mercoledì 3 febbraio 2016

Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia :
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713 (Morti dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Battesimi 1711-1716 - pag. 450.
Ad perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di benefici e di mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice, osannato da una lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don Antonius Pistone, hic situs, velu optimus heres, honorifico lapide, qui suos suorumque cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est. -
Kalendis Septembris MDCC - Post eius obitum anno sexto.
(Stemma - Pampini - leone alato ... elmo chiomato del milite)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione - sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”.
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti di stola per il matrimonio celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM 1770
TASSA PER L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL SPOSO-------- T. 1
SEDE DI DENUNCIE---------- T. 2 10 GRANI
ORDINE PER IL COPIARI TESTES T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA DI DETTA LETTERA
NELLA QUALE DONA LICENZA
DI SPOSARSI T. 1
TASSA T. 3 10 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 10 0
..
LETTERA REG.RE AL PARROCO T. 0 10 GRANI
TESTI T . 2
?? T. 1
LIC. REGOLARE T. 2 10 GRANI
TASSA DELLA LETTERA DI GI.GNTI T. 10 GRANI
// 15 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 7 5 GRANI
SE PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL COPIARE LI TESTES T. 1
SEDE DI DENUNCIA T. 2 10
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica” di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654 non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò .
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1. la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7. Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna, denominate “chiese fora le Mura”:
1. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico” (queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria del Carmine;
2. Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5. Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7. Compagnia di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1. Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2. Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3. Sac. D. Filippo Cino;
4. Sac. D. Francesco Pistone;
5. Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6. Sac. D. MichalAngelo Rao;
7. Sac. D. Ignazio Laudito;
8. Sac. D. Paulo Spagnolo;
9. Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac. D. Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.
Ma le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserli nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci: Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
I francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano poi infondate.
Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccocelo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo vedremo quando commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluso, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1. Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4. Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini descrive la Matrice:
1. Il titolo della chiesa è Maria SS.ma dell’Annunciazione ;
2. Si celebra la festa nel giorno proprio;
3. Non vi sono abusi;
4. La chiesa non è consecrata;
5. Il Padrone è il vescovo;
6. Fu eretta alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
7. Nella Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la Liberazione dell’Anime ogni lunedì e nell’ottava de morti ad septemnium per breve concesso dalla Stà di Benedetto XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
1. Questa Chiesa Matrice è construita con due ordini di colonne, con che si forma la nave e due ali;
2. Ha semplice tetto;
3. Non dona umidità;
4. Vi sono sei finestre, cioè tre con vitriate e tre senza;
5. delle quali entra vento;
6. le pareti della chiesa in alcune parti sono di piedre quadrati, in alcune con incrostatura in alcune incolte;
7. senz’erbe;
8. La fabrica da pertutto ben soda;
9. senza veruna servitù;
10. v’è choro situato nell’altare maggiore dell’istesso sito della Cappella;
11. senza sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si faranno ad eccitazione del detto rev. Archiprete;
12. non v’è separazione di luoco per le donne;
13. il pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul suo assetto interno:
1. Tocca alla Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6 di rendite annue e cioè: dal sac. Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote don Vincenzo Casucci e consorti tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì 4.10; dagli eredi di Giovan Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì 8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
2. S’amministrano dalli quattro deputati della chiesa che sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo Algozini, il rev. Vicario Foraneo D. Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone e don Gaspare Casucci.
L’Algozini ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo Sacramento di questa Chiesa Madre la compagnia del Santissomo Sacramento; l’officiali sono l’antedetto rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M° Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa Matrice chiesa non vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono il rev.do sacerdote D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso come sopra dal rev.do sac. Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono i chierici Pietro Santo Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze, quattro pagari dal rev. Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento, onze 1.10 dalla Cappella di Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre Cappelle in ragione di tarì 6 per una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la disposizione degli altari:
1. Vi sono quattordeci Altari, il Maggiore;
2. quel del venerabile;
3. della SS.ma Annunciata;
4. di S. Maria del Suffraggio;
5. del SS.mo Crocifisso;
6. di S. Vito;
7. di S. Giovan Battista;
8. di S. Leonardo;
9. di S. Antonio Abbate;
10. di S. Ignazio;
11. della Ss.ma Assunzione;
12. delli S.ti tré Reggi;
13. di S. Giuseppe;
14. di S. Maria Maddalena.
«Per quante diligenze s’abbiano fatto – soggiunge l’arciprete – non si sa dell’erezione di ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono l’altaretti conservati nello stipite e non ve ni sono portatili; sono intieri nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno [altare] privilegiato di S. Maria del Suffraggio; nessun altare ha padrone; non hanno rendite per suppellettili e manutenimento, se non quelli che si devono contribuire dalli celebranti secondo la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare però di S. Ignazio ha tarì 19 annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo in virtù di contratto per l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a 1713, e tarì 7 dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per l’atti del quondam notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind. 1717.»
