venerdì 4 novembre 2016

L’altro diploma in caratteri gotici, sempre custodito in Matrice, non dovrebbe riguardare proprio S. Rosalia, anche se la santa vi è citata: al 17° e 18° rigo leggerei “in Sancte Anne et Sancti Joachini ac Annuntiantionis Beate Marie Virginis nec non Sancte Rosalie festivitatibus et devote visitaverint ..”. Lo stato dell’originale e le ampie abrasioni impediscono una più precisa lettura. Dovrebbe però riguardare una bolla pontificia di concessione di indulgenze connesse ad una confraternita che credo essere quella di S. Francesco. Reca infine la data del 1630 [Anno incarnationis dominici Millesimo Sexcentesimo tricesimo Januarij], se non erro. E’ postuma la visita fatta «in hac terra Regalmuti sub die 26 novembris 1726» da parte di un canonico.
Facendo una digressione nella digressione, l’episodio degli 80 cavalieri che portano in piena peste le reliquie di S. Rosalia da Palermo nella chiesa di S. Maria nell’agosto del 1625, dovette restare ben impresso nella memoria dei racalmutesi. Qualcuno, però, si avvalse di quel ricordo per l’esaltazione della propria famiglia. Riporto a tal proposito il seguente passo di Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 104)
«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea. Le figlie erano entrambi (sic) ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al 1598, data della sua morte e vi sarebbero forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del padre, allarmato dell’insurrezione contro il nuovo pretore. In quell’occasione Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero ricondotte al castello sane e salve. La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre. I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...] Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l’Abbazia di Santa Chiara ...»
L’inattendibilità storica, specie sui del Carretto, è fin troppo vistosa. Quanto a donna Aldonza, questa non ebbe mai a maritarsi e fu ospitata, zitella invecchiata, nel monastero di S. Caterina in Palermo. Eugenio Messana non ebbe modo di studiare i documenti che si rinvengono nell’Archivio di Stato di Agrigento per conoscere la vicenda della terribile virago secentesca donna Aldonza del Carretto. In Pirri, ad esempio, vi è qualche spunto per la storia di questa nobildonna. (cfr. pag. 758, op. cit.)
Sul nobile Savatteri, gli archivi parrocchiali smentiscono purtroppo impietosamente. Ma la digressione prova come anche nelle fantasie nobiliari locali vi sia un barlume di storia: il caso citato può a mio avviso collegarsi allo sfilare di cavalieri con le reliquie di S. Rosalia nell’estate del 1625.

La chiesa di S. Rosalia resta funzionante per circa un secolo e mezzo. Nel 1758 essa è ormai quasi cadente: nel libro delle visite pastorali (Archivio Vescovile di Agrigento - Visita del 1758 di Andrea Lucchesi Palli - f. 735) si annota:
«Eodem [giugno 1758] - S.ta Rosalia - Predictus Ill.mus et rev.mus U.J.d. D. Gerlandus Brunone accessit ad visitandam Ecclesiam S.tæ Rosaliæ et dixit:
‘che fosse interdetta fin tanto, che gli altari fossero provveduti delle necessarie suppellettili giusta la forma prescritta dal nostro Ecc.mo Monsig. nelle sue istruzioni della Sagra Visita date in stampa.
La melanconica fine della gloriosa chiesa di S. Rosalia emerge burocraticamente dal Registro dei Vescovi 1792-1793, ff. 570-571, giusta i seguenti termini:
[la parte della pag. 570 che riguarda S. Rosalia reca a fianco annotato: Non abuit effectum e risulta tagliata con un’ampia X, ma la lettura è del pari interessante:] «Rev.do Archip.tero terræ Racalmuti salutem. Restiamo intesi dalle vostre lettere segnate sotto li 21. del mese cadente di Maggio in risposta al nostro ordine colle quali ci rappresentavate, che avendo fatto bandire (bandiare) la Chiesa quasi diruta sotto titolo di S.ta Rosalia, non vi è stata alcuna offerta; solamente codesto Sacerdote Don Salvatore Maria Grillo per sua devozione vuole erigere l’altare a d.a Santa entro codesta Venerabile Chiesa Madre a sue proprie spese una con tutti quelli paramenti per decoro di d.o Altare conservandosi della cessione della medesima Chiesa di S.ta Rosalia, e perciò avete a Noi ricorso per l’ordine opportuno. Dietro il quale fu da Noi fatta ‘provvista] quod fiat ordo Rev. Paroco prout conveni. In seguito di che vi diciamo ed ordiniamo che obligandosi il Rev. di Grillo ad erigere il dovuto Altare con tutte le necessarie decorazioni a proprie spese, ed al mantenimento del medesimo, passerete a stipulare il contratto »
«Rev. Archip.ro Terræ Racalmuti Salutem - Restiamo intesi delle vostre lettere [...] sotto li 21: del p.p. Mese di Maggio colle quali ci partecipate di aver d’ordine nostro fatto subastare per il corso di anni due la ven.le Chiesa di S. Rosalia quasi diruta, e non è stato possibile rinvenire dicitore, che volesse far la sua offerta, solamente codesto Rev.do Salvadore Grillo pella sua pietà e devozione verso d.a gloriosa Santa , ed a preghiere anche dei devoti s’indusse ad acconsentire di erigere d.o Altare e Cappella condecente e congrua in codesta Venerabile Chiesa madre in onore di detta Santa uniformemente di ornato della stessa Chiesa una [f. 571] ... con tutte le decorazioni necessarie a d.o Altare e Cappella, conservandosi della cessione della suddetta Chiesa di S.a Rosaria e Sagrestia annessa, quale offerta fu da voi annunziata, dopo averla fatta mettere all’asta [ subastare?] non fù migliorata da nissuno, e perciò chiede da Noi la licenza per poter passare a stipular contratto di cessione di suddetta Chiesa e Sagrestia in favor di detto di Grillo, obligandosi questo di far sud. Altare e Cappella, con tutta la decorazione necessaria, ed a corrispondenza dell’ornato di detta Chiesa, e come meglio per dette lettere. Dietro le quali fù da noi fatta provvista quod fiat ordo Rev. Archip.ro prout concedit: In seguito di che vi diciamo et ordiniamo che facesse fare la relazione ad un perito Maestro Marammiere di quanto bisogna per l’erezione dell’altare colle dovute decorazioni e valore della chiesa distratta, quale relazione la trasmettirete a Noi. [...] Datis Agrigenti die 3 Junij 1793: Can. Thes.us Caracciolo Vic. Cap.ris , Can. Trapani cancellarius.»
Questo sac. D. Salvatore Maria Grillo - che fa la permuta con la chiesa di S. Rosalia - appare tra i sacerdoti officianti dell’Itria a fine del secolo XVIII, anche se spesso si fa sostituire a pagamento da altri sacerdoti nella celebrazione delle messe dovute per i confrati di quella congregazione.
Nei vari Censimenti custoditi in Matrice figura questo sacerdote, che risulta defunto nel 1806. Eccone qualche dato:
(dal censimento del 1790)
103 GRILLO
Nicolò ROSALIA D.A M - ANTONIO 20 – D. GAETANO 16 - D. GIROLAMO 28 - FILIPPA SERVA – CALOGERA SERVA BARONE
104 GRILLO
Salvadore VENERA SERVA - CHIARENZA FRANCESCA SERVA - D. RAFFAELE 23 NIPOTE

