venerdì 4 novembre 2016




L’altro diploma in caratteri gotici, sempre custodito in Matrice, non dovrebbe riguardare proprio S. Rosalia, anche se la santa vi è citata: al 17° e 18° rigo leggerei “in Sancte Anne et Sancti Joachini ac Annuntiantionis Beate Marie Virginis nec non Sancte Rosalie festivitatibus et devote visitaverint ..”. Lo stato dell’originale e le ampie abrasioni impediscono una più precisa lettura. Dovrebbe però riguardare una bolla pontificia di concessione di indulgenze connesse ad una confraternita che credo essere quella di S. Francesco. Reca infine la data del 1630 [Anno incarnationis dominici Millesimo Sexcentesimo tricesimo Januarij], se non erro. E’ postuma la visita fatta «in hac terra Regalmuti sub die 26 novembris 1726» da parte di un canonico.
Facendo una digressione nella digressione, l’episodio degli 80 cavalieri che portano in piena peste le reliquie di S. Rosalia da Palermo nella chiesa di S. Maria nell’agosto del 1625, dovette restare ben impresso nella memoria dei racalmutesi. Qualcuno, però, si avvalse di quel ricordo per l’esaltazione della propria famiglia. Riporto a tal proposito il seguente passo di Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 104)
«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto] aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea. Le figlie erano entrambi (sic) ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al 1598, data della sua morte e vi sarebbero forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del padre, allarmato dell’insurrezione contro il nuovo pretore. In quell’occasione Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero ricondotte al castello sane e salve. La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre. I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al seguito del conte Ruggero [...] Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l’Abbazia di Santa Chiara ...»
L’inattendibilità storica, specie sui del Carretto, è fin troppo vistosa. Quanto a donna Aldonza, questa non ebbe mai a maritarsi e fu ospitata, zitella invecchiata, nel monastero di S. Caterina in Palermo. Eugenio Messana non ebbe modo di studiare i documenti che si rinvengono nell’Archivio di Stato di Agrigento per conoscere la vicenda della terribile virago secentesca donna Aldonza del Carretto. In Pirri, ad esempio, vi è qualche spunto per la storia di questa nobildonna. (cfr. pag. 758, op. cit.)
Sul nobile Savatteri, gli archivi parrocchiali smentiscono purtroppo impietosamente. Ma la digressione prova come anche nelle fantasie nobiliari locali vi sia un barlume di storia: il caso citato può a mio avviso collegarsi allo sfilare di cavalieri con le reliquie di S. Rosalia nell’estate del 1625.

La chiesa di S. Rosalia resta funzionante per circa un secolo e mezzo. Nel 1758 essa è ormai quasi cadente: nel libro delle visite pastorali (Archivio Vescovile di Agrigento - Visita del 1758 di Andrea Lucchesi Palli - f. 735) si annota:
«Eodem [giugno 1758] - S.ta Rosalia - Predictus Ill.mus et rev.mus U.J.d. D. Gerlandus Brunone accessit ad visitandam Ecclesiam S.tæ Rosaliæ et dixit:
‘che fosse interdetta fin tanto, che gli altari fossero provveduti delle necessarie suppellettili giusta la forma prescritta dal nostro Ecc.mo Monsig. nelle sue istruzioni della Sagra Visita date in stampa.
La melanconica fine della gloriosa chiesa di S. Rosalia emerge burocraticamente dal Registro dei Vescovi 1792-1793, ff. 570-571, giusta i seguenti termini:
[la parte della pag. 570 che riguarda S. Rosalia reca a fianco annotato: Non abuit effectum e risulta tagliata con un’ampia X, ma la lettura è del pari interessante:] «Rev.do Archip.tero terræ Racalmuti salutem. Restiamo intesi dalle vostre lettere segnate sotto li 21. del mese cadente di Maggio in risposta al nostro ordine colle quali ci rappresentavate, che avendo fatto bandire (bandiare) la Chiesa quasi diruta sotto titolo di S.ta Rosalia, non vi è stata alcuna offerta; solamente codesto Sacerdote Don Salvatore Maria Grillo per sua devozione vuole erigere l’altare a d.a Santa entro codesta Venerabile Chiesa Madre a sue proprie spese una con tutti quelli paramenti per decoro di d.o Altare conservandosi della cessione della medesima Chiesa di S.ta Rosalia, e perciò avete a Noi ricorso per l’ordine opportuno. Dietro il quale fu da Noi fatta ‘provvista] quod fiat ordo Rev. Paroco prout conveni. In seguito di che vi diciamo ed ordiniamo che obligandosi il Rev. di Grillo ad erigere il dovuto Altare con tutte le necessarie decorazioni a proprie spese, ed al mantenimento del medesimo, passerete a stipulare il contratto »
«Rev. Archip.ro Terræ Racalmuti Salutem - Restiamo intesi delle vostre lettere [...] sotto li 21: del p.p. Mese di Maggio colle quali ci partecipate di aver d’ordine nostro fatto subastare per il corso di anni due la ven.le Chiesa di S. Rosalia quasi diruta, e non è stato possibile rinvenire dicitore, che volesse far la sua offerta, solamente codesto Rev.do Salvadore Grillo pella sua pietà e devozione verso d.a gloriosa Santa , ed a preghiere anche dei devoti s’indusse ad acconsentire di erigere d.o Altare e Cappella condecente e congrua in codesta Venerabile Chiesa madre in onore di detta Santa uniformemente di ornato della stessa Chiesa una [f. 571] ... con tutte le decorazioni necessarie a d.o Altare e Cappella, conservandosi della cessione della suddetta Chiesa di S.a Rosaria e Sagrestia annessa, quale offerta fu da voi annunziata, dopo averla fatta mettere all’asta [ subastare?] non fù migliorata da nissuno, e perciò chiede da Noi la licenza per poter passare a stipular contratto di cessione di suddetta Chiesa e Sagrestia in favor di detto di Grillo, obligandosi questo di far sud. Altare e Cappella, con tutta la decorazione necessaria, ed a corrispondenza dell’ornato di detta Chiesa, e come meglio per dette lettere. Dietro le quali fù da noi fatta provvista quod fiat ordo Rev. Archip.ro prout concedit: In seguito di che vi diciamo et ordiniamo che facesse fare la relazione ad un perito Maestro Marammiere di quanto bisogna per l’erezione dell’altare colle dovute decorazioni e valore della chiesa distratta, quale relazione la trasmettirete a Noi. [...] Datis Agrigenti die 3 Junij 1793: Can. Thes.us Caracciolo Vic. Cap.ris , Can. Trapani cancellarius.»
Questo sac. D. Salvatore Maria Grillo - che fa la permuta con la chiesa di S. Rosalia - appare tra i sacerdoti officianti dell’Itria a fine del secolo XVIII, anche se spesso si fa sostituire a pagamento da altri sacerdoti nella celebrazione delle messe dovute per i confrati di quella congregazione.
Nei vari Censimenti custoditi in Matrice figura questo sacerdote, che risulta defunto nel 1806. Eccone qualche dato:
(dal censimento del 1790)
103 GRILLO
Nicolò ROSALIA D.A M - ANTONIO 20 – D. GAETANO 16 - D. GIROLAMO 28 - FILIPPA SERVA – CALOGERA SERVA BARONE
104 GRILLO
Salvadore VENERA SERVA - CHIARENZA FRANCESCA SERVA - D. RAFFAELE 23 NIPOTE

(in quello del 1801, il gruppo familiare risulta così ripartito)
• Rev. Dn Salvadore Grillo - Dn. Raffaele nipote anni 34 - Venera serva - Francesca serva.
• D.n Girolamo Grillo - Dn. Francesca moglie.
• D.n Antonino Grillo libero anni 24 - D.n Gaetano anni 30 - D.n Francesca anni 32 - Filippa serva - Rosalia serva.
Il sac. Salvadore Grillo è, peraltro, soggiogatario piuttosto diligente della Matrice di Racalmuto, come appare nei libri della Fabbrica, proprio durante la gestione del Procuratore Sac. Benedetto Nalbone. Paga come erede di un altro Grillo e, così, dopo il 1806 i suoi eredi.
Credo che ai documenti vescovili prima riportati si riferisse il P. Morreale S.J a pag. 24 della sua op. cit. e da lì abbia tratto la congettura di ubicare la chiesa di S. Rosalia «in fondo alle attuali vie Cavour e baronessa Tulumello». Certo quel Sac. Grillo sembra appartenere alla nota famiglia baronale che ebbe a concentrarsi attorno a quello che oggi viene indicato come ‘Arco di D. Illuminato’, sopra il Collegio. Ma da qui a collocare la chiesetta quasi diruta - fagocitata per poche once da quel prete che tiene in casa una serva a nome Chiarenza [antenata del prete garibaldino racalmutese?] - nelle aree di dominio dei barone Grillo, ce ne corre.
Il testo dell’Arciprete Genco vorrebbe accreditare il canonico Mantione come un dissennato piromane dei documenti comprovanti la nascita a Racalmuto di Rosalia. Quei documenti non poteva distruggerli perché del tutto inesistenti. Se fossero esistiti non sarebbero sfuggiti al puntigliosissimo inquisitore del card. Doria, il p. gesuita Cascini. E gli si sarebbe ulteriormente complicata la vita, già tutt’altro che agevole, dovendo far collimare le tante dicerie sulla nascita di S. Rosalia. Dopo S. Stefano Quisquina - tanto lontana dagli altri posti creduti quelli natali di S. Rosalia come i centri reatini Rocca Sinibalda e Borgorose (un tempo Borgo Collefegato) - ci mancava proprio Racalmuto per la quadratura di quel cerchio nativo di S. Rosalia.
Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una imperdonabile ombra.
A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine).
Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadattata, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.
Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozini nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove inclusa nell’elenco “delle processioni” è quella di “S. ROSALIA”.

La vecchia chiesa di S. Margherita.
Scrive il Pirri:
Antiquissimum est templum olim maius S. Margaritae Virg. ab oppido ad 3 lapidis jactum, anno 1108 de licentia Episcopi Agrigenti a Roberto Malconvenant domino illius agri exctructum, praediisque auctum
Su tale chiesa incombono le decime destinate al 18°. canonicatus . Margaritae [talora 10° Canonicato di Santa Margherita in Racalmuto]. Soggiunge il Netino:
«an. 1398, ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam oppidi unc. 56.» Vi sono in questo passo richiami a documenti della Cancelleria e dei Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi cfr. quelli pubblicati nel 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - beneficia ecclesiastica - a cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI. inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: ‘Auctoritate apostolica in hac parte nobis sufficienter concessa’ notandum est quod Sicilie reges a summis pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est. Nunc autem anno 1511 currente.»
Sulla chiesa abbiamo detto alquanto diffusamente prima. Per correntezza vi facciamo qui generico rinvio.
ARCIPRETI, SACERDOTI, RELIGIOSI E LAICI IN OLTRE DUE SECOLI DI STORIA RACALMUTESE - 1500-1731
Dopo la venuta della Madonna del Monte

Ad Ercole succede nella baronia il figlio Giovanni (il secondo di una serie che arriva a quota cinque). Reperibile a Palermo negli atti del Protonotaro del Regno di Sicilia, un diploma che lo riguarda e che risale al 28 gennaio, VII^ Ind., 1519. In quel torno di tempo capitò ai Del Carretto un intreccio di fatti criminosi che un loro pronipote, Vincenzo Di Giovanni, ebbe poi voglia di raccontare in un suo volume dal titolo Palermo Restaurato, buttato giù subito dopo la celebre peste del 1624.
L’intreccio di omicidi e vendette fra nobili passò alla storia come il caso di Racalmuto, quasi celebre come quello di Sciacca. Un Del Carretto, Paolo, aveva avuto un contrasto con la famiglia Barresi di Castronovo ed al colmo della sua ira ebbe a schiaffeggiare un membro di quella nobile casa. Apriti cielo! Quando codesto Paolo Del Carretto con 25 cavalli andò a visitare don Ercole Del Carretto, signore di Racalmuto, spie avvertirono i Barresi che si mossero verso la piana di San Pietro per tendere un agguato. Ne scaturì una rissa con morti dell’una e dell’altra parte. Paolo del Carretto, il più animoso di tutti, brandiva a destra e a manca il suo pugnale per uccidere senza pietà. Ma una saetta nemica gli si conficcò in fronte e cadde a terra morto stecchito.
I Barresi poterono lavare l’onta subita ma dovettero riparare all’estero, a combattere con il maresciallo di Francia Lautrec, temendo la ritorsione della più potente famiglia dei Del Carretto. Passato un certo tempo, si reputarono al sicuro e tornarono in Sicilia. Morto, frattanto, Ercole Del Carretto, toccava al figlio primogenito Giovanni l’incombenza della vendetta di famiglia. Giovanni del Carretto, neo barone di Racalmuto, non se la sente di affrontare di persona i Barresi. E’ in rapporti di grande amicizia con Enrico Giacchetto di Naro, manigoldo sopraffino, e gli dà l’incarico di punire per suo conto l’oltraggio subìto. Enrico promette e nella città di Termine stermina la famiglia Barresi, che aveva frattanto abbandonato Castronovo. Le teste mozzate furono portate a D. Giovanni a certificazione della consumata vendetta. Il Del Carretto ebbe quindi fastidi dalla giustizia di allora ma col tempo, per dirla con il cronista, “riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.”
Codesto Paolo del Carretto affiora negli archivi della Curia Vescovile Agrigentina. E’ chierico, ossia un ordine minore del tempo che consente il matrimonio ed una normale attività laica. Non certo quella criminale. E’ vessatorio verso Racalmuto, tanto che pacifici cittadini - e persino un prete - gli fanno causa, nonostante i vincoli feudali che si erano già affermati.