Gravano sugli altari vari pesi per messe:
1. La cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
2. Cappella della SS.ma Annunciata messe n° 58;
3. Cappella di S. Giuseppe messe n° 144;
4. Cappella delli S. Tré Reggi messe 3;
5. Cappella di S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario del Casucci.
Questo l’arredo della chiesa e degli altari secondo l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario di tutti i beni mobili e stabili semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e spese di qualsiviglia sorte della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto per me D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la presenza e l’assistenza delli Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino previamente informati dei beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta chiesa Matrice è posta nella strada del Castello a frontespizio della Piazza; ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di Rosa e dall’altro le case della ven.le Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica che non sembra avvalorata dai documenti da noi investigati. Ad ogni buon fine, quella ricostruzione casucciana la riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche l’anno 1620: benedetta con licenza di Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.» A nostro avviso, c’è qui l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia tra don Vincenzo del Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo ricongiungimento delle due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un unico arciprete che a noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non ci pare molto ferrato nella storia della sua chiesa.
Attendibile invece quando parla delle Cappelle, di cui curava in definitiva l’amministrazione:
La Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata da D. Gaspare Lo Brutto e Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li superlettili di detto Altare, come di tutti gli altri altari e chiese sono li seguenti:
In primis una Cappella bianca di lama, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio;
Item una Cappella violacea di lama, con suoi Tunicelle, casubula, cappa, stole, manipoli e palio d’altare;
Item una cappella virde, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio d’altare;
Item una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una Cappella nigra di felba con scuti ricamati, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una casubula di stolfo russa , con sue stola e manipole;
Item una casubula bianca d’asprino con manipola e stola;
Item dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una casubula bianca raccamata di seta usata con stola e manipole;
Item una casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre di tela sottile, con suoi cingoli ed ammitti;
Item altri tre cammisi usuali per la giornata, con suoi cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura, con cornice scartocciata indorata d’oro;
Item n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate di mostura;
Item una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovagli d’altare;
Item un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata 1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di ligname indorati di mistura;
Item un Reliquario di Ligname indorato di mistura con sue reliquie dentro;
Item due candilieri con sua croce usati;
Item una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovaglie usate per l’altare;
Item una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré pialli d’altare usati;
Item un lampero di ramo.
In più, stando all’integrazione dell’inventario da parte dell’Algozini: sei candileri con suoi vasi novi indorati di mistura con sei rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei candileri con la croce e sei vasi;
Item sei rami usati;
Item quattro candileri piccoli;
Item una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con le cornici indorate di mistura;
Item Item due tovaglie d’altare;
Item un palio di seta violaceo e bianco con cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item un lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce indorata;
Item un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua cornice;
Item quattro candileri con sua croce usati;
Item una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con “concice indorata” (v. Algozini);
Item un palio d’altare di pittura con cornice indorata, che è “di stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo” (vedi inventario del 1° giugno 1731).
Integra l’Algozini: sei candileri con sei vasi indorati di mistura novi; sei rami di talco stagnolati novi;
Altare di S. Vito
Item L’imagine di S. Vito di ligname;
Item una tovaglia ed un palio d’altare usati.
Altare di S. Giovanni Battista
Item un quadro con la figura di detto santo con la cornice;
item l’imprincio e lavabo usati, item un palio di pittura;
itemdue candilera vecchi, ed una croce senza pede.
Altare di S. Leonardo
Item un quadro con la figura di detto santo;
Item una tovaglia ed un palio di pittura;
Altare di S. Antonio Abb.
Item la statua del santo di ligname;
Item quattro candileri con sua croce e rami vecchi;
Item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
Item una tovaglia per detto altare;
Item un palio d’altare di pittura;
Item un lamperi di ramo.
Altare di S. Ignazio.
Item il quadro con sua cornice indorata di mistura;
item quattro anegli per candeleri;
item una croce usata;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item un palio d’altare di pittura con cornice indorata di mistura.
Altare della SS.ma Assunzione
Item il quadro con sua cornice;
item quattro candileri vecchi;
item carta di gloria con l’imprincipio e lavabo vecchi;
item un palio d’altare di pittura con sua cornice.
Altare delli santi tre Reggi
Item il quadro di pittura;
item due candileri con sua croce
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo.
Altare di S. Giuseppe
Item la statua di detto santo con il suo Bambino di legname indorati
Item sei candileri con suoi vasi e rami usati, e croce;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
item un palio d’altare di seta vecchio con sua cornice;
item due tovaglie per detto altare.
Altare di S. Maria Maddalena.
Item il quadro con la figura di detta santa;
item sei candilera con la croce, quattro vasi e quattrorami;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item palio d’altare di seta con cornice indorata di mistura.
Altare del SS.mo Sacramento
Item una custodia di marmo con suo tabernacolo indorato. Item un Padiglione di seta violaceo con sua guarnizione d’argento;
item quattro candileri con sua croce;
item quattro vasi per li rami;
item dui tovaglie per l’altare;
item un palio d’altare di seta con sua cornice indorata.
L’Algozini aggiunge: due padiglioni di tela stampata; un portaletto di damasco rosso con suo gallone d’argento usato; sei candileri con suoi vasi e rami di talco stagnolati, una campanella nova per servizio delle messe e due padiglionetti per l’ogli santi.
Ovvio che è la sacrestia ove sono custoditi paramenti sacri, ornamenti vari, addobbi ed altro. Significativo l’inventario, anche perché potrà un domani servire per un museo parrocchiale veramente rievocativo della vita religiosa dei nostri antenati, contadini e pii.