(in quello del 1801, il gruppo familiare risulta così ripartito)
• Rev. Dn Salvadore Grillo - Dn. Raffaele nipote anni 34 - Venera serva - Francesca serva.
• D.n Girolamo Grillo - Dn. Francesca moglie.
• D.n Antonino Grillo libero anni 24 - D.n Gaetano anni 30 - D.n Francesca anni 32 - Filippa serva - Rosalia serva.
Il sac. Salvadore Grillo è, peraltro, soggiogatario piuttosto diligente della Matrice di Racalmuto, come appare nei libri della Fabbrica, proprio durante la gestione del Procuratore Sac. Benedetto Nalbone. Paga come erede di un altro Grillo e, così, dopo il 1806 i suoi eredi.
Credo che ai documenti vescovili prima riportati si riferisse il P. Morreale S.J a pag. 24 della sua op. cit. e da lì abbia tratto la congettura di ubicare la chiesa di S. Rosalia «in fondo alle attuali vie Cavour e baronessa Tulumello». Certo quel Sac. Grillo sembra appartenere alla nota famiglia baronale che ebbe a concentrarsi attorno a quello che oggi viene indicato come ‘Arco di D. Illuminato’, sopra il Collegio. Ma da qui a collocare la chiesetta quasi diruta - fagocitata per poche once da quel prete che tiene in casa una serva a nome Chiarenza [antenata del prete garibaldino racalmutese?] - nelle aree di dominio dei barone Grillo, ce ne corre.
Il testo dell’Arciprete Genco vorrebbe accreditare il canonico Mantione come un dissennato piromane dei documenti comprovanti la nascita a Racalmuto di Rosalia. Quei documenti non poteva distruggerli perché del tutto inesistenti. Se fossero esistiti non sarebbero sfuggiti al puntigliosissimo inquisitore del card. Doria, il p. gesuita Cascini. E gli si sarebbe ulteriormente complicata la vita, già tutt’altro che agevole, dovendo far collimare le tante dicerie sulla nascita di S. Rosalia. Dopo S. Stefano Quisquina - tanto lontana dagli altri posti creduti quelli natali di S. Rosalia come i centri reatini Rocca Sinibalda e Borgorose (un tempo Borgo Collefegato) - ci mancava proprio Racalmuto per la quadratura di quel cerchio nativo di S. Rosalia.
Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una imperdonabile ombra.
A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine).
Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadattata, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.
Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozini nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove inclusa nell’elenco “delle processioni” è quella di “S. ROSALIA”.

La vecchia chiesa di S. Margherita.
Scrive il Pirri:
Antiquissimum est templum olim maius S. Margaritae Virg. ab oppido ad 3 lapidis jactum, anno 1108 de licentia Episcopi Agrigenti a Roberto Malconvenant domino illius agri exctructum, praediisque auctum
Su tale chiesa incombono le decime destinate al 18°. canonicatus . Margaritae [talora 10° Canonicato di Santa Margherita in Racalmuto]. Soggiunge il Netino:
«an. 1398, ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam oppidi unc. 56.» Vi sono in questo passo richiami a documenti della Cancelleria e dei Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi cfr. quelli pubblicati nel 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - beneficia ecclesiastica - a cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI. inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: ‘Auctoritate apostolica in hac parte nobis sufficienter concessa’ notandum est quod Sicilie reges a summis pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est. Nunc autem anno 1511 currente.»
Sulla chiesa abbiamo detto alquanto diffusamente prima. Per correntezza vi facciamo qui generico rinvio.
ARCIPRETI, SACERDOTI, RELIGIOSI E LAICI IN OLTRE DUE SECOLI DI STORIA RACALMUTESE - 1500-1731
Dopo la venuta della Madonna del Monte

Ad Ercole succede nella baronia il figlio Giovanni (il secondo di una serie che arriva a quota cinque). Reperibile a Palermo negli atti del Protonotaro del Regno di Sicilia, un diploma che lo riguarda e che risale al 28 gennaio, VII^ Ind., 1519. In quel torno di tempo capitò ai Del Carretto un intreccio di fatti criminosi che un loro pronipote, Vincenzo Di Giovanni, ebbe poi voglia di raccontare in un suo volume dal titolo Palermo Restaurato, buttato giù subito dopo la celebre peste del 1624.
L’intreccio di omicidi e vendette fra nobili passò alla storia come il caso di Racalmuto, quasi celebre come quello di Sciacca. Un Del Carretto, Paolo, aveva avuto un contrasto con la famiglia Barresi di Castronovo ed al colmo della sua ira ebbe a schiaffeggiare un membro di quella nobile casa. Apriti cielo! Quando codesto Paolo Del Carretto con 25 cavalli andò a visitare don Ercole Del Carretto, signore di Racalmuto, spie avvertirono i Barresi che si mossero verso la piana di San Pietro per tendere un agguato. Ne scaturì una rissa con morti dell’una e dell’altra parte. Paolo del Carretto, il più animoso di tutti, brandiva a destra e a manca il suo pugnale per uccidere senza pietà. Ma una saetta nemica gli si conficcò in fronte e cadde a terra morto stecchito.
I Barresi poterono lavare l’onta subita ma dovettero riparare all’estero, a combattere con il maresciallo di Francia Lautrec, temendo la ritorsione della più potente famiglia dei Del Carretto. Passato un certo tempo, si reputarono al sicuro e tornarono in Sicilia. Morto, frattanto, Ercole Del Carretto, toccava al figlio primogenito Giovanni l’incombenza della vendetta di famiglia. Giovanni del Carretto, neo barone di Racalmuto, non se la sente di affrontare di persona i Barresi. E’ in rapporti di grande amicizia con Enrico Giacchetto di Naro, manigoldo sopraffino, e gli dà l’incarico di punire per suo conto l’oltraggio subìto. Enrico promette e nella città di Termine stermina la famiglia Barresi, che aveva frattanto abbandonato Castronovo. Le teste mozzate furono portate a D. Giovanni a certificazione della consumata vendetta. Il Del Carretto ebbe quindi fastidi dalla giustizia di allora ma col tempo, per dirla con il cronista, “riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.”
Codesto Paolo del Carretto affiora negli archivi della Curia Vescovile Agrigentina. E’ chierico, ossia un ordine minore del tempo che consente il matrimonio ed una normale attività laica. Non certo quella criminale. E’ vessatorio verso Racalmuto, tanto che pacifici cittadini - e persino un prete - gli fanno causa, nonostante i vincoli feudali che si erano già affermati.

Il Sacerdote che contrasta con il chierico del Carretto è don Francesco La Licata, su cui abbiamo i dati forniti dal documento datato 17 maggio 1512 - XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di Racalmuto VITO DE GRACHIO, FRANCESCO DE BONA, JACOBO DE MULÉ, PHILIPPO FANARA, SALVATORE CASUCHIA, GRABIELE LA LICATA, ORLANDO DE MESSANA, PRESBITERO FRANESCO LA LICATA ET STEPHANO DE SANTA LUCIA, a seguito di istanze avanzate alla Gran Regia Curia. L'incarico promanava dal Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto.