Il Sacerdote che contrasta con il chierico del Carretto è don Francesco La Licata, su cui abbiamo i dati forniti dal documento datato 17 maggio 1512 - XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di Racalmuto VITO DE GRACHIO, FRANCESCO DE BONA, JACOBO DE MULÉ, PHILIPPO FANARA, SALVATORE CASUCHIA, GRABIELE LA LICATA, ORLANDO DE MESSANA, PRESBITERO FRANESCO LA LICATA ET STEPHANO DE SANTA LUCIA, a seguito di istanze avanzate alla Gran Regia Curia. L'incarico promanava dal Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto.


Il barone Giovanni Del Carretto, avrà avuto la meglio sulla giustizia terrena, ma nel suo Castello sopra la Fontana la sua coscienza gli rimorse sino alla morte. Cercò di tacitarla facendo sorgere chiese e conventi (San Giuliano, San Francesco, Santa Maria di Juso, il Carmelo). Ebbe ad essere munifico con i preti. Dispose per un avello dovizioso a San Francesco. Fece sorgere confraternite al Monte, a San Giuliano, nella chiesa arcipretile di S. Antonio, a Santa Maria di Jesu. I carmelitani di padre Fanara gli furono devotissimi. I minori conventuali della custodia agrigentina ebbero beni ed onori e poterono officiare nella sontuosa chiesa di S. Francesco. Proprio qui il barone avrebbe voluto la sua tomba.
Ma la quiete dell’anima, in vita, Giovanni Del Carretto non pare l’abbia mai raggiunta.
Abbiamo motivo di ritenere che il figlio Girolamo - primo conte di Racalmuto - ebbe poi voglia di titoli nobiliari altisonanti, che molto denaro gli costò, troppo anche per le sue cospicue disponibilità. Quella cappella, a nostro avviso, non la costruì mai: non emerge dalla documentazione d’archivio, che pure è cospicua in ordine alla chiesa di San Francesco. Per sottrarsi agli obblighi testamentari, che investendo cose di chiesa potevano far scattare temibilissime scomuniche, fu tanto abile da fare incarcerare dal compiacente Santo Ufficio il notaio redigente il testamento. Quel notaio si chiamava - guarda caso - Jacobo Damiano, sì, proprio quello a cui sia Sciascia sia E.N. Messana dedicano la loro attenzione.
Il testamento che gronda spirito cristiano, bontà, benevolenza verso i poveri, rispetto per il clero, devozione, e simili nobiltà d’animo, noi l’abbiamo già pubblicato altrove: la sua consultazione illumina sulla storia (veridica e non fantasiosa) della prima metà del Cinquecento racalmutese. Vi traspare il livello religioso della locale comunità ecclesiale, il culto della Madonna e dei Santi, l’empito morale, la voglia di nuove chiese in cui pregare (ed ove venire sepolti).


Nella prima metà del cinquecento sorgono le prime grandi confraternite racalmutesi. Queste non sono da confondere con le aggregazioni delle maestranze, come si è soliti pensare in forza delle reminiscenze scolastiche. Le confraternite racalmutesi trascendono il dato sociale: vi si associano, tutti insieme ed alla pari, nobili e plebei, mastri e contadini, preti e laici. Hanno essenzialmente la funzione di assicurare la “buona morte” - che equivale ad una sepoltura dignitosa e cristiana nelle chiese che i sodalizi riescono a fabbricare con i mezzi propri e con l’apporto economico determinante del barone locale.
Le confraternite amministrano anche i lasciti - cospicui - che taluni arricchiti, morti senza prole o che intendono punire la poco affidabile vedova, stabiliscono per testamento al fine di dotare un’orfana - purché appartenente al loro ceppo familiare e sempreché sia povera (relativamente).
Le organizzazioni - decisamente laicali, anche se assistite da un cappellano - disponevano di fondi pecuniari da far fruttare. Finivano con lo svolgere attività intermediatrice, si configuravano in modo assimilabile alle moderne banche. Investivano soprattutto in case che affittavano e per contrassegno vi stampavano una figura che richiamava, di norma, la denominazione della confraternita, derivata dalla chiesa in cui avevano sede sociale.
Stando alla visita del 1540-4 del vescovo Tagliavia, si possono ricordare queste istituzioni:
• Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché distrutta - almeno nel 1540 - non era praticabile ed al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, e cioè su 17 corpi di fabbricati, che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava i legati.
• Confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1. Montana mastro Paolo;
2. Cacciatore mastro Paolo;
3. Santa Lucia Cesare;
4. Vaccari Giovanni.
Aveva dodici once di reddito sopra diverse case di proprietà, locate per dodici once.
* Confraternita di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1. Cacciatore mastro Pietro;
2. Vaccari Pietro;
3. de Agrò Mirardo;
4. Fanara Adario.
Aveva quattro once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
• Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1. de Agrò Natale;
2. Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3. Murriali Giuliano;
4. de Alaimo Michele.
Aveva dodici corpi di case in Racalmuto, locate per dieci once all’anno.
• Confraternita di S. Giuliano: ne erano rettori:
1. Curto Angelo;
2. Lauricella Andrea;
3. Curto Stefano;
4. Picuni Antonino.
Aveva una certa rendita in denaro. Ai rettori fu imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.

Le confraternite racalmutesi appaiono come peculiari organizzazioni economiche, con un patrimonio immobiliare abitativo estesissimo, quasi monopolistico; fungono da banche con prestiti a tassi contenuti, quelli ammessi dalla chiesa; amministrano i fondi di dotazione per il matrimonio di orfane povere; e principalmente lucrano con le incombenze della sepoltura dei morti nelle chiese di loro proprietà. Emergono, comunque, due singolari e sorprendenti caratteristiche: la prima è una spiccata laicità, quasi si temesse una indesiderata sopraffazione ecclesiastica. Si badi bene, il sacerdote è bene accetto, ma esso deve limitarsi alla parte spirituale; è il cappellano che dice messa - a pagamento - ed accudisce agli atti di pietà quotidiana. La gestione economica e societaria è però di esclusivo appannaggio dei laici: il governatore, i rettori e figure simili. L’altra caratteristica è un interclassismo del tutto inusitato per i tempi. I cosiddetti “magnifici”, o i “mastri” o i semplici ‘villani’ convivono in un solo sodalizio senza preminenze e senza subordinazioni d’indole classista. C’è chi fa derivare da tali aspetti una forma di vita religiosa racalmutese, senza dubbio sincera e sentita, ma con venature anticlericali. E’ tipicamente racalmutese il motto: “monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini”. Atavica dunque a Racalmuto la separazione tra il mondo di Dio, della religione, della chiesa e quello del consorzio civile specie sotto il profilo economico e sociale. Al contempo, il classismo - o come vorrebbe Gramsci la coscienza di classe - non ha molto senso nella ‘dimora vitale’ racalmutese e da sempre. Solo nell’Ottocento gli arricchiti dello zolfo pretesero una loro egemonia accompagnata a prestigio sociale; si ritennero “galantuomini” e si associarono in loro esclusivi circoli. Nel Novecento tale discriminatoria suddivisione sopravvisse, con i tratti - spesso buffi, e talora beffardi - che Sciascia seppe mirabilmente rappresentare nelle Parrocchie di Regalpetra. Ma tra i vari Circoli Unione o della Concordia e le antiche confraternite cinquecentesche non v’è analogia alcuna.
Le confraternite - che sappiamo essere diffuse in tutta la Sicilia - non vantano ancora una sufficiente pubblicistica, diversamente da quello che avviene, ad esempio, in Francia. Ci pare che solo il padre Sindoni di Caltanissetta se ne sia occupato. Ma da ultimo, mons. Cataldo Naro sta supplendovi alla grande. Alla Matrice sono conservati Rolli ed altri documenti di minuziosa ricognizione della lunga vita di siffatte confraternite. Nessuno, sinora, li ha studiati. Qualche spurio accenno si trova nel libro di padre Morreale sulla Madonna del Monte. Pur nel massimo rispetto per quel grande gesuita, ci pare però che l’approccio è fuorviante ed il peculiare fenomeno racalmutese delle confraternite sfuggì all’intelligenza del colto studioso.

* * *
Nel 1576 Racalmuto assurge a conte e vi si insedia il barone Girolamo Del Carretto, nel frattempo trasferitosi a Palermo . Con riferimento a codesto Del Carretto, assurto dopo tredici anni di baronato racalmutese, al prestigioso titolo di conte - ma lui brigò per il marchesato - Sciascia vibra nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 17), le seguenti scudisciate:
«Ammazzato, da due sicari del barone di Sommatino, morì anche il padre di Girolamo, uomo anch’esso vendicativo ed avido. Il primo Girolamo [appunto quello di cui parliamo] fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito racalmutese [cioè il Tinebra Martorana, n.d.r.]»
Per amore di verità, Girolamo, primo conte di Racalmuto non poté avere dato l’ordine delle frustate ai trenta facchini per il semplice fatto che era morto da sedici anni, essendo deceduto nel 1583 . Viveva a Palermo nel 1600 Giovani IV del Carretto, figlio di Girolamo I. Il pasticcio di ritenere pretore di Palermo, nel 1600, Girolamo I del Carretto che era morto da sedici anni, lo confezionò il Villabianca, che a dire il vero, appena se ne accorse cercò di ovviarvi. Ma lo fece in modo così maldestro che ancora nel 1924 il San Martino de Spucches continua nell’errore villabianchiano. Poco male se il Tinebra Martorana non se ne accorse. Forse Sciascia, poteva essere più avveduto: ma per lui - ed è ovvio - la vicenda dei Del Carretto aveva senso solo se suggeriva metafore letterarie.
Un passo della Morte dell’Inquisitore ci pare invece perspicace ai fini dell’inquadramento storico di questa congiuntura racalmutese (pag. 183): «.. dai documenti del Garufi sappiamo che a Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa cinquemila (il Maggiore-Perni dà 5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per quanto queste cifre siano da accettare con cautela, si può senz’altro ritenere attendibile la flessione ). Vale a dire che il solo Sant’Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende. Ma di racalmutesi caduti nelle grinfie del Sant’Uffizio, prima di fra Diego, ne troviamo uno solo: il notaro Jacobo Damiano, imputato di opinioni luterane ma riconciliato nell’Atto di Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563. Riconciliato : cioè, per manifesto e pubblico pentimento, assolto; ma non senza pena ...».

Per quello che si è visto nel corso di questo lavoro, di sacerdoti racalmutesi addetti al Sant’Uffizio, ne abbiamo trovati parecchi, ma solo a partire dai primi anni del ’Seicento sino ad arrivare all’ultimo che è stato don Francesco Busuito, morto il 29 gennaio 1802 all’età di 74 anni.

Durante il baronato e la contea di Girolamo I Del Carretto, fu intensa la vita civica a Racalmuto. Era da tempo che i vassalli si erano ribellati alle imposizioni feudali, specie quelle del cosiddetto terraggio e terraggiolo. Da ambo le parti erano state sostenute ingenti spese. Un accordo fu trovato il 15 gennaio 1580 (9^ ind.).
E prima, nell’ anno 1577, al suono della campane i racalmutesi si erano congregati nella chiesa dell’Annunziata per cercare un alleggerimento di imposta da parte viceregia, dati i calamitosi tempi seguiti alla peste di alcuni anni prima. Si era avuto il necessario avallo di Girolamo Del Carretto.

Girolamo I Del Carretto non solo, dunque, non fece frustare nel 1600 i facchini di Palermo (diciamo, per precedente morte), ma appare piuttosto benigno verso i suoi vassalli di Racalmuto.

Gli subentrava, alla morte, il figlio primogenito Giovanni IV Del Carretto. Questi fu irrequieto e non si astenne persino dall’omicidio. E’ lui il mandante dell’attentato al Cannita, su cui si dilungano gli storici locali. E’ lui che finisce nel carcere di Castellammare di Palermo, ove era detenuto anche il poeta Antonio Veneziano (perirà questi; si salverà Giovanni del Carretto e Sciascia causticamente punzecchia). E’ lui che ha una caterva di sorelle cui garantire il “paragio” (fra le altre la celebre donna Aldonsa del Carretto, la fondatrice del convento di Santa Chiara a Racalmuto); un figlio spurio di nome Vincenzo diventerà arciprete di Racalmuto nel 1608; l’altra figlia illegittima si sposerà con Girolamo Russo, divenuto governatore del Castello racalmutese. E contro di questi si catapulterà, con la sua pingue mole, il vescovo agrigentino, approdato dalla Spagna, Horozco Covarruvias.
Giovanni IV Del Carretto male visse e peggio morì: trucidato in un attentato a Palermo, lasciò come erede l’infelice Girolamo II Del Carretto, occisus a servo diceva una pergamena custodita entro il sarcofago del Carmine, e suo nipote Giovanni V Del Carretto fu giustiziato a Palermo nel 1650. (Tra quest’ultimo Giovanni e Girolamo II, storici poco accorti hanno intrufolato un altro Giovanni o un altro Girolamo che è solo frutto di confusione e di scarsa avvedutezza nella ricerca storica; anche Sciascia vi casca, ma - ripetesi - lo scrittore non si ritenne mai un erudito di storia locale). L’aneddotica è ricca e non è questa la sede per ripercorrerla.
Nel Cinquecento la storia religiosa racalmutese ha punte di rilievo: inizia nel 1554 un’attività archivistica che risulta oggi un patrimonio unico e mirabile per chi voglia investigare sullo sviluppo demografico del paese. Sono cappellani e preti, eruditi e diligenti che in registri annotano i fatti della vita locale. Una cultura che ravviva la terra misera e tragica del grano e del vino. Sono governatori e rettori delle confraternite che trascrivono nei loro rolli atti e testamenti, disposizioni varie e consegnano alla memoria futura i momenti operosi dei nostri antenati di quel tempo.
Racalmuto conta all’inizio del secolo appena 1670 abitanti ed a chiusura siamo attorno a 4448. Dal 1554, l’evolversi cittadino è segnato passo passo dai tanti deprecati preti: un merito tanto grande quanto misconosciuto. Noi abbiamo spigolato per ricordare di costoro tutto quanto ci è stato possibile sapere.
L’efferata esecuzione antisemita che abbiamo sopra rievocata avvenne nel 1474, quando vescovo di Agrigento era Iohannes de Cardellis seu Cortellis, un benedettino che era stato abbate del Monastero di S. Felice in Bruxelles e che nel 1479 si trasferirà a Patti. Quale peso abbia avuto nel reggere la diocesi, non è dato di sapere. In precedenza, aveva governato la chiesa agrigentina il Beato Matteo de Gimmara, noto per il suo furore nel volere convertire gioco forza gli ebrei agrigentini. Su quell’onda lunga, poté maturare il misfatto contro il povero Sadia di Palermo. Gli ebrei saranno cacciati dall’agrigentino in coincidenza con la scoperta dell’America, nel 1492. La Racalmuto del 1500 era stata dunque ‘epurata’ dei pochi ebrei ivi stanziatisi, forse con una conversione imposta.