Item dui crocifissi per la preparazione;
item dui chiomazzelli per detta preparazione verdi usati;
item altri dui di tela per detta preparazione;
item due coverte di tela per detta preparazione;
item uno stipo grande con altri due piccoli a lato novi;
item due coverte per il fonte battesimale di seta violetta con frinza ed altra di coiro con frinza, usati;
item due dischi;
item un’ombrella per il fonte battesimale;
item quattro lanterni novi;
item una coverta di tela rossa sopra la boffetta della cridenza;
item un portale di tela per l’organo;
item una stola di stolfo rossa;
item altra stola di damasco di diversi colori;
item una fodera per l’ombrella;
item un palio d’altare dinnanzi il battisterio;
item una sponza di ramo;
ietm un lamperi di stagno;
item una pisside con il piede di ramo;
item un altro vaso a forma di pegno con il piede d’argento per il stabile;
item un baldacchino d’asprino con li quattro asti indorati;
item un stendardo d’aspino, con altri due palietti del medesimo drappo;
item un ombrello del medesimo drappo d’asprino con n° venticinque campanelli d’argento di bolla;
item altri sei palietti, cioè due di stolfo e l’altri di diversi colori, con suoi lanterni ed asti;
item altro baldacchino bianco ed un stennardo usuali;
item altro tosollino più grande per la sfera;
item una sfera grande con il piede d’argento con la lonetta indorata;
Item l’incensero e navetta con sua cocchiarella d’argento;
item una sponza d’argento ;
item tre calici con piedi di ramo indorati, con tre patene;
item altro calice con il piede d’argento con sua patena;
item una cocchiara d’argento per il fonte battesimale;
item dui vasetti d’argento per l’oglio santo del battesimo;
item altro vaso per l’oglio santo dell’estrema unzione;
item tre paviglionetti per il vaso del SS.mo Viatico;
item tre portaletti per la custodia;
item una tovaglia bianca di taffità con guarnazione d’argento;
item altra tovaglia di taffità bianca vecchia;
item cinque corporali;
item n° undeci veli di calici di tutti colori usuali;
item n° dieci borze con suoi palli di diversi colori;
item cinque messali usuali;
item quattro missaletti;
item una cassetta con tre vasi di stagno con l’oglio santo;
item un rituale e graduale vecchi;
item dui calamara di stagno con una bussola nel battisterio;
item un particolario; item un sicchetto di ramo;
item due boffette nella sacrestia, tre cascie vecchie, un scabello, un genuflessorio, tre tovagli di facci, dui chiomazzella di felba russa usati, un crocifisso per il Pulpito, una cappa e tonicella neri lavorati, item tre incerati, un tisello (o tusello v.s.) di legname, un triangolo di ferro con cilio di cera, altro triangolo per le tenebre;
item quattro campanelli;
item una tela azola per la porta;
item tre confessionarij;
item una seggia per il SS.mo Viatico;
item un organo di cinque registri ed un polpito;
item tre trispiti;
item tre campane nel campanile, cioè una grande di sei cantara, altra mezzana di due, ed il segno.
Si chiude qui l’inventario che reca la sottoscrizione del sacerdote D. Gaspare Casucci, economo e quella del sacerdote D. Gerlando Carlino.
Nelle visite pastorali, il clero doveva sobbarcarsi alle spese per il vescovo, vettovaglie , cibarie ed ospitalità per il giorno e per la notte. L’arciprete, il vicario foraneo ed il procuratore del clero partecipavano all’eventuale Sinodo. Per il cosiddetto “cattedratico” l’arciuprete doveva sborsare 6 tar’ annui. Ministero della cura si chiamava l’ufficio sacerdotale generale. Sappiamo che in quel tempo era parroco Filippo Algozini di Prizzi, consacrato sacerdote nel 1712. Quando giunge il Gioieni era parraco di Racalmuto da «tre mesi e giorni dieci»; era di nomina pontificia (con breve di papa Clemente XII) e nel 1731 aveva 43 anni.
L’arciprete «risiede ed amministra la cura dell’Anime per se stesso e li suoi coadiutori sono il rev.do sac. D. Francesco Torretta ed il rev.do sac. D. Leonardo La Matina cui le si somministrano onze 12». Due chieri sono inoltre al servizio della Matrice, a pagamento.
Ancor oggi sono godibili i libri parrocchiali, in definitiva per l’amorevole cura dell’arciprete Algozini, guarda caso: non era neppure racalmutese. Trattasi dei seguenti libri: «parrocchiali, cioè de Battezati, de Matrimonij, dello stato dell’Anime (invero, al momento v’è un salto delle numerazioni delle anime passandosi da quella del 1654 a quella del 1755), de morti, osservando il metodo prescitto dal rituale romano con alfabettarsi; libri de confermati non si ha ritrovato per quante diligenze abbia fatto.»
“Sermoni pastorali” ogni domenica e tutte le feste comandate; la dottrina cristiana viene insegnata il dopo pranzo di tutte le feste dall’arciprete che si serve “della dottrina di Bellarmino in volgare per li figlioli" ” del "catechismo romano" per gli adulti. Una menda: “non v’è scola per la dottrina”.