Il barone Giovanni Del Carretto, avrà avuto la meglio sulla giustizia terrena, ma nel suo Castello sopra la Fontana la sua coscienza gli rimorse sino alla morte. Cercò di tacitarla facendo sorgere chiese e conventi (San Giuliano, San Francesco, Santa Maria di Juso, il Carmelo). Ebbe ad essere munifico con i preti. Dispose per un avello dovizioso a San Francesco. Fece sorgere confraternite al Monte, a San Giuliano, nella chiesa arcipretile di S. Antonio, a Santa Maria di Jesu. I carmelitani di padre Fanara gli furono devotissimi. I minori conventuali della custodia agrigentina ebbero beni ed onori e poterono officiare nella sontuosa chiesa di S. Francesco. Proprio qui il barone avrebbe voluto la sua tomba.
Ma la quiete dell’anima, in vita, Giovanni Del Carretto non pare l’abbia mai raggiunta.
Abbiamo motivo di ritenere che il figlio Girolamo - primo conte di Racalmuto - ebbe poi voglia di titoli nobiliari altisonanti, che molto denaro gli costò, troppo anche per le sue cospicue disponibilità. Quella cappella, a nostro avviso, non la costruì mai: non emerge dalla documentazione d’archivio, che pure è cospicua in ordine alla chiesa di San Francesco. Per sottrarsi agli obblighi testamentari, che investendo cose di chiesa potevano far scattare temibilissime scomuniche, fu tanto abile da fare incarcerare dal compiacente Santo Ufficio il notaio redigente il testamento. Quel notaio si chiamava - guarda caso - Jacobo Damiano, sì, proprio quello a cui sia Sciascia sia E.N. Messana dedicano la loro attenzione.
Il testamento che gronda spirito cristiano, bontà, benevolenza verso i poveri, rispetto per il clero, devozione, e simili nobiltà d’animo, noi l’abbiamo già pubblicato altrove: la sua consultazione illumina sulla storia (veridica e non fantasiosa) della prima metà del Cinquecento racalmutese. Vi traspare il livello religioso della locale comunità ecclesiale, il culto della Madonna e dei Santi, l’empito morale, la voglia di nuove chiese in cui pregare (ed ove venire sepolti).


Nella prima metà del cinquecento sorgono le prime grandi confraternite racalmutesi. Queste non sono da confondere con le aggregazioni delle maestranze, come si è soliti pensare in forza delle reminiscenze scolastiche. Le confraternite racalmutesi trascendono il dato sociale: vi si associano, tutti insieme ed alla pari, nobili e plebei, mastri e contadini, preti e laici. Hanno essenzialmente la funzione di assicurare la “buona morte” - che equivale ad una sepoltura dignitosa e cristiana nelle chiese che i sodalizi riescono a fabbricare con i mezzi propri e con l’apporto economico determinante del barone locale.
Le confraternite amministrano anche i lasciti - cospicui - che taluni arricchiti, morti senza prole o che intendono punire la poco affidabile vedova, stabiliscono per testamento al fine di dotare un’orfana - purché appartenente al loro ceppo familiare e sempreché sia povera (relativamente).
Le organizzazioni - decisamente laicali, anche se assistite da un cappellano - disponevano di fondi pecuniari da far fruttare. Finivano con lo svolgere attività intermediatrice, si configuravano in modo assimilabile alle moderne banche. Investivano soprattutto in case che affittavano e per contrassegno vi stampavano una figura che richiamava, di norma, la denominazione della confraternita, derivata dalla chiesa in cui avevano sede sociale.
Stando alla visita del 1540-4 del vescovo Tagliavia, si possono ricordare queste istituzioni:
• Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché distrutta - almeno nel 1540 - non era praticabile ed al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, e cioè su 17 corpi di fabbricati, che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava i legati.
• Confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1. Montana mastro Paolo;
2. Cacciatore mastro Paolo;
3. Santa Lucia Cesare;
4. Vaccari Giovanni.
Aveva dodici once di reddito sopra diverse case di proprietà, locate per dodici once.
* Confraternita di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1. Cacciatore mastro Pietro;
2. Vaccari Pietro;
3. de Agrò Mirardo;
4. Fanara Adario.
Aveva quattro once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
• Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1. de Agrò Natale;
2. Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3. Murriali Giuliano;
4. de Alaimo Michele.
Aveva dodici corpi di case in Racalmuto, locate per dieci once all’anno.
• Confraternita di S. Giuliano: ne erano rettori:
1. Curto Angelo;
2. Lauricella Andrea;
3. Curto Stefano;
4. Picuni Antonino.
Aveva una certa rendita in denaro. Ai rettori fu imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.

Le confraternite racalmutesi appaiono come peculiari organizzazioni economiche, con un patrimonio immobiliare abitativo estesissimo, quasi monopolistico; fungono da banche con prestiti a tassi contenuti, quelli ammessi dalla chiesa; amministrano i fondi di dotazione per il matrimonio di orfane povere; e principalmente lucrano con le incombenze della sepoltura dei morti nelle chiese di loro proprietà. Emergono, comunque, due singolari e sorprendenti caratteristiche: la prima è una spiccata laicità, quasi si temesse una indesiderata sopraffazione ecclesiastica. Si badi bene, il sacerdote è bene accetto, ma esso deve limitarsi alla parte spirituale; è il cappellano che dice messa - a pagamento - ed accudisce agli atti di pietà quotidiana. La gestione economica e societaria è però di esclusivo appannaggio dei laici: il governatore, i rettori e figure simili. L’altra caratteristica è un interclassismo del tutto inusitato per i tempi. I cosiddetti “magnifici”, o i “mastri” o i semplici ‘villani’ convivono in un solo sodalizio senza preminenze e senza subordinazioni d’indole classista. C’è chi fa derivare da tali aspetti una forma di vita religiosa racalmutese, senza dubbio sincera e sentita, ma con venature anticlericali. E’ tipicamente racalmutese il motto: “monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini”. Atavica dunque a Racalmuto la separazione tra il mondo di Dio, della religione, della chiesa e quello del consorzio civile specie sotto il profilo economico e sociale. Al contempo, il classismo - o come vorrebbe Gramsci la coscienza di classe - non ha molto senso nella ‘dimora vitale’ racalmutese e da sempre. Solo nell’Ottocento gli arricchiti dello zolfo pretesero una loro egemonia accompagnata a prestigio sociale; si ritennero “galantuomini” e si associarono in loro esclusivi circoli. Nel Novecento tale discriminatoria suddivisione sopravvisse, con i tratti - spesso buffi, e talora beffardi - che Sciascia seppe mirabilmente rappresentare nelle Parrocchie di Regalpetra. Ma tra i vari Circoli Unione o della Concordia e le antiche confraternite cinquecentesche non v’è analogia alcuna.
Le confraternite - che sappiamo essere diffuse in tutta la Sicilia - non vantano ancora una sufficiente pubblicistica, diversamente da quello che avviene, ad esempio, in Francia. Ci pare che solo il padre Sindoni di Caltanissetta se ne sia occupato. Ma da ultimo, mons. Cataldo Naro sta supplendovi alla grande. Alla Matrice sono conservati Rolli ed altri documenti di minuziosa ricognizione della lunga vita di siffatte confraternite. Nessuno, sinora, li ha studiati. Qualche spurio accenno si trova nel libro di padre Morreale sulla Madonna del Monte. Pur nel massimo rispetto per quel grande gesuita, ci pare però che l’approccio è fuorviante ed il peculiare fenomeno racalmutese delle confraternite sfuggì all’intelligenza del colto studioso.