Ercole Del Carretto vuol apparire devoto alla Madonna; non avrà voluto grane con gli ecclesiastici ed i suoi vassalli di colpo saranno divenuti ferventi credenti, del tutto ignari di che cosa significasse la circoncisione. Neppure si dovevano rinvenire i celebri marrani: tutti credenti, tutti ariani, tutti cristiani di antica data. Nelle grinfie del Sant’Uffizio, il primo racalmutese - che poi era agrigentino - è stato alla fine del secolo il notaio Jacobo Damiano, come afferma Sciascia, per di più sospetto di essere un luterano. Sangue puro, anche lui, dunque.

Nel 1537 diviene vescovo di Agrigento il nobile Pietro de Tagliavia de Aragona. Apparteneva alla potentissima famiglia dei Tagliavia signori di Castelvetrano. Passerà a reggere la prestigiosissima chiesa metropolitana di Palermo. Giulio III lo eleverà alla porpora cardinalizia.
Il Prelato, nel 1540, manda i suoi visitatori episcopali a Racalmuto e costoro diligentemente ma in modo angusto e burocratico redigono alcune paginette di relazione. E’ la prima descrizione dello stato delle chiese, o meglio è un elenco delle dotazioni, dei “jocalia” posseduti.
Tre anni dopo, il 9 giugno del 1543, il vescovo Tagliavia si reca in pompa magna in questa nostra terra. Sarà stato senza dubbio ospite nel Castello del nobile Giovanni Del Carretto. Della Visita si fa un processo verbale, ma molto stringato; comunque ne scaturisce un quadro generale del clero e delle confraternite di Racalmuto, basilare per una ricostruzione storica di quel tempo.
Quante chiese fossero aperte a Racalmuto a metà del Cinquecento, come erano dotate, quali sacerdoti avessero ruoli egemoni ed uffici di risalto, quali le rendite, chi aveva le primizie e chi le decime, ecco un contesto che scaturisce dal latino incerto di quel pur notevole documento.
In precedenza nel 1520, quando vescovo di Agrigento era Iulianus Cibo, era scoppiata la grana della successione dell’arciprete Giacomo de Salvo. Questi, morto anni prima, aveva lasciato dei beni. Chi subentrava ne reclamava il possesso. Le postulazioni di prelati e di legati palesano il modo scopertamente simoniaco con il quale l’arcipretura di Racalmuto transitava da un beneficiario all’altro. E la corte papale trovava tempo ed interesse ad assegnare quel lontanissimo e sparuto beneficio a protetti, o raccomandati o forse semplicemente acquirenti nel giro dell’ entourage papalino.

Il mercimonio si ripete nel 1561 con la nomina ad arciprete di Racalmuto del sacerdote don Gerlando d’Averna, che, se bene interpretiamo i dati d’archivio della Matrice, era un agrigentino. Prima non abbiamo mancato di riportare ed illustrare i documenti, sinora inediti, che ci rendono edotti di questi spunti di vita ecclesiastica racalmutese. Una caterva di preti piomba da noi, trovando mansioni remunerative. Anche parenti laici seguono il classico ‘zio prete’ e mettono su famiglia; nel tempo il cognome diviene più prosaicamente Taverna. Tra il D’Averna ed il Taverna, i registri della Matrice oscillano per un paio di secoli almeno.


Al D’Averna subentra, nell’arcipretura, il sac. Michele Romano, che muore il 28 luglio 1597. In vita appare un arciprete diligente ed assiduo. Propendiamo per la sua origine racalmutese. Lascia comunque un cospicuo “spoglio”. Il solito vescovo Horozco ne esige la consegna. Ma, più potente ed ammanigliato, sarà il conte Giovanni Del Carretto ad avere la meglio nella vertenza giudiziaria, potendo questi vantare i suoi diritti feudali.
Si rifece il vescovo nominando arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio - un napoletano girovago che aveva favorevolmente testimoniato in Spagna nel processo concistoriale per la concessione della mitra vescovile. Divenuto il Capoccio segretario del neo vescovo agrigentino, deve trattare con la curia romana per uscire dalle pastoie delle “relationes ad limina” che il Concilio di Trento imponeva agli ordinari con cadenza triennale. Nelle carte dell’archivio segreto del Vaticano, lo rinveniamo varie volte presente a Roma. Non ha quindi tempo di recarsi a Racalmuto, neppure per prendere possesso del beneficio. Vi manda suoi delegati, dei canonici che appaiono in uno scandaloso processo per sodomia in cui sono coinvolti ecclesiastici di Cammarata.
Mons. De Gregorio, e dopo di lui lo storico Manduca, tendono ad esaltare quest’ordinario spagnolo. Chissà perché i colti sacerdoti, quando fanno storia, credono che debbano fare apologetica. Chiosare le mende di un vescovo indegno che fece arrabbiare il papa (una annotazione pontificia autografa degli archivi vaticani lo attesta inequivocabilmente) non è poi atto riprovevole, se a compierlo è magari un ecclesiastico.
Tra le carte segrete romane, un cappuccino, uomo del celebre vescovo Didacus de Avedo (Haëdo) - il vescovo del Sant’Uffizio, ordinario prima di Agrigento e poi di Palermo, scarnifica il pingue presule spagnolo con staffilate feroci. Un libello mandato al papa lo vorrebbe:
Scandaloso et scommunicato; Disobediente et lascivo; Scandaloso; (coinvolto in un ) Homicidio; Disobediente della Sede Apostolica; Concurso à laici; Contra il Motu proprio di Sisto; Usurpatore; Subornatore; Scommunicato; Cupido; (affetto da) Pazzia; Sordido; Cupido - Archimista.

E per ognuno di questi epiteti, giù una sfilza di fatti, apprezzamenti, insinuazioni, miserie umane. Non fu certo un caso che lo spagnolo Horozco Covarruvias, imposto dal re Filippo II di Spagna, riuscì a lasciare il vescovado agrigentino per pressioni e raccomandazioni regali e dovette accontentarsi della più angusta diocesi di Cadice, a metà rendita.
Ebbe la beffa di vedersi bruciato un libro, intitolato De Rebus suis, per ordine del Papa, che lo aveva messo all’indice in quanto era un libercolo calunnioso verso la potente famiglia dei Del Porto, ed altri notabili agrigentini. Il Pirri tramanda che il vescovo Didacus de Haedo suum trasmisit vicarium Franciscum Byssum Agrigentum; qui convocato in aede Cathedrali populo die festo coram ipso Episcopo libros flammis vorandis tradidit.
Il Pirri si era prima lasciato andare ad apprezzamenti lusinghieri sul Covarruvias, dichiarandolo uomo di grande erudizione. Invero, il presule spagnolo si faceva tradurre in latino da Sebastiano Bagolino i suoi claudicanti versi. In compenso beneficiò il fratello del poeta siciliano, che era sacerdote, con i beni di S. Agata di Racalmuto. E così i pii legati dei fedeli del nostro paese servirono per pagare gli uzzoli letterari di uno scervellato, che indegnamente occupava la cattedra di S. Gerlando.

* * *
Il Capoccio fu arciprete di Racalmuto per lo spazio di un mattino: inviati i suoi messi don Vito Bellosguardo e don Antonino d’Amato il 16 luglio del 1598, ben prima del marzo del 1600 deve far fagotto. Gli subentra don Andria Argumento, che prende possesso “di la maiori ecclesia di Racalmuto” appunto il 7 marzo XIII ind. 1600.
Il Capoccio era oriundo napoletano. Come mai, dunque, riesce ad accaparrarsi le pingui “primizie” gravanti sui martoriati contadini racalmutesi? Ci viene in soccorso l’archivio segreto vaticano. Abbiamo curiosato nel processo concistoriale per l’elevazione a vescovo di Agrigento del mezzo ebreo Horozco. Il Capoccio vi appare come un perdigiorno, un avventuriero finito chissà perché in quel di Spagna. Si dà da fare e fornisce la sua testimonianza nel canonico processo che si instaura per la elevazione alla dignità episcopale del toletano. Aveva, questi, una macchia - per l’epoca - da tenere nascosta: pena l’indegnità e la non eleggibilità. Non aveva proprio la cosiddetta limpeza de sangre: la madre Maria Valero de Covarruvias era di origine giudea. Il prescelto aveva conseguito appena gli ordini minori il 30 aprile 1573 ed eccolo subito canonico priore della cattedrale di Segovia, senza essere ancora sacerdote (l’ordine maggiore lo conseguirà il 12 maggio 1573). Regge il vescovado di Segovia durante la sede vacante e diviene quindi arcidiacono di Cuéllar. I suoi meriti sono solo quelli della sua famiglia che annovera importanti canonisti e umanisti come Diego e Antonino Covarruvias o come Sebastiano che fu cappellano del Sant’Uffizio.
Un siffatto giovanotto è destinato ad una folgorante carriera: il re di Spagna Filippo II lo impone a Clemente VIII che non può fare a meno di elevarlo a vescovo titolare della prestigiosa cattedra di S. Gerlando. Da un borgognone ad un toletano!
Ma la forma è forma: s’imbastisce il rituale processo in Spagna. Tra i testi, riesce a intrufolarsi il napoletano Capoccio il cui unico titolo è quello della pretesa conoscenza delle cose della Cattedrale di Agrigento presso la quale aveva anni prima brigato. La deposizione del Capoccio è vaga, imprecisa, reticente, incompetente; eppure è sufficiente per fugare gli ostacoli del vigente diritto canonico.
Giunto in pompa magna ad Agrigento, il giovanotto toletano, pingue oltre ogni dire, basito, che sa parlare solo in spagnolo e non comprende né latino, né la lingua italiana, né, tampoco, il vernacolo siciliano, viene raggiunto dal compiacente spergiuro d’origine napoletana.
I Napolitani, i cui meriti tutti riconoscono ma i cui difetti non possono ignorarsi, sono come sono: non sarà parso vero al partenopeo Capoccio di ricattare il neo-vescovo per quella testimonianza spagnola, secretata nei suoi particolari, ma ben presente nella memoria dell’Horozco: una resipiscenza, un pentimento del teste spergiuro ed ecco la revoca!
Capoccio viene subito tacitato con la nomina a segretario; gli vengono affidate locupletanti missioni nell’ostile corte papale. Non basta: i benefici arcipretali racalmutesi sono suoi. E’ lo stesso Horozco che nelle sue relationes ad limina a ragguagliarci della molteplicità e cospicuità di tali gravami ecclesiastici sulla disastrata Racalmuto.

Scrivevo un tempo (op. cit.):

Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare” 9.500 onze di rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:
• al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
• tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100 ;
• l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XVI erano chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.

Il Capoccio non é però uomo di valore: lo scontro con gli eventi - che sono aspri, scorticanti, tragici - lo spoglia ed il re appare nudo: uno spettacolo avvilente. L’Horozco lo caccia via e del napoletano non si sa più nulla.

L’appetibile arcipretura di Racalmuto viene affidata a tal Andria Argumento: non racalmutese, di certo; siciliano ad ogni buon conto. Costui si insedia a Racalmuto, come detto, il 7 marzo XIII ind. 1600. Lo troviamo nel sinodo di Giovanni Horozco del 1600-1603: al n.° 7 dei nuovi esaminatori sinodali viene eletto il nostro arciprete che può vantare un dottorato in entrambi i diritti.
In quel sinodo fa capolino don Vito Belguardo che era venuto a Racalmuto come mandatario del Capoccio: ora è canonico con la dotazione della seconda rendita del porto. Dagli incarichi sinodali è puntigliosamente bandito il Capoccio (morto o cacciato via da Agrigento?).

Se Racalmuto ha mantenuto una fede profonda ed incontaminata nonostante l’aggrovigliarsi di siffatti poco commendevoli episodi che sanno per noi moderni di simonia, si deve agli umili sacerdoti autoctoni che sommessamente, ubbidientemente, senza orpelli onorifici, hanno predicato la parola del Signore ed hanno saputo inculcare nel popolo l’insegnamento della Chiesa. A costoro va la perenne gratitudine. Abbiamo cercato di riesumare le poche notizie che su di loro sono ancora reperibili nei polverosi archivi (della Matrice di Racalmuto, o dell’Archivio Vescovile di Agrigento o dell’Archivio di Stato di Agrigento). Il nostro dilungarci su tali aspetti, dovrà essere giustificato da tale intento gratificatorio.