Ancor oggi ammiriamo il primo libro delle “denuncie da farsi al popolo” che è proprio dell’Algozini: ivi «ogni domenica si denunciano tutte le feste e vigilie e si pubblicano gli editti del vescovo e del S.to Officio”. Quest’ultima denominazione – che avrebbe fatto drizzare le orecchie di Sciascia – resta solo un flatus vocis, visto che nulla di orripilante è dato di rintracciare nel citato volume parrocchiale. Leggiamo, ad esempio, questo tediosissimo bando (come si vedrà non vi è nulla degno della Santa Inquisizione, almeno nella versione ormai corrente): «Avendo pervenuto alla notizia del Procuratore Generale de’ Santi Luoghi di Gerusalemme che molte persone abbiano detenuto, impedito, occupato, sottratto, et in altro uso convertito l’elemosine, legati, denari, ed altri, in qualsivoglia modo spettanti a detti Santi Luoghi, essendovi anche di tal occupazione, detenzione, sottrazione et impedimento scienti alcune persone i quali per rispetto umano non vogliono rivelarlo, per ordine di Monsignore Ill.mo vescovo di Girgenti si fa canonica monizione a tutte le suddette persone che dovessero rivelare, e ciò fra il termine di giorni 15, cinque de’quali se l’assegnano per il 1° termine, 5 per il 2° e 5 per il 3°, quale spirato e non fatti li suddetti riveli si procederà da esso Mons. Vescovo e Sua E.C.V. alla fulminazione della sentenza della scomunica contro li scienti e non revelanti li detinenti, occupanti, impedienti e sottraenti l’elemosine dìsuddette. – 1731 Xa ind. Ottobre.» L’avrà spegato l’arciprete Algozini a quei basiti contadini racalmutesi, tutti alla messa della domenica? Se no, davvero avevano poco da capire. Così come anche noi stentiamo a scoprire le ragioni che spingono il “devoto e santo vescovo” Gioieni a quelle veementi minacce di scomunica … contro ignoti. A meno che, dopo l’interdetto, erano proprio i preti locali ad accaparrarsi i proventi della vendita delle bolle della crociata; in questo caso erano davvero faccende interne e prudenza voleva che si si facesse scandalo. Avrà l’Algozini farfugliato qualcosa per non disobbedire al vescovo ed al contempo non disorientare i suoi parrocchiani, i nostri antenati?
In quel periodo approda a Racalmuto M° Filippo Agostino Bianco ed intende sposare “Marca Peri, schetta, figlia legittima e naturale di M° Rosario e Vita Peri di questa suddetta terra di Racalmuto.» Il cognome Bianco fu celebre anche ai miei tempi per la spiccata personalità di don Pasqualino. Il Pepi è patronimico scomparso da Racalmuto a memoria d’uomo. Mastro Filippo Bianco era stato davvero un girovago e fu fatica improba per l’amanuense della Matrice trascrivere tutti quei toponimi esteri in cui il nubendo aveva dimorato più o meno a lungo: dalla Plagia del Marchesato di Brandeburgo alla terra di Aisein, ove si recò quando aveva 29 anni; «indi andò a travagliare da lavorante» in un paio di città estere e dopo finì a Proohoki per approdare a Vienna, passare in Lungaria, a Preseburg, in Raap, in Ophm. Ritorna a Vienna, ma non definitivamente: passa a Craaz e quindi a Piumma. Finalmente ritorna in Sicilia “con un vascello inglese” «e stette trè mesi in Palermo, di là un mese al Mazzarino, poi quindeci giorni a Butera, indi nove mesi in questa terra di racalmuto», ove intende accasarsi. Per stabilire lo stato libero, povera curia arcipretale!. Ma ci riuscirono: nessuno ebbe da eccepire dopo le pubblicazioni del 29 giugno, del 5 e 22 luglio del 1733. Pubblicazioni peraltro fatte gratis. E così: «desponsati fuerunt per me don Franciscum Torretta cappellanum , de licentia Parochi, sub die 24 julii 1733. Testes fuerunt Gaspar Giglia et Nicolaus S. Angelus, et postea benedicti fuerunt per sacerdotem Salvatorem Lo Brutto. Registrati gratis.» Frattanto una famiglia riemergeva dopo un appannamento, la famiglia Savatteri. Il 2 febbraio 1732 il chierico Giovanni Savatteri, dovendo accedere all’ordine subdiaconale, può dichiarare pubblicamente che gli è stato costituito questo cospicuo “patrimonio”: una Cappella di onze dieci annuali con l’onere di Messe dieci fora data nell’Altare di S. Leonardo, in Serradifalco, come appare per contratto di fundazione ed elettione stipulato per l’atti di notaro Simone Boni sotto li 14 gennaro 1732; ed in supplemento una vigna consistente in migliara cinque con tumuli dui e mondelli dui di terre vacue confinata con la vingna di notarr Michael Angelo Vaccaro, e altri confini, nella contrada di Bovo, e numero cinque case conlaterali confinati con le casi di D. Vincenzo La Matina nel quartieri del Monte come appare in virtù di donazione stipulata per l’atti di Notari Nicolò Pumo.» La formula di rito si concludeva con questo “monitorio”: «pertanto se alcuno sapesse che detto patrimonio sia simulato, fiduciario, o che non sia bastante o di realtà lo venghi a denunciare.»