* * *
Nel 1576 Racalmuto assurge a conte e vi si insedia il barone Girolamo Del Carretto, nel frattempo trasferitosi a Palermo . Con riferimento a codesto Del Carretto, assurto dopo tredici anni di baronato racalmutese, al prestigioso titolo di conte - ma lui brigò per il marchesato - Sciascia vibra nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 17), le seguenti scudisciate:
«Ammazzato, da due sicari del barone di Sommatino, morì anche il padre di Girolamo, uomo anch’esso vendicativo ed avido. Il primo Girolamo [appunto quello di cui parliamo] fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito racalmutese [cioè il Tinebra Martorana, n.d.r.]»
Per amore di verità, Girolamo, primo conte di Racalmuto non poté avere dato l’ordine delle frustate ai trenta facchini per il semplice fatto che era morto da sedici anni, essendo deceduto nel 1583 . Viveva a Palermo nel 1600 Giovani IV del Carretto, figlio di Girolamo I. Il pasticcio di ritenere pretore di Palermo, nel 1600, Girolamo I del Carretto che era morto da sedici anni, lo confezionò il Villabianca, che a dire il vero, appena se ne accorse cercò di ovviarvi. Ma lo fece in modo così maldestro che ancora nel 1924 il San Martino de Spucches continua nell’errore villabianchiano. Poco male se il Tinebra Martorana non se ne accorse. Forse Sciascia, poteva essere più avveduto: ma per lui - ed è ovvio - la vicenda dei Del Carretto aveva senso solo se suggeriva metafore letterarie.
Un passo della Morte dell’Inquisitore ci pare invece perspicace ai fini dell’inquadramento storico di questa congiuntura racalmutese (pag. 183): «.. dai documenti del Garufi sappiamo che a Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa cinquemila (il Maggiore-Perni dà 5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per quanto queste cifre siano da accettare con cautela, si può senz’altro ritenere attendibile la flessione ). Vale a dire che il solo Sant’Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende. Ma di racalmutesi caduti nelle grinfie del Sant’Uffizio, prima di fra Diego, ne troviamo uno solo: il notaro Jacobo Damiano, imputato di opinioni luterane ma riconciliato nell’Atto di Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563. Riconciliato : cioè, per manifesto e pubblico pentimento, assolto; ma non senza pena ...».

Per quello che si è visto nel corso di questo lavoro, di sacerdoti racalmutesi addetti al Sant’Uffizio, ne abbiamo trovati parecchi, ma solo a partire dai primi anni del ’Seicento sino ad arrivare all’ultimo che è stato don Francesco Busuito, morto il 29 gennaio 1802 all’età di 74 anni.

Durante il baronato e la contea di Girolamo I Del Carretto, fu intensa la vita civica a Racalmuto. Era da tempo che i vassalli si erano ribellati alle imposizioni feudali, specie quelle del cosiddetto terraggio e terraggiolo. Da ambo le parti erano state sostenute ingenti spese. Un accordo fu trovato il 15 gennaio 1580 (9^ ind.).
E prima, nell’ anno 1577, al suono della campane i racalmutesi si erano congregati nella chiesa dell’Annunziata per cercare un alleggerimento di imposta da parte viceregia, dati i calamitosi tempi seguiti alla peste di alcuni anni prima. Si era avuto il necessario avallo di Girolamo Del Carretto.

Girolamo I Del Carretto non solo, dunque, non fece frustare nel 1600 i facchini di Palermo (diciamo, per precedente morte), ma appare piuttosto benigno verso i suoi vassalli di Racalmuto.

Gli subentrava, alla morte, il figlio primogenito Giovanni IV Del Carretto. Questi fu irrequieto e non si astenne persino dall’omicidio. E’ lui il mandante dell’attentato al Cannita, su cui si dilungano gli storici locali. E’ lui che finisce nel carcere di Castellammare di Palermo, ove era detenuto anche il poeta Antonio Veneziano (perirà questi; si salverà Giovanni del Carretto e Sciascia causticamente punzecchia). E’ lui che ha una caterva di sorelle cui garantire il “paragio” (fra le altre la celebre donna Aldonsa del Carretto, la fondatrice del convento di Santa Chiara a Racalmuto); un figlio spurio di nome Vincenzo diventerà arciprete di Racalmuto nel 1608; l’altra figlia illegittima si sposerà con Girolamo Russo, divenuto governatore del Castello racalmutese. E contro di questi si catapulterà, con la sua pingue mole, il vescovo agrigentino, approdato dalla Spagna, Horozco Covarruvias.
Giovanni IV Del Carretto male visse e peggio morì: trucidato in un attentato a Palermo, lasciò come erede l’infelice Girolamo II Del Carretto, occisus a servo diceva una pergamena custodita entro il sarcofago del Carmine, e suo nipote Giovanni V Del Carretto fu giustiziato a Palermo nel 1650. (Tra quest’ultimo Giovanni e Girolamo II, storici poco accorti hanno intrufolato un altro Giovanni o un altro Girolamo che è solo frutto di confusione e di scarsa avvedutezza nella ricerca storica; anche Sciascia vi casca, ma - ripetesi - lo scrittore non si ritenne mai un erudito di storia locale). L’aneddotica è ricca e non è questa la sede per ripercorrerla.
Nel Cinquecento la storia religiosa racalmutese ha punte di rilievo: inizia nel 1554 un’attività archivistica che risulta oggi un patrimonio unico e mirabile per chi voglia investigare sullo sviluppo demografico del paese. Sono cappellani e preti, eruditi e diligenti che in registri annotano i fatti della vita locale. Una cultura che ravviva la terra misera e tragica del grano e del vino. Sono governatori e rettori delle confraternite che trascrivono nei loro rolli atti e testamenti, disposizioni varie e consegnano alla memoria futura i momenti operosi dei nostri antenati di quel tempo.
Racalmuto conta all’inizio del secolo appena 1670 abitanti ed a chiusura siamo attorno a 4448. Dal 1554, l’evolversi cittadino è segnato passo passo dai tanti deprecati preti: un merito tanto grande quanto misconosciuto. Noi abbiamo spigolato per ricordare di costoro tutto quanto ci è stato possibile sapere.
L’efferata esecuzione antisemita che abbiamo sopra rievocata avvenne nel 1474, quando vescovo di Agrigento era Iohannes de Cardellis seu Cortellis, un benedettino che era stato abbate del Monastero di S. Felice in Bruxelles e che nel 1479 si trasferirà a Patti. Quale peso abbia avuto nel reggere la diocesi, non è dato di sapere. In precedenza, aveva governato la chiesa agrigentina il Beato Matteo de Gimmara, noto per il suo furore nel volere convertire gioco forza gli ebrei agrigentini. Su quell’onda lunga, poté maturare il misfatto contro il povero Sadia di Palermo. Gli ebrei saranno cacciati dall’agrigentino in coincidenza con la scoperta dell’America, nel 1492. La Racalmuto del 1500 era stata dunque ‘epurata’ dei pochi ebrei ivi stanziatisi, forse con una conversione imposta.

Ercole Del Carretto vuol apparire devoto alla Madonna; non avrà voluto grane con gli ecclesiastici ed i suoi vassalli di colpo saranno divenuti ferventi credenti, del tutto ignari di che cosa significasse la circoncisione. Neppure si dovevano rinvenire i celebri marrani: tutti credenti, tutti ariani, tutti cristiani di antica data. Nelle grinfie del Sant’Uffizio, il primo racalmutese - che poi era agrigentino - è stato alla fine del secolo il notaio Jacobo Damiano, come afferma Sciascia, per di più sospetto di essere un luterano. Sangue puro, anche lui, dunque.