* * *

La microstoria racalmutese del Secolo XVII è fitta di notizie: anche l’esigente Sciascia ammette che ora, sia pure per una felice congiuntura, la storia locale diviene da appena avvertibile in “narrabile”. Nell’aprire la mostra di Pietro d’Asaro, lo scrittore racalmutese, non mostra soverchia considerazione della tanta storia presecentesca e concede la sua attenzione solo a quattro personaggi secenteschi: « ... ora voglio parlare - ebbe a dire - di un piccolo paese, “lontano e solo”, come sperduto nel val di Mazara, diocesi di Girgenti, che dall’oscurità dei secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe “narrabile”, da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un eretico.»
E’ una visione troppo riduttiva, ai nostri occhi, ma è di sicuro mirabilmente provocatoria.
Non pensiamo che il prete Santo d’Agrò sia quello in preda a “deliri erotici”, ad “alumbramiento”; né che Pietro d’Asaro sia stato più un confidente del Sant’Uffizio che un pittore (anche se la sua arte non può essere magnificata, come oggi è di moda); né che Marco Antonio Alaimo sia stato un grande medico (ebbe più celebrità di quanto meritasse); né che Pietro Curto vada al di là di una qualche infarinatura di “scienze metafisiche”; né, tanto meno, che Diego La Matina, cui va la nostra umana pietà, sia stato un eretico di grande statura intellettuale e morale, (per noi: modesto gaglioffo, nerboruto e sensuale, che non sapendo assuefarsi alla rigida regola del periferico convento di S. Giuliano - specie in materia di alimentazione quotidiana - trasmigra a Palermo, sull’onda della rivolta di Giovanni V del Carretto, e vi trova sgherri, carcerazione e la esiziale attenzione del Sant’Uffizio).

Povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ( ) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di letterarie e fantasmatiche mistificazioni.

Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore dell’Inquisizione. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 e, palesemente, non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara annotazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi astrologici del Padre Matranga ( ).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le ladronerie del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli credito quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Bazzicando l’archivio segreto del Vaticano si possono acquisire notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei Del Porto del capoluogo agrigentino.( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva pure intendersene. Dalle sue querule relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che avesse proprio ragione Leonardo Sciascia a autodefinirsi nella « Morte dell’Inquisitore» uno ‘sprovveduto’ sull’argomento.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo infilza «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista, però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione per avergli trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato oltremodo comodo per la sua accusa, anziché abbarbicarsi a tortuosità per conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo grado degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non approda al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo. A quei tempi, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni di nome Nalbone - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )

Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione non era migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo quell’esecuzione capitale, ma, per favore, parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa: terziaria francescana, fu di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.

* * *

Altri, comunque, sono per noi i protagonisti della storia (o microstoria), civile e religiosa, della Racalmuto del Seicento: i dieci arcipreti che si sono succeduti nel secolo; i tanti umili sacerdoti che si sono contraddistinti nelle opere di carità in quei calamitosi tempi, divenuti memorabili (e narrabili) per pesti, morte, miseria, sfruttamenti feudali, e talora neghittosità prelatizia; gli artefici delle sordide pretese dei signori del Castello; ed altri.
Chi furono di dieci arcipreti? Il seguente elenco è tratto dagli studi del Nalbone:

1600 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1602 ANDREA D ' ARGUMENTO ARCIPRETE
1608 VINCENZO DEL CARRETTO ARCIPRETE E NEL 1622 BENEFICIALE E
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
1615 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE "incipit januari 14 ind. 1615"
1616 FILIPPO SCONDUTO ARCIPRETE
1632 GIUSEPPE CICIO ARCIPRETE
1634 ANTONINO MOLINARO VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
1645 TOMMASO TRAJNA ARCIPRETE D.S.T.
1645 PIETRO CURTO ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
1649 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE
1654 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE S.T.D.
1654 GIUSEPPE TRAINA PRO-ARCIPRETE SETTEMBRE 1652
1668 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE
1677 VINCENZO LO BRUTTO ARCIPRETE a 41
1697 FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE

Come si vede, il sacerdote Pietro Curto vi figura come arciprete di Ventimiglia (diocesi di Palermo) e non come colui «che si distinse - parola di Sciascia - a Palermo nelle scienze metafisiche, e che nel 1656 pubblicò un Corso filosofico che spiegavasi in quei tempi nel Collegio massimo dei Gesuiti, che crediamo essere stato quello di Palermo». En passant, il sacerdote Pietro Curto morì il 30 giugno 1647 (cfr. il vario volte citato Liber in quo adnotata ...della Matrice, colonna 3 n.° 52).

Racalmuto, dunque, si affaccia al cupo XVII secolo con una popolazione di 4500 abitanti circa e ne esce con cinquemila fedeli (parola del vescovo Francesco Ramirez, quello che travolse Racalmuto nell’interdetto fulminato per la celebre controversia liparitana). Una crescita limitata, forse per le angherie dei Del Carretto, come vorrebbe Sciascia, ma forse per le due tremende pesti, quella del 1624, molto nota, e quella che dura dal settembre del 1671 all’agosto del 1672 e che sterminò un quarto della popolazione; i morti furono 1260 ed il povero arciprete Lo Brutto, in un momento di profondo sconforto, annotò sul libro dei morti:

INCIPIT INDICTIO Xa AMARISSIMA - In anno milleximo sexcentesimo spetuagesimo primo - INFAUSTISSIMO

La Chiesa racalmutese esordiva sotto la sconcertante giurisdizione del vescovo Horozco e finiva il secolo con una esplosione di preti, conventi, e religiosi del Benefratelli che insediatisi per predilezione di Girolamo III Del Carretto nell’ospedale di S. Giovanni di Dio, scialacquavano le rendite e lasciavano i malati abbandonati a loro stessi.

La pagina del vescovo Ramirez sui preti-esattori dei baroni colpisce ancora: vi sono rappresentate le stigmate dei mafiosi - purtroppo, quelli vecchi - nell’esordio del loro affermarsi nelle plaghe dell’agrigentino: una consacrazione, una profanazione del sacro ordine, un ascendente sacerdotale sul succubo mondo contadino, un potere mutuato dalle autorità dal barone dal politico dal banchiere, l’esercizio di un potere feudale, da un lato; un’organizzazione criminale, un’ abitudine alle armi ed a sapersene servire per intimidazione, assoggettamento, estorsione. Un sincretismo (blasfemo ed agghiacciante) tra religione, crimine, affarismo e prossenetismo politico e giudiziario. Mafia e antimafia messe assieme. Veste sacra e schioppo omicida al servizio del feudatario per lo sfruttamento delle masse contadine. Abbiamo gli embrioni di un’organizzazione che si equipara e sostituisce lo Stato; un ordinamento - direbbe Sante Romano - che sa acquisire quasi l’eticità hegeliana.
L’analisi del Ramirez - per quel che ci risulta - non è stata mai considerata dai colti della mafia e dell’antimafia. Va segnalata.

Il Seicento Racalmutese


Il Seicento inizia con l’uccisione a Palermo, nella via Favara - e non in contrada Ferraro di Racalmuto, come affermano storici locali - del poco virtuoso Giovanni IV Del Carretto. Ecco come un diarista di Palermo raccontò il raccapricciante delitto:
A 5 di maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango] di detto; e ci tirarono dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran maraviglia di tutti li agenti; e finìo.

« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento, dudici spatati, quattro testi, sei destinati , purché non sia lu principali ci avissi fatto detto delitto, et anco la grazia di S. M.».
Il seguito della storia ci è pure noto, sempre per merito di quel diarista palermitano:

«A 20 ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari soliti; e tinni [intendi che tenne forte a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.

«E fu perché il giorno che sindi andâ a li galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travauci certi faldetti che avia arrubati allo Casali.

«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti, ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.

«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».


Giovanni IV Del Carretto lascia un figlioletto (l’unico legittimo) di appena nove anni. Quello che non riuscirà mai più a togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu) di Sciascia, Girolamo II Del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Spettegoliamo anche noi con Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II Del Carretto] stava affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate ai piedi del castello quando il servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che “la morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e scoppellato...».
Ma ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto delle corna del conte. Il priore non era certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed arbitrio...»
Qualche volta siamo stati persino caustici: « Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno beffato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò fece poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S. Lorenzo il 28 ottobre 1654).

Quando facevamo queste considerazioni, non era ancora nota la documentazione del Fondo Palagonia. Quella documentazione restituisce alla verità la faccenda del terraggio e del terraggiolo pretesi dai Del Carretto. Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini abitassero nella terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle imposte cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di frumento per ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio) ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi fecero cause memorabili (e secolari) per sottrarsi e sottrarre dagli odiati terraggio e terraggiolo. La spuntarono solo il 27 settembre 1787.
Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:

«Oltre alle numerose tasse e donativi e imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada di Brenno ... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il terraggio e il terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi di Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però, a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra baronale a terra demaniale, reale.
«Per mettere insieme una tal somma, il Regio Tribunale autorizzò una straordinaria autoimposizione di tasse: ma appena le nuove e straordinarie tasse furono applicate, don Girolamo del Carretto dichiarò che le considerava ordinarie e non in funzione del riscatto. I borgesi, naturalmente, ricorsero: ma la dolorosa questione fu in un certo modo risolta a loro favore solo nel 1784, durante il viceregno del Caracciolo.
«Il priore degli agostiniani e il loro servo di Vita fecero dunque vendetta per tutto un paese, quale che sia stato il pasticciaccio di cui, insieme al defunto e a donna Beatrice, furono protagonisti. (Curiosa è la dicitura di una pergamena posta, quasi certamente un anno dopo, nel sarcofago di granito in cui fu trasferita la salma del conte: dà l'età di donna Beatrice, ventiquattro anni, e tace su quella del conte. Vero è che non disponiamo dell'originale, ma di una copia del 1705; ma non abbiamo ragione di dubitare della fedeltà della trascrizione, dovuta al priore dei carmelitani Giuseppe Poma: e l'originale era stata stilata dal suo predecessore Giovanni Ricci, che forse si permise di tramandare allusivamente una piccola malignità.) [...]

«Dall'anno 1622, in cui fra Diego nacque, al 1658, in cui salì al rogo, i conti del Carretto passarono in rapida successione: Girolamo II, Giovanni V, Girolamo III, Girolamo IV. I del Carretto non avevano vita lunga. E se il secondo Girolamo era morto per mano di un sicario (come del resto anche il padre), il terzo moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza della Sicilia. E non è da credere che si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l'Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti; e, a congiura scoperta, il conte ebbe l'ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona di Spagna era però cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti. Giovanni IV, per esempio, aveva fatto ammazzare un certo Gaspare La Cannita che, appunto, temendo del conte, era venuto da Napoli a Palermo sulla parola del duca d'Alba, viceré, che gli dava guarentigia. E' facile immaginare l'ira del viceré contro il del Carretto: ma si infranse contro la protezione che il Sant'Uffizio accordò al conte, suo familiare. (Questo stesso Giovanni IV troviamo nella cronaca dello scoppio della polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi, due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in prigione.
«Della familiarità dei del Carretto col Sant'Uffizio abbiamo altri esempi. Ma qui ci basta notare che a Racalmuto, contro l'eretica pravità e a strumento dei potenti, l'Inquisizione non doveva essere inattiva. [...]
«L'ordine degli agostiniani di sant'Adriano fu fondato nel 1579 da Andrea Guasto da Castrogiovanni: il quale, stabilita coi primi compagni la professione della regola nella chiesa catanese di Sant'Agostino, si trasferì in Centuripe, in luogo quasi allora deserto, e fabbricate anguste celle, pose i rudimenti di vita eremitica, e propagolla in progresso per la Sicilia: notizia che dobbiamo a Vito Amico [Dizionario topografico della Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1859.], e non trova riscontro nelle enciclopedie cattoliche ed ecclesiastiche che abbiamo consultato. Lo stesso Vito Amico dice che il convento di Racalmuto fu dal pio monaco Evodio Poliziense promosso e dal conte Girolamo del Carretto dotato nel 1628. Evidente errore: ché nel 1628 il conte Girolamo era morto da sei anni. Più esatto è il Pirro: S. Iuliani Agustiniani Reformati de S. Adriano ab. an. 1614, rem promovente Hieronymo Comite, opera F. Fuodij Polistensis [R. Pirro, Sicilia Sacra, libro terzo, Palermo 1641].
«In quanto al pio monaco Evodio Poliziense o Fuodio Polistense, si tratta senza dubbio alcuno di quel priore cui dalla leggenda popolare è attribuito il mandato per l'assassinio del conte Girolamo. Infatti il Tinebra Martorana, che non si era preoccupato di consultare in proposito i testi del Pirro e dell'Amico, cade in equivoco quando dice che al priore di questo convento la tradizione serba il nome di frate Odio, riferendosi con ogni probabilità all'azione da lui commessa. Era semplicemente il nome, piuttosto peregrino, di Evodio o Fuodio che nel corso del tempo si era mutato in Odio.»

Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia, invero, gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
* Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ( ) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta in mano della madre e della vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo che risulta il terzo dei Del Carretto con siffatto nome. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,( ) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ( ) ed intentando contro di esso, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante scomunica.

La faccenda del terraggio e del terraggiolo è molto ingarbugliata ma non collima con la versione sciasciana. L’analisi della ponderosa documentazione del Fondo Palagonia potrà dare filo da torcere agli eventuali studiosi di diritto ed economia feudali, con specifico riferimento a Racalmuto: è materiale degno di una qualche tesi universitaria. A dimostrazione del nostro assunto, ci limitiamo a riportare in nota un documento del 1738 . Ma l’intera controversia che dura dal 1580 al 1787 va seguita in tanti documenti del Fondo Palagonia. Una ricognizione piuttosto analitica, ma limitata alla contea del Gaetano è contenuta nelle carte segnate: A.S.P. - fondo palagonia - atti privati . n.° 631 - anni 1502-1706 - n.° 3 - p- 173-240, che sono ben 64 fitte pagine. Abbiamo stralciato, in nota, solo la parte che ci pare riassuma il veridico svolgimento dei fatti, che non ci pare confermino le tesi di Sciascia.


* * *

Andrea d’Argomento, arciprete di Racalmuto ed esaminatore sinodale ad Agrigento, è il dottore in utroque iure che nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.


Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo quella religiosa.


Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV Del Carretto - don Vincenzo Del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Don Vincenzo Del Carretto era stato colpito l’anno precedente dal lutto per la morte del padre (5 di maggio 1608); aveva raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere Conte, ma escludeva i figli illegittimi, e don Vincenzo così era escluso, con suo scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo è il tutore del conte minorenne: nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II Del Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma che tra l’altro recita:
Sotto le quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno campato ed osservato per insino all’anno settima indindizione prox: pass: 1609, nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo scuti trentaquattromila infra quattro mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don Vincenzo Del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte, come si evince da questo stralcio:
Reg.tus Panormi die 3 julij viii ind. 1610
Testes ricepti et examinati per ill.m Regni Siciliae Protonatorum ad instantiam d: Jo: de Viginti Milijs, Marchionis Hieracij, Principis Castriboni, balej et tutoris ill. d. Hieronimi del Carretto Comitis Racalmuti ad verificandam infrascriptam pro investituram capiendam ditti comitatus.
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.) Negli atti vescovili troviamo questa singolare “littera monitoria” ( ):
«Die 3 septembris VII ind. 1622 - Rev. Arc: terrae Racalmuti. Semo stati significati da parti di donna Beatrice Del Carretto e Ventimiglia, contissa di detta Terra, nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto, tuturi et tutrici di li figli et heredi del quondam don Geronimo lo Carretto, olim conti di detta Terra qualmenti li sonno stati robbati, occupati et defraudati molte quantità di oro, argento, ramo, stagni et metalli, robbi bianchi, tila, lana, lina, sita, capi lavorati, come senza, et occupati, scritturi publici et privati, denegati debiti, et nome di debitori; rubato vino di li dispensi, animali grossi, stigli con arnesi, cosi di casa .... In suo grave danno, prejuditio, et ... In forma comuni etc.»
Sembra, dunque, che dopo la morte del conte avvenuta il due ( e non il 6) maggio 1622, una rivolta popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era mera espressione dei Del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo che avrebbe imbandito in modo più succulento la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a sorprendere il prete don Vincenzo del Carretto: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella chiesetta perlomeno sino 1902: il prof. Giuseppe Nalbone ha potuto stilare questo quadro sinottico:

1609 VINCENZO DEL CARRETTO FONDATORE DELLA CHIESA DELL'ITRIA
1632 SANTO D ' AGRO' BENEFICIALE DELL ' ITRIA
1677 STEFANO SAIJA BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1731 PIETRO SIGNORINO BENEFICIALE S.MARIA DELL'ITRIA
1736 PIETRO SIGNORINO CAPPEL. ITRIA
1782 NICOLO' AMELLA BENEFIC.S MARIA DELL'ITRIA
1830 CALOGERO PICONE ER.SIGNORINO, CONF, UTR.CH. ITRIA
1902 GIOVANNI PARISI FU VINCENZO MARIA SS. DELL' ITRIA

Don Vincenzo Del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ( ) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:

1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE

Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).


Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con la bolla che abbiamo dianzi illustrata; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese; inizia sotto di lui la controversia per sottrarre Racalmuto dall’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr., 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea ( ) - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere un atto notarile del tempo, per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: doct. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali. ( )


Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.

A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vuole assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Tommaso Traina. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1939 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645 e nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato parte dei pretesi diritti mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo. Il convento dovette però sorgere e completare per la dotazione di altri benefattori che ignoriamo, e soprattutto per interessi di mora capitalizzati, dovuti dalle Tavole di Palermo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragioneristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbramiento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra di coglierlo nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro, d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia ecclesiastica di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto l’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:

1648 TRAIJNA Arc. Thomaso Matrice
gratis

ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.

* * *
Al Traina subentra nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro Sammaritano. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie e la mamma dell’infelice Giovanni V Del Carretto. Si annota in censimento:

LA CARRETTA XXa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA

La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono gli atti di questa emblematica vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.

La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì. Donna Maria Del Carretto e Branciforte è indebitata sino al collo: il 15 dicembre 1654 può dare solo un’onza e 18 tarì delle cento onze promesse. Annota il contabile:
15.12.1654: dall'Ecc.ma sig.ra D. MARIA DEL CARRETTO e Branciforte Contessa di Racalmuto hò ricevuto onza una e tt.ri (tarì) dicidotto in conto delle onze cento have promesso d'elemosina et l'ho ricevuto per mano di Giuseppe di Chiazza e di Antonino Morreale di Lucio d........-\ 1 18

La posa in opera delle colonne - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:

1664 SAMMARITANO Pompilio
ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie

Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’ amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi fedelissimi a Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica). Se un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.

Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accampagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito: “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).

L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. In altra sede abbiamo riportata la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne ottenne la nomina di mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi rastremata la tassa del macinato per morte di un un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III Del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V Del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie del pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sei sorelle, aveva dato in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo ( ) l’intero patrimonio dei conti di Racalmuto.
Girolamo III Del Carretto, esasperato, si rivale sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana:
contra ed adversus Reverendos Sacerdotes
don Fabritium Signorino;
don Sanctum de Acquista;
don Joseph Casucci;
don Joannem Battistam Baera;
don Petrum Casucci;
don Calogerum Cavallaro;
don Franciscum de Agrò;
et don Michaelem Angelum Rao,
indebitos possessores;

Girolamo III Del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III Del Carretto aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’esangue - ma litigiosa - contea di Racalmuto. Quella Lanza muore a Racalmuto a 70 anni come dal seguente atto rinvenibile in Matrice:
10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA UXOR HIERONIMI LANZA DEL CARRETTO RINCIP.A COMITISSA RACALMUTI 70

Viene seppellita in “S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII”: era stata assistita nella sua ultima ora dall’arciprete d. Fabrizio Signorino.
Quanto fosse addolorato l’ancor giovane marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze.

* * *
L’arciprete Lo Brutto morì nel 1696 come da atto in Matrice:

5.2.1696 VINCENZO S.T.Dr. SACERDOS DON LO BRUTTO ARCHIPRESBITER 69
MATRICE . FALLETTA PAOLINO CONF. PROB DA OBLIG.

In calce ad un libro dei morti del tempo trovasi questa nota:
Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.
A questo si abbarbica un Savatteri del XIX secolo per vantare un’ascendenza nobile ed esigere la proprietà del beneficio del Crocifisso. Ebbe però pane per i suoi denti imbattendosi nel formidabile duo, don Calogero Matrona (che quel beneficio volle ed ottenne) e l’agguerrito in utroque arciprete Tirone. La storia del beneficio è lunga: inizia nei primi quarant’anni del ’Seicento e resta scandalosamente in sospeso ancora oggi. Beneficio nato per ‘recupero crediti’ - si direbbe ora - fu da vescovi compiacenti trasformato in appannaggio di un ragazzino della potente famiglia Cavallaro, sotto condizione che divenisse e restasse prete. Don Ignazio Cavallaro morì vecchissimo, a 84 anni, il 25 novembre 1874. Il nipote Calogero Savatteri che lo teneva in casa voleva mantenere la cospicua proprietà terriera, ma la curia l’aveva assegnata a don Calogero Matrona. Il Savatteri vanta un diritto di successione affermando che i beni fondiari nient’altro erano che una dote dei Del Carretto ad un’antenata che aveva vincoli di sangue con quei nobili: ne sarebbero derivati anche titoli nobiliari che sarebbero spettati a lui ed a sua moglie: donna Concetta Matrona (le omonimie si spiegano con i tanti matrimoni tra cugini, anche di primo grado che la chiesa del tempo non solo non osteggiava, ma incoraggiava; diversamente per i poveracci erano sanzioni con umilianti atti pubblici di riparazione). Eugenio Napoleone Messana riecheggia nel suo libro queste amene vicende nobiliari, nella benevola versione tramandata in famiglia da vecchissime zie. L’arciprete Tirone, in memorie a stampa (deliziose) che si conservano in Matrice rintuzza, da par suo, quella rappresentazione dei fatti. La vertenza giudiziaria si risolve a favore del duo Tirone-Matrona. Don Calogero Matrona può prendere possesso del Crocifisso. Deve però celebrare tante messe per l’anima dei pii leganti. Vive sino all’11 gennaio 1902. Sul letto di morte un terrore l’assale: quelle messe lui non le ha mai celebrate ritenendo di potere fare una compensazione occulta con le pesanti spese sostenute contro Savatteri-Matrona. Si confida con l’arc. Genco: lascia cospicui legati come atto riparatore. L’arc. Genco interessa le autorità ecclesiali. Sostiene che il lascito, andando in conto spese per la riparazione della Matrice, ripara alla grave inadempienza del Matrona. Le autorità trovano un compromesso: una metà alla Matrice e l’altra per la celebrazione di messe per l’anima dei secenteschi benefattori.
Nella varie bolle pontificie e vescovili, il beneficio del Crocifisso deve essere volto al sostentamento di un coadiutore della Matrice. L’ignota origine - in effetti si trattava di terre rientranti nei beni allodiali della Noce spettanti ad un ramo cadetto dei del Carretto e dall’ultima erede di tale ramo rivenduti a donna Maria Del Carretto, dopo il 1650 - era stata bene strumentalizzata dall’arciprete Tirone per riavere dal governo le terre che nel frattempo erano state vendute a profittatori delle leggi dell’eversione garibaldina. Alla morte dell’arciprete Genco, quando sorse la controversia tra il Casuccio ed il padre Farrauto, il Crocifisso fu assegnato a quest’ultimo a ristoro del torto subito con la preferenza del vescovo per il primo nella nomina ad arciprete. P. Farrauto ebbe anche il contentino di una parrocchia creata dal nulla, tutta per lui: quella della Madonna della Rocca, il 26 giugno 1923. Trasferito alla parrocchia del Carmelo, gli fu consentito di conservare a titolo personale il beneficio. Quando diviene parroco del Carmine don Giovanni Arrigo, il Crocifisso viene da lui preteso e ne esige il mantenimento anche quando nuovo parroco del Carmine è don Alfonso Puma. La gestione delle appetibili terre della Noce avviene in modo ... arrighiano. Contadini amici vi si insediano ed oggi nessuno ha più titolo per allontanarli. Già perché alla morte di padre Arrigo, è la curia vescovile che ne rivendica la titolarità. Come gestisca quegli ingenti beni immobiliari, chi scrive è e vuole mantenersi all’oscuro.




DAL SETTECENTO AI NOSTRI GIORNI

IL SECOLO DEI LUMI

Premessa

Siamo giunti al Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo Castro.
Per celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?» può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato epitaffio, che attraversa come un liet-motiv, come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile. E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal «secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri, di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate nella buia stiva del disincanto.»
Che tutto ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la storia del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, «Il Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel novembre del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al trono spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare dominazione spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re Ferdinando di Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la Repubblica Partenopea. Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro padroni.»
A Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
- 9 marzo 1710: muore Girolamo III del Carretto, sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del Carretto, e così si estingue la locale casata carrettesca;
- 3 settembre 1713: Die 3 7bris 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti: l’interdetto – riflesso racalmutese della sciasciana controversia liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non potere più seppellire i propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano lo smarrimento di quel cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli implicati nella politica dovettero provare, in quello stesso periodo;
- 1715: il regio commissario generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo, in nome di S. Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e chiede il dettagliato resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e dei beni delle chiese: immaginabili il terrore e lo sgomento dei tanti nostri preti e monaci;
- 10 luglio 1716: Brigida Scittini e Galletti, vedova di Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per diritto di credito dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse in paese;
- 27 agosto 1719: sospiro di sollievo: «L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.»;
- 1736: Panormi die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum juramentum debitae fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis servandis concedatur investitura .... tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis Viridis. Don Luigi Gaetani - che doveva pur rifarsi delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale - non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le vuole tutte;
- 1738: in quest’anno, sorge una controversia feudale su Racalmuto, con tutti i crismi (e con tutti i costi). Il duca trova pretermessi anche i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto ad adire le vie legali: premette che è stato già magnanimo accontendandosi della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Non può pertanto tollerare che i benedettini usufruiscano di un falso esonero, fallacemente accordato dal vescovo di Agrigento, il noto Ramirez, in data 16 settembre del 1711;
- 1741: il 22 giugno 1741 i benedettini risultano soccombenti, con compenso di spese, però;
- 1747: la contea di Racalmuto passa alla principessa di Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
- 7.1.1754; SCIASCIA LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA di m.° Bartolomeo e Caterina olim fugati. - Matrimoni 1751-1763 - 67 – Nota: d. Albertus Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari, testi; furono benedetti da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci ragguagliano su questo antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del «nonno di suo nonno» che lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese, oriundo, per giunta, da Bompensieri;
- 1755: nasce a Racalmuto il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802) -
- 1756: il 19 febbraio viene nominato arciprete di Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla microstoria locale come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
- 1759: all’Itria viene fondata la Confraternita della Mastranza (26 luglio 1759);
- 1767: l’arciprete Campanella completa la costruzione del «cappellone grande» della Matrice;
- 1771: i Requesens si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. La Lanza – pur avanti negli anni - riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto. Annota il San Martino de Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra, Castello e feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo favore dal Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto, contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di Racalmuto; quale sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in esecuzione degli ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv. Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143, retro). [...] Detto P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino Requisenz e Morso e di Giuseppa del CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO;
- 1776: lo stesso arciprete continua nei lavori di abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.»;
- 1782: «E' noto - abbiamo già scritto - un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio.."»;
- 1783: inizia la causa – intentata dal sac. Figliola presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
- 1785: « Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico;
- 1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello ad affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
- 1786: il sac. Figliola « … ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»;
- 1787: D. Stefano Campanella prosegue nella controversia antifeudale intentata dal Figliola e così « … con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”;
- 1791-92 : forte dell’ascesa dello zio sacerdote don Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella famiglia di gabelloti, fa il grande salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così, improvvisamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il primo tassello, quello più difficile, è tutto nel carniere di famiglia;
- 1793: la vecchia. Gloriosa chiesa di S. Rosalia viene smantellata; era riuscita a resistere sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu barattata dal can. Mantione in cambio di un altare con statua alla Matrice;
- 1796: il feudo di Gibellini viene venduto con rogito del «Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77)». Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che « s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»;
- 1799: Il secolo dei lumi si chiude tristemente per Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale Comunia della Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo Ramirez – onde i preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad approvvigionarsi delle più urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del 23 febbraio 1799: «XAVERIUS Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae Racalmuti, Salutem. Ci rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e Sindaco le gravi pressanti urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione, a segno che si teme molto della furia della Popolo perché pressato dalla fame, e dalla miseria. Onde sono in penziero di occorrere quanto si può con mutui, eccedono, e chiedono che per conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa una certa somma, che la reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti istanze, bastevole a soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in considerazione l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci sarà permesso anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad eccitare la vostra carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché concorriate per quanto si può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie. Essendovi dunque nella Cassa la indicata somma, qualora si appronta una sufficiente bastevole fideiussione di restituirla nell’imminente Agosto e riposta in Cassa, potrete apprestarla a beneficio comune per distribuirsi in mutuo secondo le intenzioni del Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis = Canonicus Trapani Cancell».