A S. Giovanni di Dio c’era l’ospedale. Affidato ai padri Fatebenefratelli, questi – e non solo allora – parevano più intenti a farsi i fatti loro che a badare all’assistenza degli ammalati di Racalmuto. Ma, quando subivano degli “sgarbi”, si avvalevano delle censure religiose dei loro confratelli della Matrice per tentare di ritornorare in possesso dei loro beni, violentemente asportati. «Si notifica ad ogn’uno – ci tramanda l’Algozini – qualmente nel mese di dicembre del 1732, avendo andato il P. Priore del venerabile Convento di S. Giovanne di Dio per alcuni affari di detto venerabile convento nella città di Palermo, in detto tempo, per causa della sua assenza fu fatto notabile danno al detto convento con averci derubato molto mobile,come formento, sommacco, oglio, e robba di tela, e molta robba di comestibile ed altro in grave danno e detrimento del detto venerabile convento, e perché vi sono alcune persone scienti dell’antedetto, e per rispetto umani non vogliono rivilarlo, intanto fra il termine di giorni quindeci … avessero da rivelare tutto quello e quanto sanno di verità altrimenti detto termine elasso e non fatto rivelo alcuno dalli scienti dell’antedetto, si procederà contro di essi dalla G.C.V. a fulminazione di scomunica. 1733 XI Ind. Primo 8 e 15 Marzo.» La Gran Curia Vescovile non credo che abbia sortito effetto alcuno da questa minaccia di scomunica contro ignoti: voler spezzare con la paura dell’inferno il senso d’omertà che già allora doveva essere forte a Racalmuto, era pia illusione. E poi a vantaggio di chi? Di un religioso del Continente che sopra S.Anna ci stava solo per arraffare le rendite che erano state distolte da Girolamo del Carretto e sua moglie Melciorra Lanza da un antico, umanitario scopo: la cura degli ammalati dereletti.
In quel tempo le feste particolari di Racalmuto, almeno quelle che si celebravano in Matrice, erano quelle che celebrative di: «S. Giuseppe, SS.mo Crocifisso, S. Antonio Abbate» nonché quella della SS.ma Annunciata. Non erano, però, occasioni di peccato o motivi per dar scandalo: «non vi sono male consuetudini – affermava l’Algozini, e noi dobbiamo credergli – e le vedove per la mestitia giungono più tosto il tempo della Messa e così ancora le zitelle spose.» Il pudico vescovo Gioieni poteva star dunque tranquillo.
Sontuose processioni, si avevano, poi, per il SS.mo Sacramento, nel giorno del Corpus Domini e per tutta l’Ottava. Inoltre, il giorno delle Rogazioni, dell’Ascensione, nel giorno di S. Marco, in quello di S. Maria di Giesù, di Maria del Carmine e di Rosalia:
Ci viene descritta una processione solenne: la processione del Santissimo «si fa come quella della Cattedrale; le mazze dell’ombrella e Baldacchino si portano dalli Giurati senza disparere, con tanti lumi quanto intervengono alla Processione, tanto di confrati quanto di regolari e clero; la spesa del lume è somministrata d’ogn’uno di per sé o dal Corpo della Communità.» L’arciprete lamentava «l’abuso che alcuni regolari portano la Croce senza pallio, ne’ Defonti.»
Ci colpisce la meticolosità con cui andavano celebrati gli atti fondamentali della vita religiosa. Il battesimo: «si trasferisce poch’ore dalla nascita del figliolo; senza necessità non si battezzano infanti in casa; nel sabato santo e nel precedente della Pentecoste con si battezza con rito solenne.» Noi moderni difficilmente riusciamo a comprendere come mai quello che per noi è atto d’amore, per l’arciprete Algozini un abuso che intende assolutamente sradicare: «non s’ha potuto riparare – accusa – al disordine di alcune madri tengono l’infante in letto ante annum». E se anche i genitori facevano l’amore, il bimbetto di un anno poteva davvero scandalizzarsi? Prurito clericale.
L’Eucarestia «si porta all’Infermi giusta la forma prescritta di Paulo V, con diciotto lumi» a spese della Compagnia del SS.mo Sacramento: il clerico accompagnava il sacerdote con il Rituale e l’Acqua Santa. Quanto al sacramento della Confessione – tema scottante – era assicurato che «le sedie confessionali stanno il Logo aperto della Chiesa con le finestrelle e latte minutamente perforate, e con le grate spesse di legno. … Non si ammettono le donne di confessarsi di faccia a faccia.» Il problema è quello degli infermi che vengono confessati in tempo per colpa dei medici che «il più delle volte … non osservano la Chiama» E l’Algozini incalza: «il disordine che corre circa l’infermi s’è che senza tal necessità alle volte dimandano il SS.mo Viatico ad ora intempestiva.»
Ovviamente «li matrimonij si celebrano in chiesa, con la messa pro sponsis, non in casa, se non con licenza del Vescovo [come abbiamo visto per il pittore Di Benedetto, n.d.r.]». Sta iniziando l’indagine ecclesiastica di appurare preventivamente se la volontà è davvero libera: «si sta introducendo – ci segnala l’Algozini – d’esplorarsi la volontà delli sposi separatamente.» Il guaio era che già i nubendi qualche carezza se la scambiassero prima delle nozze. Apriti cielo! «Li sposi alle volte – esagera l’Algozini – coabitano prima di contrarre il Matrimonio per verba de’ presenti ma occultamente.»