Nel 1537 diviene vescovo di Agrigento il nobile Pietro de Tagliavia de Aragona. Apparteneva alla potentissima famiglia dei Tagliavia signori di Castelvetrano. Passerà a reggere la prestigiosissima chiesa metropolitana di Palermo. Giulio III lo eleverà alla porpora cardinalizia.
Il Prelato, nel 1540, manda i suoi visitatori episcopali a Racalmuto e costoro diligentemente ma in modo angusto e burocratico redigono alcune paginette di relazione. E’ la prima descrizione dello stato delle chiese, o meglio è un elenco delle dotazioni, dei “jocalia” posseduti.
Tre anni dopo, il 9 giugno del 1543, il vescovo Tagliavia si reca in pompa magna in questa nostra terra. Sarà stato senza dubbio ospite nel Castello del nobile Giovanni Del Carretto. Della Visita si fa un processo verbale, ma molto stringato; comunque ne scaturisce un quadro generale del clero e delle confraternite di Racalmuto, basilare per una ricostruzione storica di quel tempo.
Quante chiese fossero aperte a Racalmuto a metà del Cinquecento, come erano dotate, quali sacerdoti avessero ruoli egemoni ed uffici di risalto, quali le rendite, chi aveva le primizie e chi le decime, ecco un contesto che scaturisce dal latino incerto di quel pur notevole documento.
In precedenza nel 1520, quando vescovo di Agrigento era Iulianus Cibo, era scoppiata la grana della successione dell’arciprete Giacomo de Salvo. Questi, morto anni prima, aveva lasciato dei beni. Chi subentrava ne reclamava il possesso. Le postulazioni di prelati e di legati palesano il modo scopertamente simoniaco con il quale l’arcipretura di Racalmuto transitava da un beneficiario all’altro. E la corte papale trovava tempo ed interesse ad assegnare quel lontanissimo e sparuto beneficio a protetti, o raccomandati o forse semplicemente acquirenti nel giro dell’ entourage papalino.

Il mercimonio si ripete nel 1561 con la nomina ad arciprete di Racalmuto del sacerdote don Gerlando d’Averna, che, se bene interpretiamo i dati d’archivio della Matrice, era un agrigentino. Prima non abbiamo mancato di riportare ed illustrare i documenti, sinora inediti, che ci rendono edotti di questi spunti di vita ecclesiastica racalmutese. Una caterva di preti piomba da noi, trovando mansioni remunerative. Anche parenti laici seguono il classico ‘zio prete’ e mettono su famiglia; nel tempo il cognome diviene più prosaicamente Taverna. Tra il D’Averna ed il Taverna, i registri della Matrice oscillano per un paio di secoli almeno.


Al D’Averna subentra, nell’arcipretura, il sac. Michele Romano, che muore il 28 luglio 1597. In vita appare un arciprete diligente ed assiduo. Propendiamo per la sua origine racalmutese. Lascia comunque un cospicuo “spoglio”. Il solito vescovo Horozco ne esige la consegna. Ma, più potente ed ammanigliato, sarà il conte Giovanni Del Carretto ad avere la meglio nella vertenza giudiziaria, potendo questi vantare i suoi diritti feudali.
Si rifece il vescovo nominando arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio - un napoletano girovago che aveva favorevolmente testimoniato in Spagna nel processo concistoriale per la concessione della mitra vescovile. Divenuto il Capoccio segretario del neo vescovo agrigentino, deve trattare con la curia romana per uscire dalle pastoie delle “relationes ad limina” che il Concilio di Trento imponeva agli ordinari con cadenza triennale. Nelle carte dell’archivio segreto del Vaticano, lo rinveniamo varie volte presente a Roma. Non ha quindi tempo di recarsi a Racalmuto, neppure per prendere possesso del beneficio. Vi manda suoi delegati, dei canonici che appaiono in uno scandaloso processo per sodomia in cui sono coinvolti ecclesiastici di Cammarata.
Mons. De Gregorio, e dopo di lui lo storico Manduca, tendono ad esaltare quest’ordinario spagnolo. Chissà perché i colti sacerdoti, quando fanno storia, credono che debbano fare apologetica. Chiosare le mende di un vescovo indegno che fece arrabbiare il papa (una annotazione pontificia autografa degli archivi vaticani lo attesta inequivocabilmente) non è poi atto riprovevole, se a compierlo è magari un ecclesiastico.
Tra le carte segrete romane, un cappuccino, uomo del celebre vescovo Didacus de Avedo (Haëdo) - il vescovo del Sant’Uffizio, ordinario prima di Agrigento e poi di Palermo, scarnifica il pingue presule spagnolo con staffilate feroci. Un libello mandato al papa lo vorrebbe:
Scandaloso et scommunicato; Disobediente et lascivo; Scandaloso; (coinvolto in un ) Homicidio; Disobediente della Sede Apostolica; Concurso à laici; Contra il Motu proprio di Sisto; Usurpatore; Subornatore; Scommunicato; Cupido; (affetto da) Pazzia; Sordido; Cupido - Archimista.

E per ognuno di questi epiteti, giù una sfilza di fatti, apprezzamenti, insinuazioni, miserie umane. Non fu certo un caso che lo spagnolo Horozco Covarruvias, imposto dal re Filippo II di Spagna, riuscì a lasciare il vescovado agrigentino per pressioni e raccomandazioni regali e dovette accontentarsi della più angusta diocesi di Cadice, a metà rendita.
Ebbe la beffa di vedersi bruciato un libro, intitolato De Rebus suis, per ordine del Papa, che lo aveva messo all’indice in quanto era un libercolo calunnioso verso la potente famiglia dei Del Porto, ed altri notabili agrigentini. Il Pirri tramanda che il vescovo Didacus de Haedo suum trasmisit vicarium Franciscum Byssum Agrigentum; qui convocato in aede Cathedrali populo die festo coram ipso Episcopo libros flammis vorandis tradidit.
Il Pirri si era prima lasciato andare ad apprezzamenti lusinghieri sul Covarruvias, dichiarandolo uomo di grande erudizione. Invero, il presule spagnolo si faceva tradurre in latino da Sebastiano Bagolino i suoi claudicanti versi. In compenso beneficiò il fratello del poeta siciliano, che era sacerdote, con i beni di S. Agata di Racalmuto. E così i pii legati dei fedeli del nostro paese servirono per pagare gli uzzoli letterari di uno scervellato, che indegnamente occupava la cattedra di S. Gerlando.