- Il Settecento a Racalmuto sorge con le diatribe tra padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata più o meno dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali che schiariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in quel torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro che felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti borghesi (i Tulumello in testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i Farrauto) la sorte del contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine secolo, si verifica addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano, non si era mai registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia delle chiese per il panizzo quotidiano.

DOPO I DEL CARRETTO

Il seguito della storia dei del Carretto di Racalmuto mostra ombre ancora non del tutto dissolte. Noi disponiamo del testo di una procura rilasciata da don Luigi Gaetano per l’occorrente investitura della contea di Racalmuto; vi è riepilogata la faccenda della singolare acquisizione feudale: uno strano ed antigiuridico passaggio dai del Carretto ai Gaetano attraverso la popolaresca intermediazione di una tale Macaluso. L’evento poté verificarsi per il trambusto di quel periodo con quell’alternarsi dei Savoia e degli austriaci in Sicilia fino alla venuta dei Borboni.
E in un atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel tentativo di rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto, cadutale addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.


Brigida Schittini


Il lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano 1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32 onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di Carlo IV [VII] di Borbone (15 maggio 1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato, riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani - pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli. Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto civile nel Settecento siciliano.

Paola Macaluso

Paola Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per conto del duca Gaetani.

Luigi Gaetani

In tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi) in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata contea.
Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Siamo nel 1738 ed una controversia lunga e defatigante.
Trova pretermessi i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste note di cronaca.
Il duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Ma ecco che i benedettini avanzano strane pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da pari loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel 1739.

Il 22 giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le faccende racalmutesi, comunque, non sono davvero prospere: il bilancio è deficitario.

Araldica racalmutese dopo i del Carretto


Non è agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente informato). Abbiamo visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a divenire conte di Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne era ancora a conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché pose mano al volume sui del Carretto.




* * *

Sciascia rispolvera le sue giovanili letture del Tinebra Martorana; tiene presente anche questa pagina araldica del S. Martino-De Spucches ed inventa un capitoletto del suo Il Consiglio d’Egitto :

«Don Gioacchino Requesens stava, tra monsignore Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del Consiglio di Sicilia.
«”E vi voglio leggere” disse ad un certo punto monsignore “una cosa che vi farà piacere… Nella vostra famiglia, se non sbaglio, avete il titolo della contea di Racalmuto…”.
«Ci viene dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio leggere” [e qui Sciascia propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana relativa alla statistica araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio 998: noi l’abbiamo sopra trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »

Francamente, non pensiamo che don Gioacchino Requesens avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i preti di Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci rimise i privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni del terraggio e del terraggiolo.



Terraggio e terraggiolo: atto finale




Presso la Matrice, come detto, si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno 1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.

«Il sudetto nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»

Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della vicenda: l’Arciprete D. STEFANO CAMPANELLA, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo nel 1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8 Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese possesso.
«Da principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”

«Finalmente nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.

«Fu ancora Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»


La vicenda del terraggio e del terraggiolo è stata oggetto di nostre apposite ricerche, che, solo di recente per il ritrovamento di importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.

Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra Racalmuto.
La politica antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre 1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di sicuro un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là dell’aspetto sociale, che ci vede dall’altra parte della barricata, siamo portati, per amore della storia locale, a credere che il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo sbagliasse.
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo. I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi. Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)

Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori. Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»

Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Scrive dunque lo Sciascia :
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.

D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.

Tratti salienti del Settecento racalmutese

Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora che si presta alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio – che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata. Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle Scale ed il duca Gaetani.

Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare, in calce, alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.


LE PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE

Diciamolo subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per intelligenze locali che in qualche modo possano rasentare il genio: le parole del Guicciardini care a Sciascia sulla “ricolta” di ingegni negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né grandi medici, né veri pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia – rimarchevoli eretici. Solo il bestemmiare del popolino che è poi atto di fede intensa.
Per contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto sessuofobo e sgrana tanti rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne. Il collegio di Maria era un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che vi venivano coatte perché possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare contro il vaiolo, non c’erano medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”, un barbiere, per imparare una tecnica un tantinello meno rudimentale. E m° Giuseppe Romano fu forse meglio dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla fine del secolo – 16 giugno 1795, dicono le cronache.
I preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse terrorizzati per l’incombente accesso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati, «instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa di S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si doveva vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa – ed il ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della detta ven. Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge: «li frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e – non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven. Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D. Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».

Ancor oggi non si sa se il Santuario sia rifacimento o ampliamento o – molto più probabilmente – una nuova costruzione che venne addossata alla vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il padre Morreale è molto meticoloso ed ovviamente agiografico. Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una «nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e solo attorno al 1746 l’antica chiesa sarebbe venuta «a trovarsi dentro la nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione, peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico, la chiesa del Monte: «Sorge sul poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738. Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca. Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella seconda settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che consistono nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su cavalli che, spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta al santuario. Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi scapoli. La lotta per conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni e calci da parte degli avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi afferra il drappo.»
Sciascia, che ebbe ad infilzare proprio il mansueto padre Morreale, forse perché gesuita, a proposito della ricerca storica sulla venuta della statua della Madonna del Monte, ora finge di non dargli peso per codeste ricerche testamentarie del sacerdote Pietro Signorino. Al giovane Tinebra Martorana aveva accordato il peso della sua autorevolezza e in un caso analogo, quello del testamento del sacerdote Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire il destro per sardoniche bardote sul prete in “alumbramiento”. Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza della Chiesa del Monte, ma se ne è astenuto. E dire che piccante poteva risultare la ricerca del gesuita p. Morreale sulle propensioni a beneficiare una pinzochera da parte del pio testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel testamento – il padre Signorino – determinò alcuni legati a favore della Perpetua». Invero, la preoccupazione a beneficiare Caterina d’Alberto è pressante. «Item il sudetto testatore hà legato – si legge nel corpo delle disposizioni testamentarie – e per ragione di legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una casa, prezzo e capitale di onze 10 circa, quale vuole che se li dovesse comprare dalli ssopradetti suoi fidecommissarii» e nel codicillo, in termini ancora più chiari anche se in latino, «item dictus codicillator ligavit et ligat sorori Mariae de Alberto bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo vocata Catarina eius famulae ultra illas uncias decem in dicto eius testamento legatas tre infrascripta domus de membris et pertinentiis eius tenimenti domorum » e passando al volgare «nempe la prima entrata, la camera ed il catoio sotto detta camera della parte di occidente, seu della parte di San Gregorio» e tornando al latino «de quibus quidem tribus corporibus domorum ipsa soror Maria, habet et habere debet solum usum exercitium». Non solo, ma «dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si devono] tumuli otto di frumento, un letto fornito, due tacche di tela sottile, il mondello, due sedie di corina, la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni arnesi di cocina.»
Almeno, quello svolazzo del codicillo, una funzione la esplica: dà materia per un eventuale museo etnografico.

LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI


Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del reverendissimo Sig. V.G. date nella citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p. Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso un po’ troppo, quando scrive «Tra i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi Crispino e Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte, restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare, a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore canonico

Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio Capizzi per “stucchiare e pingere” la navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa.

Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev. Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli e con una serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in Matrice).
Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.

ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE DEL SETTECENTO

Dobbiamo al libro di padre Adamo la nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al grande affresco della natività di Maria: «Antonius Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731» Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno, sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici: almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di p. Fedele da S. Biagio.
Non si può, poi escludere, che taluno dei tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel secolo.

Non ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione prolissa che si sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi», nel discepolo vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non disponiamo – diversamente che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».

LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA

Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.

Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto sfilacciata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione - sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da due compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”.
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220, seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto invereconda.
Dobbiamo alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica” di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654 non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò .
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1. la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7. Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.

Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna, denominate “chiese fora le Mura”:

1. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestici” (queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria del Carmine;
2. Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.

A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei Padri fatebenefratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5. Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7. Compagnia di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda domenica di Gennaro.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti: un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1. Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2. Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3. Sac. D. Filippo Cino;
4. Sac. D. Francesco Pistone;
5. Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6. Sac. D. MichalAngelo Rao;
7. Sac. D. Ignazio Laudito;
8. Sac. D. Paulo Spagnolo;
9. Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac. D. Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.


Ma le vocazioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserlo nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci: Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.

I francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).

Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.

A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano poi infondate.

Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccolo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo si vede da una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca” delle elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.

Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluse, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.

I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.

I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).

Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1. Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4. Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.


IL CLERO RACALMUTESE NEL SETTECENTO.


Parlare delle cose di chiesa non è poi cosa diversa dal palare del vivere civile in tempi – come ancora è il Settecento – ove il sacro ed il profano non ha linee di demarcazione ben distinte. Il cosiddetto spirito laico è prodotto di colture recentissime. Certo in Francia fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma noi siamo a Racalmuto e quello che di laico vi poteva essere non andava al di là di qualche espressione blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante le pene che la curia vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine del secolo, il noto canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava al Caracciolo coloro che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo Viceré, che ancora rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia sanciva richiami, più o meno convinti.
Parlare dunque di preti a Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della componente più vistosa e più intricante della classe dirigente locale. E a ben vedere anche di quella economica.
Ecco perché ci avvaliamo di una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma conserva ancora gelosamente in Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici che finirono i loro giorni nel Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis fere immerorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro quarum animarum suffragio semel in mense in feria secundae hebdomadae ad cantandam missam omnes Sac.es, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt convenire, ut in actis Notari Panfilis Sferrazza Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro, che non si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui ha steso convinte note biografiche l’attuale arciprete, p. Puma.
Nel Settecento furono 161 gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di vivere. Per la maggior parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno solo la data di morte e l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati – note biografiche più dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro Signorino (n° 139), con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino Picone Chiodo per essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia Lauricella e divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano Campanella: le ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.

Altrove forniamo una lunga sfilza di sacerdoti, ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento. Sono ricavabili n° 118 famiglie che vantano un religioso nel proprio casato; per ordine alfabetico abbiamo:
ALAIMO
ALESSI
ALFANO
ALFIERI
ALGOZINI
AMATO
AMELLA
AMICO
AMICO E MATINA
AMICO E MORREALE
ARNONE
ARRIGO
AVARELLO
BAERI
BARONE
BARTOLOTTA
BELLAVIA
BIONDI
BIUNDO
BORZELLINO
BRUTTO
BUSUITO
CACCIATORE
CAMPANELLA
CARAMELLA
CARINI
CARLINO
CARRETTI
CASTROGIOVANNI
CASUCCI
CAVALLARO
CHIODO
CIMINO
CINO
CONTI
CRINO'
CURRETTI
CURTO
DE MARIA
DI BENEDETTO
DI CARO
DI MARIA
DI NARO
FARRAUTO
FIGLIOLA
FRANCO
FUCA'
GAGLIANO
GAMBUTO
GATTUSO
GIUDICE
GRILLO
GRILLO E BRUTTO
GUADAGNINO
LA LICATA
LA LOMIA CALCERANO
LA LUMIA
LA MATINA
LA MENDOLA
LA ROSA
LAUDICO
LAURICELLA
LO BRUTTO
MACALUSO
MAIDA
MANTIA
MANTIONE
MARRANCA
MARTORANA
MATRONA
MATTINA E MARIA
MATTINA ED AGRO'
MERCANTE
MILANO
MONTAGNA
MONTICCIOLI
MORREALE
MULE'
NALBONE
PANTALONE
PERRIERA
PETRUZZELLA
PICATAGGI
PICONE
PIRRERA
PISTONE
POMO
PROVENZANO
PUMA PAGLIARELLO
PUMO
RAO
RASPINI
RENDA
RESTIVO PANTALONE
RIZZO
ROCCELLA
SALEMI
SALVO
SALVO SINTINELLA
SASSI
SAVATTERI
SAVATTERI E BRUTTO
SCIBETTA
SCIBETTA ALFANO
SCIBETTA E FRANCO
SCIBETTA E MENDOLA
SCIME'
SFERRAZZA
SIGNORINO
SPAGNOLO
SPINOLA
SURCI
TIRONE
TORRETTA
TROISI
TULUMELLO
VINCI


L’elenco del LIBER (come d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione in latino sopra riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154) Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni 41. Il 18 dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L’autore del LIBER muore il 21 agosto 1705 all’età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni (+ 28 agosto 1706) era “predicatore e Collegiale). Collegiale era pure Davide Corso (+ 3 luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni, era stato tra i primi mansionari all’atto della costituzione della communia il 13 gennaio 1690. Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S. Nicolò. Altro collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don Giambattista Baera (+ 15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre 1712) risultano entrambi “collegiali”.
Don Pietro Casucci (+ 7 dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in Matrice “ex obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo d’Acquista (+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene tumulato come il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione all’interdetto del Ramirez. D. Francesco La Mattina era stato canonico della cattedrale. D. Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729) abbate predicatore, Vicario e collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre 1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don Fabrizio Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A quanto pare non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don Giuseppe Lo Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche collegiale, insieme con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d. Antonino d’Amico (+ 5 giugno 1732). Non solo collegiale ma anche fidecommissario della chiesa di S. Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26 dicembre 1733).
L’arciprete dr. Don Filippo Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età di 50 anni. Suo un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731. L’economo vicario d. Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don Pietro Signorino (+ 11 aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria – Fondatore della chiesa del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a sapere che d. Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S. Officio”. Muore a soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu arciprete di Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754), in quanto “fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio Bartolotta (+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva avuto un canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26 gennaio 1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27 gennaio 1757 l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche d. Vincenzo Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30 dicembre 1759) era stato commissario del S. Officio; in più “economo fidecommisso della chiesa del Monte e collegiale”. Altro commissario del S. Officio: d. Orazio Bartolotta (+ 11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il vicario foraneo dr. D. Giuseppe Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766) viene “ritrovato morto in un palmento dello Zaccanello” Aveva 19 anni. Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D. Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì ammazzato con un colpo di fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì d’apoplessia il 28 novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P. D. GIUSEPPE ELIA LAURICELLA - «Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario di Girgenti, Missionario, Predicatore e confessore di diversi monasteri e Collegi di Maria, promotore zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21 ora nelle piazze e nelle strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio, e pochi mesi pria di morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu Curato di Comitini, ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in Canicattì con pianto universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto il di lui cadavere e fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d’anni 73» P.S. Traslato al santuario di racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di 85 anni muore il detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21 novembre 1781), aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+ 16 marzo 1783). Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per l’arciprete D. Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo” D. Alberto Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a 73 anni il 24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il secolo XVIII.

Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.


Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello, don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto e non vanno neppure obliate le stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per coscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.

IL CANONICO MANTIONE


Il canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’archivio vescovile di Agrigento ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene l’autorizzazione a venderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti Grillo; a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare – quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano disponibilissimi. E’ un comportamento – quello dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda delle varie versioni, al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una chiesa da ridurre a stalla.

Santa Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento. Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’ «aura romantica ed un tantino melodrammatica».
L’INTERDETTO

L’eredità arcipretale del Lo Brutto tocca a Fabrizio Signorino: su di lui cade la tegola dell’interdetto. Senza ricorrere al Mongitore, sappiamo dai libri della matrice che:
eodem die 2 settembre 1713 VII ind. die 3 settembre 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Si dovette affiggere la bolla episcopale di interdetto generale il 3 settembre 1713, nel giorno di Santa Rosalia: forse fu anche per questo che dopo meno di un secolo decadde a Racalmuto il culto di Santa Rosalia, prima egemone ed a carico della universitas. L’ordine è quello di approfittare della notte (hora vigesima), per aggirare e raggirare le autorità civili.
Le sepolture, dal giorno dopo, non possono farsi in chiesa, ma in un luogo a ciò “deputato” dal signor arciprete. Il primo a farne le spese è un chierico coniugato a nome Santo Bordonaro:

4/9/1713 - Sancto f. cl. coniug. Stefani et Ninfa Bordonaro e mesi in loco deputato a rev.do arch.
L’esordio è duro e sembra che non si guardi in faccia a nessuno. Dopo, data la legge, trovato l’inganno: basta una bolla a pagamento di sovvenzione delle crociate per avere cristiana sepoltura in chiesa.
Certo, scatta ora il dramma della regolare somministrazione dell’estrema unzione: quest’atto ne lascia traccia:
5/9/1713 - Agostina f. di m° Stefani et Catarinae Rizzo di anni 11; sepolta in una ex foveis deputata a rev. arch. in via s. gregorii - gratis pro deo - roborata ante officium interdecti.

La fanciulletta, undicenne, figlia di mastro Stefano e Caterina Rizzo, viene tumulata - con quale strazio, è facile intuire - nelle fosse comuni prescelte (e benedette) dall’arciprete Signorino, degradanti nella scoscese contrada di S. Gregorio (S. Grigoli). E’ povera ed il funerale è avvenuto gratis pro Deo; era stata “roborata” - confortata e temprata alla morte - secondo i sacri canoni, alcuni giorni prima, quando non era scattato l’ Officium interdecti.
Ma ora muore un notabile, un Romano: non può certo venire esposto all’inclemenza del clima e di altro:
7/9/1713 - Salvatore Romano vir Josephae Romano di anni, 43, sepolto in matrice, per privilegium bullae sanc. cruciate e pure gratis pro deo.

Le note dell’atto funerario svelano parecchi aspetti religiosi ma anche sociali ed economici della Racalmuto del tempo. Il Romano muore a 45 anni, ad un’età che pur supera di molto l’età media della mortalità del secolo dei lumi in quel di Racalmuto. Appartiene ad una delle più prestigiose famiglie del luogo, ma è caduto in miseria e per i suoi funerali non può corrispondere i diritti ecclesiastici dei c.d. festuarii. Supplisce la carità dei preti, che il funerale lo fanno lo stesso, gratis pro Deo. Il settecento fu a Racalmuto, come altrove in Sicilia, misero, in crisi economica profonda, con punte di grande fame per tutti. A fine secolo, i sacerdoti racalmutesi ottengono l’autorizzazione dell’Ordinario ad impegnare gli arredi sacri per approvvigionare l’Universitas di grano per la pubblica fornitura del pane quotidiano. Lo studio del Valenti (cfr. Calogero Valenti - Ricchezza e povertà in Sicilia nel secondo settecento) può estendersi anche al primo settecento e le considerazione sulla povertà di Grotte si attagliano appieno pure a Racalmuto.
Ciò nonostante il buon Romano ha sepoltura nella Matrice: aveva la bolla della santa crociata: un privilegio che scavalca il rigore dell’interdetto del Ramirez, comminato per la difesa dei beni materiali del ricco vescovo di Catania.
Desta pietà la fine di questa neonata racalmutese: muore a soli quindici giorni: una “gloria”; potrebbe trovarsi un cantuccio nelle carnaie delle chiese; ma è povera ed è illegittima: finisce - sia pure gratis pro Deo - nel nuovo pauroso cimitero all’aperto, che l’arciprete ha degnato dell’acqua benedetta:
11/9/1713 -Antonina f. Juliae Virtulino Inzione patre ignoto 15 giorni - in fovea non benedicta deputata a rev.do arch. in via s. Gregorii ob interdictum - gratis pro deo.

Frattanto la miseria genera violenza: mastro Stefano Savatteri viene folgorato dalla lupara all’età di 44 anni. E’ povero ed i funerali avvengono gratis pro Deo. Ma è anche mastro: appartiene alla confraternita del Tau. La sua sepoltura deve avvenire nell’oratorio della confraternita - interdetto o non interdetto:
16/9/1713 - STEFANUS MAG. VIR PAULAE SAVATTERI - 44 - IN ORATORIO TAU ET SOLUM FUIT ROBBORATUS SACRO OLIO UNCTIONIS OB MORTEM VIOLENTAM GRATIS PRO DEO.

Quando a morire è un “galantuomo”, l’imbarazzo del cappellano detentore dei libri della Matrice è evidente; il suo latino si ingarbuglia, comunque la sepoltura avviene in chiesa, nonostante l’interdetto:
5/10/1713 - FRANCISCUS DON VIR MARIAE PUMO - 45 IN ECCLESIA S. JOSEPH PER PRIVILEGIUM BULLAE SS.ME CRUCIATAE OB INTERDICTUM

Le annotazioni sparse qua e là nel libro dei morti contengono queste altre notizie:
a 28 agosto 1713 - l'interdetto imposto dell'ill.mo e rev.mo signor fra d. Francesco Ramirez arcivescovo e vescovo di Girgenti - con il consenso della s. sede nella chiesa cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese _fu' rimosso; e prosciolto domenica - 27 agosto 1719 ad horam 22 - dal rev.mo signor dr. don Giuseppe Pancucci ca. tes., e vic. generale apostolico con l'actorita' della s. sede per via della sac: congregatione dell'immunita'

Li bro dei morti 1714-1724
a 28 agosto 1713 - l'interditto fu imposto dell'ill.mo e rev.mo signor d. Francesco Ramirenz arcivescovo e vescovo di Girgenti con il consenso della s. sede nella chiesa cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese

L’interdetto durò poco meno di sei anni e - forse anzi tempo - fu revocato il 27 agosto 1719, stando alle precisazioni dei libri parrocchiali.






CONCLUSIONI


Ad ispirare le precedenti dissertazioni sui punti topici della storia religiosa di Racalmuto è stato l’attuale arciprete sac. Alfonso Puma. Origini e familiari di costui hanno avuto dispiegamento in un apposito capitoletto. Qualche dato biografico va qui comunque aggiunto, ai fini di una migliore comprensione dello spirito che ha animato gli studi e la ricerca storica del lavoro che qui si licenzia.

Cenni biografici: Arciprete Alfonso Puma

Nato a Racalmuto il 21 novembre 1926, ha avuto l’ordinazione sacerdotale il 29 giugno 1950, anno santo; parroco del Carmine dal 1961 al 1966, è divenuto parroco-arciprete della Matrice di Racalmuto dal passato 1° dicembre 1966 sino ad oggi. Sin dalla tenera età aspirava al sacerdozio, e così, finite le elementari, è entrato in Seminario nell’ottobre del 1939. I suoi studi colà sono avvenuti durante il tremendo periodo della guerra. Sono stati vissuti senza eccessiva paura ma senza iattanza, nutrendo sempre la speranza di farcela.
Sua madre fu la prima direttrice spirituale; suo padre, un uomo sodo, calibrato, molto parco nel parlare ma saggio, diceva sempre: voi pensate a studiare, al resto penso io. Se faccio sacrifici o non ne faccio, voi non ve ne dovete preoccupare; dovete pensare solo a studiare. I suoi genitori sono stati i suoi primi ed impareggiabili amici.
In Seminario ha avuto padri spirituali di grande santità come il padre Isidoro Fiorini per il quale ha fatto da testimone nella causa della sua beatificazione, come il padre Stefano Conte, anima bella che lo ha sostenuto durante la guerra, o come mons. Jacolino, poi fatto vescovo, uomo di stampo tedesco ma molto temprato al sacrificio: questi, durante la guerra, riuscì a mantenere aperto il Seminario, unico caso: seppe provvedere al cibo quotidiano e per quei tempi era problema pressoché insolubile.
L’ apostolato di padre Puma si è svolto in un centro minerario, con problemi sociali e politici tutti particolari, diversi da quelli del circondario, eminentemente agricolo. La sua famiglia è stata colpita dal primo sequestro di persona dell’Italia del dopoguerra. Un suo cognato ha subito l’onta del sequestro nell’estate del 1946. Un sequestro fatto più per fame che per vera cattiveria; un atto criminoso che fruttò agli artefici ben magra ricompensa. Ciò lo ha sensibilizzato nel versante dei poveri, che astretti dalla necessità si spingono verso il crimine, ed in quello della giustizia sociale. Ciò ha ingenerato in lui una repulsione profonda, sincera nei confronti della mafia. Questa, ha combattuto con vigore, anche con le armi che promanano dal suo carattere sacerdotale e dal suo ruolo di guida del paese, come arciprete. Oggi, - può affermarsi - la mafia, quella tradizionale, discendente dalla notoria Fratellanza della Favara ottocentesca, che aveva le sue propaggini in tante famiglie racalmutesi, può dirsi finita e non certo per l’opera dell’Antimafia - Dio solo sa quanto veritiere e schiette sono state talune pagine di Leonardo Sciascia! - ma per cruentissima ed efferata autoeliminazione. Purtroppo, è subentrata una microcriminalità che non viene adeguatamente fronteggiata. Melanconicamente può affermarsi che Racalmuto si consegna al terzo millennio in deteriorate condizioni morali ed in un invivibile disordine sociale.
Lungi da lui l’insidiosa tentazione di autocommemorarsi. Non può giudicarsi per il noto aforisma: nemo judex in causa propria. Né, a dire il vero, ne ha voglia. La microstoria locale dovrà di certo occuparsi della sua persona: potrà raffigurarlo nei più disparati modi, ma non potrà in alcun modo etichettarlo come ... arciprete accidioso.
Come uomo, suo motto preferito, suol essere “fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare cose belle”.
Come prete ha dovuto attraversare un deserto, è stato “comu l’ovu, ca chiù si coci, chiù duru si fa”; non si è mai adagiato, anche se solo e solo in un deserto; ha ambito ad una fusione dello spirito pragmatico di S. Pietro e di quello speculativo, innovatore e missionario di S. Paolo. Ha difeso ad oltranza la casa del Signore. Non può vantare orpelli e questo testimonia la sua scarsa arrendevolezza verso i potenti, anche se ecclesiasticamente paludati. Se Sciascia amava dire di sé “contraddisse e si contraddisse”; come suo compaesano e suo contemporaneo, padre Puma ha amato la fede in Cristo e ha riposto fiducia nella Madonna (specie in quella nostra del Monte); ha avuto carità ed attaccamento a questo popolo di Dio racalmutese. Un suo antico parente volle ad epitaffio: “feci quod potui, faciant meliora potentes”. Lo vorrebbe adattato a se stesso.
Le svolte epocali della chiesa di Racalmuto.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accampagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito: “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).