Il rituale della morte è da brivido: «lo fa il Parroco quest’Officio per se stesso quando non ha altra occupazione». In ogni caso si segue un testo dovuto al Principe di Ramacca (sarebbe da cercare) e ci si attiene al Rituale di Paolo V.
Poi le esequie: «si osserva il Rituale ad amussim (a puntino); si paga di mercede per ogni defonto sepellendosi nella Parochia a ragione di tarì 8.10, cioè tarì 3 per sepoltura e tarì 4 per obitoe tarì 1.10 per Croce.» Abbiamo notato una lievitazione del prezzo della buona morte nel corso del Seicento che ora diviene decisamente alto. Intanto, scemava il tenore di vita dei meno abbienti e tanti che per orgoglio giammai avrebbero chiesto l’elemosina per il punto di morte sono ora costretti a farlo ed a seppellire i loro morti nella carnaia della chiesa “gratis pro Deo”. Aspetto questo che francamente ci turba. Abbiamo pertanto una volta stigmatizzato il costume alquanto lugubre di speculare anche sulla morte da parte delle autorità ecclesiastiche, asserendo:
«I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante- di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta” della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.»
Il passo della relazione Algozini che abbiamo prima riportato, se non giustifica l’asprezza del tono, una qualche ragione ce la dà.
E se si voleva una sepoltura in altra chiesa, aumentava il costo: «in altra chiesa tarì 5 ne si paga altro funerale se non che la quarta della cera». Anche per i bambini c’era la «quarta di Monsignor Vescovo, però si pagano soli tarì 1.10 e competisce a Monsignor Vescovo la quarta parte tanto dell’obito de grandi quanto dell’obito dei figlioli.» Una nota di costume: «non vi sono abusi delle donne dolenti e congionti del defonto». Dobbiamo arguire che l’usanza delle prefiche o si era estinta o si era attenuata fino a non apparire un abuso agli occhi dell’arciprete Algozini.
Nel tempo della Quaresima, un apposito predicatore veniva chiamato dal di fuori per le sue roventi omelie volte al pentimento ed alla redenzione. E questo nell’ampia Matrice. Ciò invece non si reputava indispensabile nel tempo dell’avvento. Occorreva risparmiare, anche perché le spese per il predicatore incombevano sull’Università: pare che ascendessero ad un’onza e 2.5 tarì.
Erano compiti della parrocchia: a) benedire e distribuire le candele; b) fornire le palme nei giorni debiti ; c) e ciò a carico dell’arciprete; d) benedire e distribuire le ceneri; e) benedire solennemente il fonte battesimale, ogni anno nel sabato antecedente alla Pentecoste; sguinzagliare i sacerdoti per la benedizione delle case. Allora come oggi.
I problemi dell’aggiornamento del clero locale in materia di morale e nelle questioni teologiche? L’Algozini ragguaglia di avere «istituito un’adunanza di casi coscienza e di sacra scrittura due volte la settimana [anche se] non v’è costituzione che la precetti; il metodo che si propone e risponde d’uno dell’adunati il caso della coscienza, ed al punto della sacra scrittura. Tiene appresso di sé la Bibbia sacra, il cristiano instruito del P. Segnari ed altre sue opere, il Nesembergh, Crasset, ed altri ascetici; di Morale, il Bonacina Viva, Sayro, Azorio, Toleto ed altri simili.
Trascriviamo ora pedissequamente il capo sesto, che contiene notizie di dettaglio molto importanti per comprendere la congiuntura storica di quel momento.
«Circa le notizie deve dare il Paroco della menza Parochiale, del beneficio e della persona. Della persona [del Parroco]: il suo nome è D. Filippo Algozini di Prizzi, d’anni 44; è sacerdote, Dottore in filosofia e teologia, revisore de’ libri nella Corte Archiepiscopale di Palermo.
«Il beneficio ha Ciesa propria [come abbiamo sopra descritto];
«Si chiama l’archiprestato di Racalmuto, sotto titolo della SS.ma Annunziata; l’è stato conferito della S. Sede; [di benefici, l’arciprete] ne possiede uno solo, [ed è] beneficio libero. Le rendite sono un tumolo di formento e un tumolo d’orgio per ogni casa, le vedove però un solo tumolo di formento, esclusi li fuggiti, miserabili e mali pagatori. Non vi sono beni alienati né usurpati; e questi sono Primizie, perché le decime tutte spettano a Mons. Vescovo e Catedrale.»
Ci viene qui spiegato il termine Primizie che pare fosse, dunque, una pretassazione a favore del Parroco; mentre le decime vere e proprie – quelle che si facevano risalire al celebre privilegio del 1099 – erano di pertinenza del Vescovo e dei Canonici della Cattedrale e venivano sottratte ad ogni ingerenza del locale arciprete.