* * *
Il Capoccio fu arciprete di Racalmuto per lo spazio di un mattino: inviati i suoi messi don Vito Bellosguardo e don Antonino d’Amato il 16 luglio del 1598, ben prima del marzo del 1600 deve far fagotto. Gli subentra don Andria Argumento, che prende possesso “di la maiori ecclesia di Racalmuto” appunto il 7 marzo XIII ind. 1600.
Il Capoccio era oriundo napoletano. Come mai, dunque, riesce ad accaparrarsi le pingui “primizie” gravanti sui martoriati contadini racalmutesi? Ci viene in soccorso l’archivio segreto vaticano. Abbiamo curiosato nel processo concistoriale per l’elevazione a vescovo di Agrigento del mezzo ebreo Horozco. Il Capoccio vi appare come un perdigiorno, un avventuriero finito chissà perché in quel di Spagna. Si dà da fare e fornisce la sua testimonianza nel canonico processo che si instaura per la elevazione alla dignità episcopale del toletano. Aveva, questi, una macchia - per l’epoca - da tenere nascosta: pena l’indegnità e la non eleggibilità. Non aveva proprio la cosiddetta limpeza de sangre: la madre Maria Valero de Covarruvias era di origine giudea. Il prescelto aveva conseguito appena gli ordini minori il 30 aprile 1573 ed eccolo subito canonico priore della cattedrale di Segovia, senza essere ancora sacerdote (l’ordine maggiore lo conseguirà il 12 maggio 1573). Regge il vescovado di Segovia durante la sede vacante e diviene quindi arcidiacono di Cuéllar. I suoi meriti sono solo quelli della sua famiglia che annovera importanti canonisti e umanisti come Diego e Antonino Covarruvias o come Sebastiano che fu cappellano del Sant’Uffizio.
Un siffatto giovanotto è destinato ad una folgorante carriera: il re di Spagna Filippo II lo impone a Clemente VIII che non può fare a meno di elevarlo a vescovo titolare della prestigiosa cattedra di S. Gerlando. Da un borgognone ad un toletano!
Ma la forma è forma: s’imbastisce il rituale processo in Spagna. Tra i testi, riesce a intrufolarsi il napoletano Capoccio il cui unico titolo è quello della pretesa conoscenza delle cose della Cattedrale di Agrigento presso la quale aveva anni prima brigato. La deposizione del Capoccio è vaga, imprecisa, reticente, incompetente; eppure è sufficiente per fugare gli ostacoli del vigente diritto canonico.
Giunto in pompa magna ad Agrigento, il giovanotto toletano, pingue oltre ogni dire, basito, che sa parlare solo in spagnolo e non comprende né latino, né la lingua italiana, né, tampoco, il vernacolo siciliano, viene raggiunto dal compiacente spergiuro d’origine napoletana.
I Napolitani, i cui meriti tutti riconoscono ma i cui difetti non possono ignorarsi, sono come sono: non sarà parso vero al partenopeo Capoccio di ricattare il neo-vescovo per quella testimonianza spagnola, secretata nei suoi particolari, ma ben presente nella memoria dell’Horozco: una resipiscenza, un pentimento del teste spergiuro ed ecco la revoca!
Capoccio viene subito tacitato con la nomina a segretario; gli vengono affidate locupletanti missioni nell’ostile corte papale. Non basta: i benefici arcipretali racalmutesi sono suoi. E’ lo stesso Horozco che nelle sue relationes ad limina a ragguagliarci della molteplicità e cospicuità di tali gravami ecclesiastici sulla disastrata Racalmuto.

Scrivevo un tempo (op. cit.):

Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare” 9.500 onze di rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
• al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
• tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100 ;
• l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XVI erano chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.

Il Capoccio non é però uomo di valore: lo scontro con gli eventi - che sono aspri, scorticanti, tragici - lo spoglia ed il re appare nudo: uno spettacolo avvilente. L’Horozco lo caccia via e del napoletano non si sa più nulla.

L’appetibile arcipretura di Racalmuto viene affidata a tal Andria Argumento: non racalmutese, di certo; siciliano ad ogni buon conto. Costui si insedia a Racalmuto, come detto, il 7 marzo XIII ind. 1600. Lo troviamo nel sinodo di Giovanni Horozco del 1600-1603: al n.° 7 dei nuovi esaminatori sinodali viene eletto il nostro arciprete che può vantare un dottorato in entrambi i diritti.
In quel sinodo fa capolino don Vito Belguardo che era venuto a Racalmuto come mandatario del Capoccio: ora è canonico con la dotazione della seconda rendita del porto. Dagli incarichi sinodali è puntigliosamente bandito il Capoccio (morto o cacciato via da Agrigento?).

Se Racalmuto ha mantenuto una fede profonda ed incontaminata nonostante l’aggrovigliarsi di siffatti poco commendevoli episodi che sanno per noi moderni di simonia, si deve agli umili sacerdoti autoctoni che sommessamente, ubbidientemente, senza orpelli onorifici, hanno predicato la parola del Signore ed hanno saputo inculcare nel popolo l’insegnamento della Chiesa. A costoro va la perenne gratitudine. Abbiamo cercato di riesumare le poche notizie che su di loro sono ancora reperibili nei polverosi archivi (della Matrice di Racalmuto, o dell’Archivio Vescovile di Agrigento o dell’Archivio di Stato di Agrigento). Il nostro dilungarci su tali aspetti, dovrà essere giustificato da tale intento gratificatorio.


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La microstoria racalmutese del Secolo XVII è fitta di notizie: anche l’esigente Sciascia ammette che ora, sia pure per una felice congiuntura, la storia locale diviene da appena avvertibile in “narrabile”. Nell’aprire la mostra di Pietro d’Asaro, lo scrittore racalmutese, non mostra soverchia considerazione della tanta storia presecentesca e concede la sua attenzione solo a quattro personaggi secenteschi: « ... ora voglio parlare - ebbe a dire - di un piccolo paese, “lontano e solo”, come sperduto nel val di Mazara, diocesi di Girgenti, che dall’oscurità dei secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe “narrabile”, da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un eretico.»
E’ una visione troppo riduttiva, ai nostri occhi, ma è di sicuro mirabilmente provocatoria.
Non pensiamo che il prete Santo d’Agrò sia quello in preda a “deliri erotici”, ad “alumbramiento”; né che Pietro d’Asaro sia stato più un confidente del Sant’Uffizio che un pittore (anche se la sua arte non può essere magnificata, come oggi è di moda); né che Marco Antonio Alaimo sia stato un grande medico (ebbe più celebrità di quanto meritasse); né che Pietro Curto vada al di là di una qualche infarinatura di “scienze metafisiche”; né, tanto meno, che Diego La Matina, cui va la nostra umana pietà, sia stato un eretico di grande statura intellettuale e morale, (per noi: modesto gaglioffo, nerboruto e sensuale, che non sapendo assuefarsi alla rigida regola del periferico convento di S. Giuliano - specie in materia di alimentazione quotidiana - trasmigra a Palermo, sull’onda della rivolta di Giovanni V del Carretto, e vi trova sgherri, carcerazione e la esiziale attenzione del Sant’Uffizio).

Povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ( ) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di letterarie e fantasmatiche mistificazioni.

Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore dell’Inquisizione. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 e, palesemente, non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara annotazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi astrologici del Padre Matranga ( ).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le ladronerie del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli credito quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Bazzicando l’archivio segreto del Vaticano si possono acquisire notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei Del Porto del capoluogo agrigentino.( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva pure intendersene. Dalle sue querule relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che avesse proprio ragione Leonardo Sciascia a autodefinirsi nella « Morte dell’Inquisitore» uno ‘sprovveduto’ sull’argomento.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo infilza «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista, però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione per avergli trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato oltremodo comodo per la sua accusa, anziché abbarbicarsi a tortuosità per conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo grado degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non approda al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo. A quei tempi, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni di nome Nalbone - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )

Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione non era migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo quell’esecuzione capitale, ma, per favore, parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa: terziaria francescana, fu di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.