L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. In altra sede abbiamo riportata la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne ottenne la nomina di mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi rastremata la tassa del macinato per morte di un un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III Del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V Del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie del pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sei sorelle, aveva dato in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo ( ) l’intero patrimonio dei conti di Racalmuto.
Girolamo III Del Carretto, esasperato, si rivale sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana:
contra ed adversus Reverendos Sacerdotes
don Fabritium Signorino;
don Sanctum de Acquista;
don Joseph Casucci;
don Joannem Battistam Baera;
don Petrum Casucci;
don Calogerum Cavallaro;
don Franciscum de Agrò;
et don Michaelem Angelum Rao,
indebitos possessores;

Girolamo III Del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III Del Carretto aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’esangue - ma litigiosa - contea di Racalmuto. Quella Lanza muore a Racalmuto a 70 anni come dal seguente atto rinvenibile in Matrice:
10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA UXOR HIERONIMI LANZA DEL CARRETTO RINCIP.A COMITISSA RACALMUTI 70

Viene seppellita in “S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII”: era stata assistita nella sua ultima ora dall’arciprete d. Fabrizio Signorino.
Quanto fosse addolorato l’ancor giovane marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze.

* * *
L’arciprete Lo Brutto morì nel 1696 come da atto in Matrice:

5.2.1696 VINCENZO S.T.Dr. SACERDOS DON LO BRUTTO ARCHIPRESBITER 69
MATRICE . FALLETTA PAOLINO CONF. PROB DA OBLIG.

In calce ad un libro dei morti del tempo trovasi questa nota:
Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.
A questo si abbarbica un Savatteri del XIX secolo per vantare un’ascendenza nobile ed esigere la proprietà del beneficio del Crocifisso. Ebbe però pane per i suoi denti imbattendosi nel formidabile duo, don Calogero Matrona (che quel beneficio volle ed ottenne) e l’agguerrito in utroque arciprete Tirone. La storia del beneficio è lunga: inizia nei primi quarant’anni del ’Seicento e resta scandalosamente in sospeso ancora oggi. Beneficio nato per ‘recupero crediti’ - si direbbe ora - fu da vescovi compiacenti trasformato in appannaggio di un ragazzino della potente famiglia Cavallaro, sotto condizione che divenisse e restasse prete. Don Ignazio Cavallaro morì vecchissimo, a 84 anni, il 25 novembre 1874. Il nipote Calogero Savatteri che lo teneva in casa voleva mantenere la cospicua proprietà terriera, ma la curia l’aveva assegnata a don Calogero Matrona. Il Savatteri vanta un diritto di successione affermando che i beni fondiari nient’altro erano che una dote dei Del Carretto ad un’antenata che aveva vincoli di sangue con quei nobili: ne sarebbero derivati anche titoli nobiliari che sarebbero spettati a lui ed a sua moglie: donna Concetta Matrona (le omonimie si spiegano con i tanti matrimoni tra cugini, anche di primo grado che la chiesa del tempo non solo non osteggiava, ma incoraggiava; diversamente per i poveracci erano sanzioni con umilianti atti pubblici di riparazione). Eugenio Napoleone Messana riecheggia nel suo libro queste amene vicende nobiliari, nella benevola versione tramandata in famiglia da vecchissime zie. L’arciprete Tirone, in memorie a stampa (deliziose) che si conservano in Matrice rintuzza, da par suo, quella rappresentazione dei fatti. La vertenza giudiziaria si risolve a favore del duo Tirone-Matrona. Don Calogero Matrona può prendere possesso del Crocifisso. Deve però celebrare tante messe per l’anima dei pii leganti. Vive sino all’11 gennaio 1902. Sul letto di morte un terrore l’assale: quelle messe lui non le ha mai celebrate ritenendo di potere fare una compensazione occulta con le pesanti spese sostenute contro Savatteri-Matrona. Si confida con l’arc. Genco: lascia cospicui legati come atto riparatore. L’arc. Genco interessa le autorità ecclesiali. Sostiene che il lascito, andando in conto spese per la riparazione della Matrice, ripara alla grave inadempienza del Matrona. Le autorità trovano un compromesso: una metà alla Matrice e l’altra per la celebrazione di messe per l’anima dei secenteschi benefattori.
Nella varie bolle pontificie e vescovili, il beneficio del Crocifisso deve essere volto al sostentamento di un coadiutore della Matrice. L’ignota origine - in effetti si trattava di terre rientranti nei beni allodiali della Noce spettanti ad un ramo cadetto dei del Carretto e dall’ultima erede di tale ramo rivenduti a donna Maria Del Carretto, dopo il 1650 - era stata bene strumentalizzata dall’arciprete Tirone per riavere dal governo le terre che nel frattempo erano state vendute a profittatori delle leggi dell’eversione garibaldina. Alla morte dell’arciprete Genco, quando sorse la controversia tra il Casuccio ed il padre Farrauto, il Crocifisso fu assegnato a quest’ultimo a ristoro del torto subito con la preferenza del vescovo per il primo nella nomina ad arciprete. P. Farrauto ebbe anche il contentino di una parrocchia creata dal nulla, tutta per lui: quella della Madonna della Rocca, il 26 giugno 1923. Trasferito alla parrocchia del Carmelo, gli fu consentito di conservare a titolo personale il beneficio. Quando diviene parroco del Carmine don Giovanni Arrigo, il Crocifisso viene da lui preteso e ne esige il mantenimento anche quando nuovo parroco del Carmine è don Alfonso Puma. La gestione delle appetibili terre della Noce avviene in modo ... arrighiano. Contadini amici vi si insediano ed oggi nessuno ha più titolo per allontanarli. Già perché alla morte di padre Arrigo, è la curia vescovile che ne rivendica la titolarità. Come gestisca quegli ingenti beni immobiliari, chi scrive è e vuole mantenersi all’oscuro.




DAL SETTECENTO AI NOSTRI GIORNI

IL SECOLO DEI LUMI

Premessa

Siamo giunti al Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo Castro.
Per celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?» può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato epitaffio, che attraversa come un liet-motiv, come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile. E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal «secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri, di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate nella buia stiva del disincanto.»
Che tutto ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la storia del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, «Il Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel novembre del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al trono spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare dominazione spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re Ferdinando di Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la Repubblica Partenopea. Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro padroni.»
A Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
- 9 marzo 1710: muore Girolamo III del Carretto, sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del Carretto, e così si estingue la locale casata carrettesca;
- 3 settembre 1713: Die 3 7bris 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti: l’interdetto – riflesso racalmutese della sciasciana controversia liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non potere più seppellire i propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano lo smarrimento di quel cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli implicati nella politica dovettero provare, in quello stesso periodo;
- 1715: il regio commissario generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo, in nome di S. Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e chiede il dettagliato resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e dei beni delle chiese: immaginabili il terrore e lo sgomento dei tanti nostri preti e monaci;
- 10 luglio 1716: Brigida Scittini e Galletti, vedova di Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per diritto di credito dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse in paese;
- 27 agosto 1719: sospiro di sollievo: «L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.»;
- 1736: Panormi die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum juramentum debitae fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis servandis concedatur investitura .... tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis Viridis. Don Luigi Gaetani - che doveva pur rifarsi delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale - non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le vuole tutte;
- 1738: in quest’anno, sorge una controversia feudale su Racalmuto, con tutti i crismi (e con tutti i costi). Il duca trova pretermessi anche i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto ad adire le vie legali: premette che è stato già magnanimo accontendandosi della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Non può pertanto tollerare che i benedettini usufruiscano di un falso esonero, fallacemente accordato dal vescovo di Agrigento, il noto Ramirez, in data 16 settembre del 1711;
- 1741: il 22 giugno 1741 i benedettini risultano soccombenti, con compenso di spese, però;
- 1747: la contea di Racalmuto passa alla principessa di Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
- 7.1.1754; SCIASCIA LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA di m.° Bartolomeo e Caterina olim fugati. - Matrimoni 1751-1763 - 67 – Nota: d. Albertus Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari, testi; furono benedetti da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci ragguagliano su questo antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del «nonno di suo nonno» che lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese, oriundo, per giunta, da Bompensieri;
- 1755: nasce a Racalmuto il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802) -
- 1756: il 19 febbraio viene nominato arciprete di Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla microstoria locale come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
- 1759: all’Itria viene fondata la Confraternita della Mastranza (26 luglio 1759);
- 1767: l’arciprete Campanella completa la costruzione del «cappellone grande» della Matrice;
- 1771: i Requesens si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. La Lanza – pur avanti negli anni - riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto. Annota il San Martino de Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra, Castello e feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo favore dal Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto, contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di Racalmuto; quale sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in esecuzione degli ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv. Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143, retro). [...] Detto P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino Requisenz e Morso e di Giuseppa del CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO;
- 1776: lo stesso arciprete continua nei lavori di abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.»;
- 1782: «E' noto - abbiamo già scritto - un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio.."»;
- 1783: inizia la causa – intentata dal sac. Figliola presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
- 1785: « Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico;
- 1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello ad affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
- 1786: il sac. Figliola « … ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»;
- 1787: D. Stefano Campanella prosegue nella controversia antifeudale intentata dal Figliola e così « … con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”;
- 1791-92 : forte dell’ascesa dello zio sacerdote don Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella famiglia di gabelloti, fa il grande salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così, improvvisamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il primo tassello, quello più difficile, è tutto nel carniere di famiglia;
- 1793: la vecchia. Gloriosa chiesa di S. Rosalia viene smantellata; era riuscita a resistere sino al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu barattata dal can. Mantione in cambio di un altare con statua alla Matrice;
- 1796: il feudo di Gibellini viene venduto con rogito del «Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77)». Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che « s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»;
- 1799: Il secolo dei lumi si chiude tristemente per Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale Comunia della Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo Ramirez – onde i preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad approvvigionarsi delle più urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del 23 febbraio 1799: «XAVERIUS Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae Racalmuti, Salutem. Ci rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e Sindaco le gravi pressanti urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione, a segno che si teme molto della furia della Popolo perché pressato dalla fame, e dalla miseria. Onde sono in penziero di occorrere quanto si può con mutui, eccedono, e chiedono che per conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa una certa somma, che la reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti istanze, bastevole a soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in considerazione l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci sarà permesso anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad eccitare la vostra carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché concorriate per quanto si può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie. Essendovi dunque nella Cassa la indicata somma, qualora si appronta una sufficiente bastevole fideiussione di restituirla nell’imminente Agosto e riposta in Cassa, potrete apprestarla a beneficio comune per distribuirsi in mutuo secondo le intenzioni del Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis = Canonicus Trapani Cancell».


- Il Settecento a Racalmuto sorge con le diatribe tra padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata più o meno dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali che schiariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in quel torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro che felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti borghesi (i Tulumello in testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i Farrauto) la sorte del contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine secolo, si verifica addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano, non si era mai registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia delle chiese per il panizzo quotidiano.

DOPO I DEL CARRETTO

Il seguito della storia dei del Carretto di Racalmuto mostra ombre ancora non del tutto dissolte. Noi disponiamo del testo di una procura rilasciata da don Luigi Gaetano per l’occorrente investitura della contea di Racalmuto; vi è riepilogata la faccenda della singolare acquisizione feudale: uno strano ed antigiuridico passaggio dai del Carretto ai Gaetano attraverso la popolaresca intermediazione di una tale Macaluso. L’evento poté verificarsi per il trambusto di quel periodo con quell’alternarsi dei Savoia e degli austriaci in Sicilia fino alla venuta dei Borboni.
E in un atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel tentativo di rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto, cadutale addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.


Brigida Schittini


Il lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano 1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32 onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di Carlo IV [VII] di Borbone (15 maggio 1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato, riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani - pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli. Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto civile nel Settecento siciliano.

Paola Macaluso

Paola Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per conto del duca Gaetani.

Luigi Gaetani

In tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi) in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata contea.
Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Siamo nel 1738 ed una controversia lunga e defatigante.
Trova pretermessi i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste note di cronaca.
Il duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Ma ecco che i benedettini avanzano strane pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da pari loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel 1739.

Il 22 giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le faccende racalmutesi, comunque, non sono davvero prospere: il bilancio è deficitario.

Araldica racalmutese dopo i del Carretto


Non è agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente informato). Abbiamo visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a divenire conte di Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne era ancora a conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché pose mano al volume sui del Carretto.




* * *

Sciascia rispolvera le sue giovanili letture del Tinebra Martorana; tiene presente anche questa pagina araldica del S. Martino-De Spucches ed inventa un capitoletto del suo Il Consiglio d’Egitto :

«Don Gioacchino Requesens stava, tra monsignore Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del Consiglio di Sicilia.
«”E vi voglio leggere” disse ad un certo punto monsignore “una cosa che vi farà piacere… Nella vostra famiglia, se non sbaglio, avete il titolo della contea di Racalmuto…”.
«Ci viene dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio leggere” [e qui Sciascia propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana relativa alla statistica araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio 998: noi l’abbiamo sopra trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »

Francamente, non pensiamo che don Gioacchino Requesens avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i preti di Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci rimise i privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni del terraggio e del terraggiolo.



Terraggio e terraggiolo: atto finale




Presso la Matrice, come detto, si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno 1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.

«Il sudetto nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»

Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della vicenda: l’Arciprete D. STEFANO CAMPANELLA, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo nel 1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8 Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese possesso.
«Da principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”

«Finalmente nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.

«Fu ancora Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»


La vicenda del terraggio e del terraggiolo è stata oggetto di nostre apposite ricerche, che, solo di recente per il ritrovamento di importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.

Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra Racalmuto.
La politica antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre 1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di sicuro un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là dell’aspetto sociale, che ci vede dall’altra parte della barricata, siamo portati, per amore della storia locale, a credere che il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo sbagliasse.
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo. I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi. Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)

Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori. Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»

Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Scrive dunque lo Sciascia :
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.

D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.

Tratti salienti del Settecento racalmutese

Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora che si presta alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio – che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata. Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle Scale ed il duca Gaetani.

Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare, in calce, alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice. 

Nessun commento: