato e vezzezato da quella biancofiore, appetito e ricompensato da quella del labaro rosso.

Nel luglio del 1943, quando appura che i tre marines hanno conquistato Racalmuto, lui piange quasi sia stato violato il sacro suolo dela Patria. Ed ancora nel 1956 le sue intime simpatie politiche sono per il corridore automobilistico, l'aitante e riccco Conte Marzotto: leggere l'ambiguo passo del diario elettorale delle Parrocchie. Mi raccontava Peppi Delfino l'amico del cuore di Sciascia come da attestato nella dedica delle Favole che qui alleghiamo: "Finito l'agone elettorale eravamo angosciati per il risultato catastrofico per le Sinistre. Aspettiamo il nostro guru: Nanà. Arriva tranquillo. 'Nanà guarda come ci è fiinta. 'Ma io ho votato per Marzotto'. L'avremmo strozzato."

Nanà è stato nostalgico del suo infantile ordine nuovo, quello FASCISTA. Ha avuto sempre avversione per il nuovo ORDINE DEMOCRISTIANO,  quelli che "non sapevano bene amministrare" che erano come il "vicino imprevidente ed euforico" che andava in dissesto, Lui come la gente si ammaliava "della garbata critica del buon capo di azienda", quale credeva che fosse Vittorio Marzotto. Non fu profeta; del resto fu solo fallace profeta. Lui agognava "il continente ordinato e pulito, le buone strade, il ballo domenicale, le ragazze in bicicletta, i treni che non conoscono le morte gore delle stazioni, la sirena della fabbrica e la serenità luminosa della casa. E non è dubbio che lui è quel "galantuomo, più aggiornato, che vede in Marzotto il campione dell'anticomunismo illuminato, l'uomo che dà la giusta mercede e il gioco del calcio".

Ecco perché crediamo che Pasolini neppure ebbe e  a leggere le favole della dittatura che pur elogia nel giornale democristiano di Gronchi. Pensiamo di aver bene letto invece noi la panoramica favolistica dell'avversione sciasciana  al nuovo ordine post-fascista  d quella paradigmatica favola dell'ordine nuovo delle scimmie. Facola scritta prima o dopo il suicidio angosciante e travolgente del fratello?


Milano, 18 novembre 2016 - 20:58

Camilleri: «Gli scontri con Sciascia
la vita da cieco e il No al referendum»

Lo scrittore: a volte ho paura del buio, quando sarà il momento vorrei l’eutanasia. Io le riforme le voglio: ma questa è pasticciata



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Novantun anni, 102 libri, 26 milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante che abbiamo. «Vorrei l’eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio Paese».

Il voto sulle riforme
«A guardare l’Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso». Renzi non è un buon presidente del Consiglio? «No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno». Quale? «Mi sfugge, ma c’è». Al referendum andrà a votare? «Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti». Spera nei Cinque Stelle? «Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose». Se vince il No cosa succede? «Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo».
Il padre fascista e Montalbano
«Galantuomo era mio padre Giuseppe, anche se avevamo idee politiche opposte. Lui aveva fatto tutta la Grande guerra nella brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler”. Lealtà, fedeltà alla parola data, ironia, arte di guardare oltre le cose: sotto molti aspetti Montalbano è il ritratto di papà. Fu mia moglie Rosetta a farmelo notare. I padri si innamorano sempre un po’ delle mogli dei figli; e Rosetta a lui ha voluto molto bene».
«Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però il matrimonio dei miei era riuscito. Quando mio padre morì, Turiddu Hamel, il sarto, si inchinò al passaggio della bara. Hamel era l’antifascista del paese. Mi raccontò che, quando stava morendo di fame perché entrava e usciva dal carcere, papà gli aveva commissionato una divisa nera: “E sia chiaro che non lo faccio per sfregio…”. “To patri sapiva campari” mi disse il vecchio sarto: Giuseppe Camilleri sapeva vivere».
La guerra di casa
«Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “A guerra sempre tinta è”, la guerra è sempre cattiva. Anche mio padre la conosceva. E conosceva gli inglesi».
«Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento, Giovanbattista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi riconoscevo. Ma la vera svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La condizione umana di Malraux».
«Nell’estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’era il capo della Hitler Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad annunciare l’Europa di domani: un’enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein Kampf. C’erano ragazzi e ragazze di tutta l’Europa occupata: Francia, Spagna, Polonia, Ungheria; le ungheresi erano bellissime, facemmo amicizia parlando latino. Sul fondale c’era un’enorme bandiera tedesca. Protestai: “Siamo in Italia!”. Così issarono anche un tricolore. Ma Pavolini mi individuò tra la folla, mi chiamò, e mi rifilò un terribile càvucio nei cabasisi: insomma, un calcio nelle palle. Finii in ospedale. Il prefetto, che era amico di mio padre, mi fece trasferire in una clinica privata, nel caso che Pavolini mi avesse cercato».
Lo sbarco in Sicilia
«Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?”. Mi mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte dell’8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando”. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!”. Arrivarono gli americani e abbatterono tutto con i carri armati».
«In testa c’era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una scheggia. Il generale battè con le nocche sull’elmetto del negro, e la jeep si fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono altri sedici uomini. Io ero annichilito dalla paura. L’ultimo mi sorrise e mi parlò: “Ce l’hai tanticchia d’olio, paisà? Agghio cogliuto l’insalatedda…”. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi in un pianto dirotto, e andai a prendere l’olio per l’insalata. Poi chiesi chi fosse l’uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che avemo; ma como omo è fitusu. S’acchiama Patton”».
I litigi con Sciascia
«Noi comunisti siciliani le elezioni le avevamo vinte. Alle Regionali dell’aprile 1947 il Blocco del popolo prese 200 mila voti più della Dc. Il Primo maggio mi ritrovai con gli amici a festeggiare, e mi ubriacai. Arrivò la notizia di Portella della Ginestra: gli agrari avevano fatto sparare sui compagni. Vomitai tutto. Da allora non ho più toccato un goccio di vino».
«Leonardo Sciascia era di un anticomunismo viscerale. Eravamo molto amici, ma abbiamo litigato come pazzi. Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti uguali voiauti comunisti, il partito viene prima della verità e dell’amicizia!”».
«Un’altra cosa non mi convinceva di Sciascia. Nei suoi libri a volte rendeva la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra “uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà”. Leonardo mi chiedeva: ma perché applaudono? “Perché hai sbagliato” gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. “Lei è un uomo” fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà. Eppure a Leonardo ho voluto un bene dell’anima. Andavo di continuo a rileggere i suoi libri. Per me erano come un elettrauto: mi ricaricavano».
La cecità
«Da quando sono diventato cieco, i pensieri tinti mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina, cui detto i libri: è l’unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese. Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta, mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a ricostruire le immagini. L’altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di Piero della Francesca. Ho pensato all’ultima volta che l’ho vista, a Urbino — aprirono il Castello apposta per me —, e l’ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È stato meraviglioso».

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