* * *

Altri, comunque, sono per noi i protagonisti della storia (o microstoria), civile e religiosa, della Racalmuto del Seicento: i dieci arcipreti che si sono succeduti nel secolo; i tanti umili sacerdoti che si sono contraddistinti nelle opere di carità in quei calamitosi tempi, divenuti memorabili (e narrabili) per pesti, morte, miseria, sfruttamenti feudali, e talora neghittosità prelatizia; gli artefici delle sordide pretese dei signori del Castello; ed altri.
Chi furono di dieci arcipreti? Il seguente elenco è tratto dagli studi del Nalbone:

1600 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1602 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1608 VINCENZO DEL CARRETTO ARCIPRETE E NEL 1622 BENEFICIALE E
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
1615 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE "incipit januari 14 ind. 1615"
1616 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE
1632 GIUSEPPE CICIO ARCIPRETE
1634 ANTONINO MOLINARO VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
1645 TOMMASO TRAJNA ARCIPRETE D.S.T.
1645 PIETRO CURTO ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
1649 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE
1654 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE S.T.D.
1654 GIUSEPPE TRAINA PRO-ARCIPRETE SETTEMBRE 1652
1668 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE
1677 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE a 41
1697 FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE

Come si vede, il sacerdote Pietro Curto vi figura come arciprete di Ventimiglia (diocesi di Palermo) e non come colui «che si distinse - parola di Sciascia - a Palermo nelle scienze metafisiche, e che nel 1656 pubblicò un Corso filosofico che spiegavasi in quei tempi nel Collegio massimo dei Gesuiti, che crediamo essere stato quello di Palermo». En passant, il sacerdote Pietro Curto morì il 30 giugno 1647 (cfr. il vario volte citato Liber in quo adnotata ...della Matrice, colonna 3 n.° 52).

Racalmuto, dunque, si affaccia al cupo XVII secolo con una popolazione di 4500 abitanti circa e ne esce con cinquemila fedeli (parola del vescovo Francesco Ramirez, quello che travolse Racalmuto nell’interdetto fulminato per la celebre controversia liparitana). Una crescita limitata, forse per le angherie dei Del Carretto, come vorrebbe Sciascia, ma forse per le due tremende pesti, quella del 1624, molto nota, e quella che dura dal settembre del 1671 all’agosto del 1672 e che sterminò un quarto della popolazione; i morti furono 1260 ed il povero arciprete Lo Brutto, in un momento di profondo sconforto, annotò sul libro dei morti:

INCIPIT INDICTIO Xa AMARISSIMA - In anno milleximo sexcentesimo spetuagesimo primo - INFAUSTISSIMO

La Chiesa racalmutese esordiva sotto la sconcertante giurisdizione del vescovo Horozco e finiva il secolo con una esplosione di preti, conventi, e religiosi del Benefratelli che insediatisi per predilezione di Girolamo III Del Carretto nell’ospedale di S. Giovanni di Dio, scialacquavano le rendite e lasciavano i malati abbandonati a loro stessi.

La pagina del vescovo Ramirez sui preti-esattori dei baroni colpisce ancora: vi sono rappresentate le stigmate dei mafiosi - purtroppo, quelli vecchi - nell’esordio del loro affermarsi nelle plaghe dell’agrigentino: una consacrazione, una profanazione del sacro ordine, un ascendente sacerdotale sul succubo mondo contadino, un potere mutuato dalle autorità dal barone dal politico dal banchiere, l’esercizio di un potere feudale, da un lato; un’organizzazione criminale, un’ abitudine alle armi ed a sapersene servire per intimidazione, assoggettamento, estorsione. Un sincretismo (blasfemo ed agghiacciante) tra religione, crimine, affarismo e prossenetismo politico e giudiziario. Mafia e antimafia messe assieme. Veste sacra e schioppo omicida al servizio del feudatario per lo sfruttamento delle masse contadine. Abbiamo gli embrioni di un’organizzazione che si equipara e sostituisce lo Stato; un ordinamento - direbbe Sante Romano - che sa acquisire quasi l’eticità hegeliana.
L’analisi del Ramirez - per quel che ci risulta - non è stata mai considerata dai colti della mafia e dell’antimafia. Va segnalata.

Il Seicento Racalmutese


Il Seicento inizia con l’uccisione a Palermo, nella via Favara - e non in contrada Ferraro di Racalmuto, come affermano storici locali - del poco virtuoso Giovanni IV Del Carretto. Ecco come un diarista di Palermo raccontò il raccapricciante delitto:
A 5 di maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango] di detto; e ci tirarono dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran maraviglia di tutti li agenti; e finìo.

« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento, dudici spatati, quattro testi, sei destinati , purché non sia lu principali ci avissi fatto detto delitto, et anco la grazia di S. M.».
Il seguito della storia ci è pure noto, sempre per merito di quel diarista palermitano:

«A 20 ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari soliti; e tinni [intendi che tenne forte a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.

«E fu perché il giorno che sindi andâ a li galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travauci certi faldetti che avia arrubati allo Casali.

«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti, ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.

«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».


Giovanni IV Del Carretto lascia un figlioletto (l’unico legittimo) di appena nove anni. Quello che non riuscirà mai più a togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu) di Sciascia, Girolamo II Del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Spettegoliamo anche noi con Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II Del Carretto] stava affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate ai piedi del castello quando il servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che “la morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppellato...».
Ma ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto delle corna del conte. Il priore non era certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed arbitrio...»
Qualche volta siamo stati persino caustici: « Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno beffato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò fece poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S. Lorenzo il 28 ottobre 1654).

Quando facevamo queste considerazioni, non era ancora nota la documentazione del Fondo Palagonia. Quella documentazione restituisce alla verità la faccenda del terraggio e del terraggiolo pretesi dai Del Carretto. Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini abitassero nella terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle imposte cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di frumento per ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio) ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi fecero cause memorabili (e secolari) per sottrarsi e sottrarre dagli odiati terraggio e terraggiolo. La spuntarono solo il 27 settembre 1787.
Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:

«Oltre alle numerose tasse e donativi e imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada di Brenno ... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il terraggio e il terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi di Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però, a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra baronale a terra demaniale, reale.
«Per mettere insieme una tal somma, il Regio Tribunale autorizzò una straordinaria autoimposizione di tasse: ma appena le nuove e straordinarie tasse furono applicate, don Girolamo del Carretto dichiarò che le considerava ordinarie e non in funzione del riscatto. I borgesi, naturalmente, ricorsero: ma la dolorosa questione fu in un certo modo risolta a loro favore solo nel 1784, durante il viceregno del Caracciolo.
«Il priore degli agostiniani e il loro servo di Vita fecero dunque vendetta per tutto un paese, quale che sia stato il pasticciaccio di cui, insieme al defunto e a donna Beatrice, furono protagonisti. (Curiosa è la dicitura di una pergamena posta, quasi certamente un anno dopo, nel sarcofago di granito in cui fu trasferita la salma del conte: dà l'età di donna Beatrice, ventiquattro anni, e tace su quella del conte. Vero è che non disponiamo dell'originale, ma di una copia del 1705; ma non abbiamo ragione di dubitare della fedeltà della trascrizione, dovuta al priore dei carmelitani Giuseppe Poma: e l'originale era stata stilata dal suo predecessore Giovanni Ricci, che forse si permise di tramandare allusivamente una piccola malignità.) [...]

«Dall'anno 1622, in cui fra Diego nacque, al 1658, in cui salì al rogo, i conti del Carretto passarono in rapida successione: Girolamo II, Giovanni V, Girolamo III, Girolamo IV. I del Carretto non avevano vita lunga. E se il secondo Girolamo era morto per mano di un sicario (come del resto anche il padre), il terzo moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza della Sicilia. E non è da credere che si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l'Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti; e, a congiura scoperta, il conte ebbe l'ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona di Spagna era però cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti. Giovanni IV, per esempio, aveva fatto ammazzare un certo Gaspare La Cannita che, appunto, temendo del conte, era venuto da Napoli a Palermo sulla parola del duca d'Alba, viceré, che gli dava guarentigia. E' facile immaginare l'ira del viceré contro il del Carretto: ma si infranse contro la protezione che il Sant'Uffizio accordò al conte, suo familiare. (Questo stesso Giovanni IV troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.
«Della familiarità dei del Carretto col Sant'Uffizio abbiamo altri esempi. Ma qui ci basta notare che a Racalmuto, contro l'eretica pravità e a strumento dei potenti, l'Inquisizione non doveva essere inattiva. [...]
«L'ordine degli agostiniani di sant'Adriano fu fondato nel 1579 da Andrea Guasto da Castrogiovanni: il quale, stabilita coi primi compagni la professione della regola nella chiesa catanese di Sant'Agostino, si trasferì in Centuripe, in luogo quasi allora deserto, e fabbricate anguste celle, pose i rudimenti di vita eremitica, e propagolla in progresso per la Sicilia: notizia che dobbiamo a Vito Amico [Dizionario topografico della Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1859.], e non trova riscontro nelle enciclopedie cattoliche ed ecclesiastiche che abbiamo consultato. Lo stesso Vito Amico dice che il convento di Racalmuto fu dal pio monaco Evodio Poliziense promosso e dal conte Girolamo del Carretto dotato nel 1628. Evidente errore: ché nel 1628 il conte Girolamo era morto da sei anni. Più esatto è il Pirro: S. Iuliani Agustiniani Reformati de S. Adriano ab. an. 1614, rem promovente Hieronymo Comite, opera F. Fuodij Polistensis [R. Pirro, Sicilia Sacra, libro terzo, Palermo 1641].
«In quanto al pio monaco Evodio Poliziense o Fuodio Polistense, si tratta senza dubbio alcuno di quel priore cui dalla leggenda popolare è attribuito il mandato per l'assassinio del conte Girolamo. Infatti il Tinebra Martorana, che non si era preoccupato di consultare in proposito i testi del Pirro e dell'Amico, cade in equivoco quando dice che al priore di questo convento la tradizione serba il nome di frate Odio, riferendosi con ogni probabilità all'azione da lui commessa. Era semplicemente il nome, piuttosto peregrino, di Evodio o Fuodio che nel corso del tempo si era mutato in Odio.»

Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia, invero, gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
* Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ( ) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta in mano della madre e della vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo che risulta il terzo dei Del Carretto con siffatto nome. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,( ) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ( ) ed intentando contro di esso, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante scomunica.

La faccenda del terraggio e del terraggiolo è molto ingarbugliata ma non collima con la versione sciasciana. L’analisi della ponderosa documentazione del Fondo Palagonia potrà dare filo da torcere agli eventuali studiosi di diritto ed economia feudali, con specifico riferimento a Racalmuto: è materiale degno di una qualche tesi universitaria. A dimostrazione del nostro assunto, ci limitiamo a riportare in nota un documento del 1738 . Ma l’intera controversia che dura dal 1580 al 1787 va seguita in tanti documenti del Fondo Palagonia. Una ricognizione piuttosto analitica, ma limitata alla contea del Gaetano è contenuta nelle carte segnate: A.S.P. - fondo palagonia - atti privati . n.° 631 - anni 1502-1706 - n.° 3 - p- 173-240, che sono ben 64 fitte pagine. Abbiamo stralciato, in nota, solo la parte che ci pare riassuma il veridico svolgimento dei fatti, che non ci pare confermino le tesi di Sciascia.


* * *

Andrea d’Argomento, arciprete di Racalmuto ed esaminatore sinodale ad Agrigento, è il dottore in utroque iure che nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.


Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo quella religiosa.


Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV Del Carretto - don Vincenzo Del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Don Vincenzo Del Carretto era stato colpito l’anno precedente dal lutto per la morte del padre (5 di maggio 1608); aveva raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere Conte, ma escludeva i figli illegittimi, e don Vincenzo così era escluso, con suo scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo è il tutore del conte minorenne: nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II Del Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma che tra l’altro recita:
Sotto le quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno campato ed osservato per insino all’anno settima indindizione prox: pass: 1609, nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo scuti trentaquattromila infra quattro mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don Vincenzo Del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte, come si evince da questo stralcio:
Reg.tus Panormi die 3 julij viii ind. 1610
Testes ricepti et examinati per ill.m Regni Siciliae Protonatorum ad instantiam d: Jo: de Viginti Milijs, Marchionis Hieracij, Principis Castriboni, balej et tutoris ill. d. Hieronimi del Carretto Comitis Racalmuti ad verificandam infrascriptam pro investituram capiendam ditti comitatus.
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.) Negli atti vescovili troviamo questa singolare “littera monitoria” ( ):
«Die 3 septembris VII ind. 1622 - Rev. Arc: terrae Racalmuti. Semo stati significati da parti di donna Beatrice Del Carretto e Ventimiglia, contissa di detta Terra, nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto, tuturi et tutrici di li figli et heredi del quondam don Geronimo lo Carretto, olim conti di detta Terra qualmenti li sonno stati robbati, occupati et defraudati molte quantità di oro, argento, ramo, stagni et metalli, robbi bianchi, tila, lana, lina, sita, capi lavorati, come senza, et occupati, scritturi publici et privati, denegati debiti, et nome di debitori; rubato vino di li dispensi, animali grossi, stigli con arnesi, cosi di casa .... In suo grave danno, prejuditio, et ... In forma comuni etc.»
Sembra, dunque, che dopo la morte del conte avvenuta il due ( e non il 6) maggio 1622, una rivolta popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era mera espressione dei Del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo che avrebbe imbandito in modo più succulento la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a sorprendere il prete don Vincenzo del Carretto: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella chiesetta perlomeno sino 1902: il prof. Giuseppe Nalbone ha potuto stilare questo quadro sinottico:

1609 VINCENZO DEL CARRETTO FONDATORE DELLA CHIESA DELL'ITRIA
1632 SANTO D ' AGRO' BENEFICIALE DELL ' ITRIA
1677 STEFANO SAIJA BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1731 PIETRO SIGNORINO BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1736 PIETRO SIGNORINO CAPPEL. ITRIA
1782 NICOLO' AMELLA BENEFIC.S MARIA DELL'ITRIA
1830 CALOGERO PICONE ER.SIGNORINO, CONF, UTR.CH. ITRIA
1902 GIOVANNI PARISI FU VINCENZO MARIA SS. DELL' ITRIA

Don Vincenzo Del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ( ) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:

1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE

Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).


Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con la bolla che abbiamo dianzi illustrata; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese; inizia sotto di lui la controversia per sottrarre Racalmuto dall’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr., 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea ( ) - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere un atto notarile del tempo, per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: doct. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali. ( )


Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.

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