Sulle Primizie arcipretali gravavano pesi ed oneri non indifferenti: 12 onze per i cappellani; 4 onze per i sacrestani; tarì 6 per il «catredatico»; onze 5 per il Seminario di Girgenti; tarì 20 per diritti erariali; onze 12 per aggi esattoriali; tarì 6 per la cera di S. Gerlando; tarì 6 per “l’oglio santo”; onze 4 «per sollennizzare la festa di Natale»; onza 1 «per la festa di Pascha»; onze 4 «per l’altre feste mobili dell’Anno, cioè Pentecoste, Ascensione, quadragesima, tenebri e simili; onze 2 per la Candelora; tarì 24 per le palme; onze 3 «per spese a minuto di Santuzzi, incenzo, libri parrocchiali, censi di confessionarij, purghe di sepolture, conze di vasi d’argento ed altri; onza una e tarì 18 per lavare la biancheria della chiesa; onze 7 per la quarta funerale incirca; onze 4 per sartatetti di superlletili; onze 2 per candele a chi paga la primizia; onze 4 “per provedere gli Altari”; [circa] onze 3 per “peregrini, spesa d’Erarij della G. C. Vescovile, visita, di cui non se ne sa il proprio stabilimento” ». Insomma, sull’arciprete Algozini gravavano, a suo dire, oneri per 70 onze e 20 tarì.
E allora vediamo quali erano gli altri benefici.
«Delle notizie deve dare il paroco circa i Legati e celebrazione de’ Messe», s’intitola il capo XI. Il parroco, in effetti, è tenuto a celebrare messe:
«In tutte le feste solenni e domeniche dell’anno; per li fratelli e sorelle di S. Maria del Soffraggio due messe solenni nell’anniversario, una nel primo lunedì di quadragesima ed altra nell’ottava dei defonti, ed una messa cantata cotidiana conventuale; per li fratelli del SS.mo Sacramento, una messa cantata nell’anniversario de defonti. Per il rev.do archipreste dr. D. Salvatore Petrozzella una messa cantata nel Lunedì del Corpus Domini; per D. Geronimo Provenzano una messa cantata nel giorno del suo anniversario; per Giovanna Grillo una messa cantata nell’ultimo vennerdì d’agosto.»
«La Cappella della SS.ma Annunciata tiene obligo di far sodisfare l’infrascritte messe, cioè: per l’anima di Don Gaspare Brutto messe n° dieci per reduzione fatta dal fu Ill.mo Monsignor Vescovo de la Pegna a 9 settembre 1727, in virtù di testamento del detto rev.do di Lo Brutto per gli atti di notar Natale Castrogiovanne a 3 ottobre prima Indizione 1617: al presente si pagano per Domenico d’Alaimo sopra li beni da lui possessi messe 10; Per Leonora e Bartolomeo d’Asaro messe n° 43 cioè per la detta Leonora n° 28 e per d. Bartolo n° 15 come per detta reduzione fatta dal dettoIll.mo de la Pegna nel di sopra citato, in virtù di testamento di detta Leonora per gli atti di notar Pietro Bell’omo ad 8 febraro prima indizione 1663: al presente si pagano cioè onze 2 per Onofrio Busuito ed onze 1 per l’eredi di Giuseppe Macaluso Alessi sopra il loro beni: messe n° 43; per tutti quelli avessero fatti legati alla detta Cappella Messe n° 5 ordinati dal detto Monsignor della pegna per detta reduzione: messe n.° 5».
La Cappella del SS.mo Sacramento era gravata dall’obbligo di n° 162 messe e cioè n.° 29 per l’anima di donna Melchiora Paruta Ramirez, giusta atto del notaio Castrogiovanne del 18 maggio 1592 ed a spese del Principe di Campofiorito; n° 24 per Costanza Lo Brutto, in virtù di atto del notaio Michelangelo Morreale del 5 dicembre 1636, con un onere di un’onza dovuta da Simone Sorce e tarì 21 dovuti dagli eredi di Salvatore La Matina; n° 9 per Francesca Casuccio per atto del 1638 ; n.° 29 per Orsola d’Afflitto per atto del 1654; nà 1 per l’arciprete dr. D. Salvatore Petrozzella; n° 43 per mastro Libertino Falletta; n° 4 per soro Anna di Palermo; n.° 12 per il sacerdote don Santo La Matina; n.° 10 per il sacerdote D. Antonino Macaluso; n° 1 per soro Grazia d’Agrò.
Nella Cappella di S. Giuseppe dovevano recitarsi queste messe: n° 141 per l’anima del rev.do sac. D. Giovan Battista d’Acquista; n° 1 per don Geronimo Provenzano; n° 2 messe cantate per l’anima dell’arciprete dr. D. Pompilio Sammaritano, per obbligo della Compagnia di S. Giuseppe.
Nella Cappella di S. Maria del Suffragio si celebravano: n° 8 messe per l’anima di Baldassare Promontoro; n° 9 per don Gaspare Lo Brutto; n° 2 per D. Giovanni Macaluso; n° 5 per Antonino Sferrazza; n° 12 per Giovanna Grillo; n° 10 per il rev. Sac. D. Giuseppe Sanfilippo; n° 17 per il sac. D. Girolamo Scirè; n° 43 per Francesco La Licata; n° 56 per Antonino Sferrazza; n° 14 per il sacerdote don Giovan Battista Baeri; n° 4 per Vincenzo Castronovo; n° 240 “per diverse persone descritte nella giuliana”; n° 72 per il sac. Don Giuseppe Vella; n° 4 per Giuseppe La Matina; n° 2 “per l’anima di tutti li contribuenti; n° 10 per il sac. D. Giuseppe Lo Brutto; n° 10 per d. Giuseppe Lo Brutto e Petrozzella; n° 10 per il notaio Isidoro Lo Brutto; n° 6 per don Francesco Lo Brutto; n° 58 per il sac. Don Calogero Cavallaro.
In quella “delli Tré Regi” abbiamo n° 3 messe per don Santo La Matina.
Importante ancora il ruolo delle associazioni cattoliche laiche; in sommo grado le cosiddette Compagnie. A capo stava il Governatore con due assistenti che venivano chiamato “congionti”. Spettava loro l’amministrazione dei beni e venivano eletti con voto segreto. Duravano dai pochi mesi ad un massimo di un anno, ma potevano venire rinnovati. La carica era a titolo gratuito. La Compagnia aveva rendite che spesso risalivano alla notte dei tempi.
In particolare, abbiamo informazioni sulla compagnia del SS.mo Sacramento cui si deve la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. «Fu fondata per quanto s’ha potuto con diligenza indagare nell’anno 1632: in tempo di Urbano VIII»; da quel tempo comunque intervennero le approvazioni episcopali ad ogni successione sino al predecessore del Gioieni. La confraternita aveva sede nella chiesa di S. Tommaso d’Aquino, santo che la Compagnia festeggiava nel giorno della sua ricorrenza. Ancora, a quel tempo, la chiesa non era consacrata ed era sotto il padronato della medesima Compagnia. Della chiesa si ignorava il tempo dell’erezione, ma, appunto per ciò, diveva essere piuttosto vetusta. Diciamo che risaliva per lo meno alla prima metà del Seicento. «La struttura della chiesa è a forma di oratorio; il tetto di tavoli è buono e non piove. Vi sono due finestre impannate; le pareti sono buoni; vi sono sessanta stalli di legno per fratelli; la fabrica si fa a spese delli fratelli. Ha d’entrata onze 12 dovute da don Francesco Maria per gabella di duodeci pecori di detta Compagnia; di più tarì otto dovuti annualmente da mastro Desiderio Troisi sopra una casa sita in quartiere di S. Margheritella confinante con mastro Giovanne Di Vita e Filippa La Caro, lasciateci da Costanzo di Benedetto in virtù di testamento; di più tiene Tumulo 0-1-2 di terra incirca nella contrata al Mulino Vecchio [..]; di più tarì 4 di rendita .. sopra vigna e terreno nella contrata della Noce; di più tarì 7 sopra vigna e sommacco nella contrata di Casali Vecchio.» La Compagnia teneva fiscelle di api, n° 50 pecore e da ultimo i Fratelli dovevano versare nelle casse sociali 5 grana al mese. Il loro vestiario era caratteristico: sacchi bianchi con mantello bianco orlato di nero e con la figura del SS.mo Sacramento, figura che era reiterata negli stendardi e nelle “verghe”. Nel 1731 erano iscritti 80 fratelli; dopo un noviziato ed una “prova”, con voto segreto di “tutti gli officiali e fratelli” si veniva ammessi alla Fratellanza.
La tumulazione avveniva di solito nelle chiese. Il cimitero principale era alla Matrice. «Nel pavimento della chiesa – scrive sempre l’Algozini - vi sono n° 10 sepolcrare; non sono sotto le pradelle dell’Altari; ve ne sono quattro Padronati: una delli fratelli del SS.mo Sacramaneto, altra delli Petrozzelli, altra delli Brutti ed altra dell’Acquisti.» Sorprende che non si citi quella dello sciasciano personaggio di don Santo d’Agrò.
Una notizia piuttosto inestricabile è la seguente: «vi è cemiterio dentro l’istessa chiesa murato da per tutto, e però non ci è chiave, né Croce, né speciale benedizione del Vescovo.» Un’antica “carnaria”, pensiamo noi, che nel 1731 non solo era andata in disuso ma era stata, forse per motivi igienici, totalmente sotterrata ed ermeticamente chiusa. Riteniamo che si tratti di quella che frettolasamente dovette essere aperta al tempo della gavissima peste del 1671.
Notizie di contorno: il campanile era alto 65 palmi circa e non era coperto ma poteva venire raggiunto agevolmente con una scala interna definita comoda; era munita di tre campane come abbiamo già detto che erano state benedette dao precedenti arcipreti su licenza del vescovo. Il campanile non aveva entrata autonoma: «non v’è porta perché si salisce dalla medesima chiesa.»
Notevole la sacrestia: «è a tetto, vi sono tre finestre impannate, in una parte umida. Il pavimento [è] di gisso; non vi sono armarij; è mediocremente provista di superlettili sacri secondo l’inventario; la spesa di providerla appartiene al rev.do Arciprete e legatarij di messe.»
La Matrice non era subordinata ad alcuno: non v’era jus patronatus come ad esempio a Grotte che determinerà il cosiddetto scisma alla fine dell’Ottocento. Al tempo dell’Algozini «non c’era casa Parochiale, né cose mobili destinate alli Rettori, ma ogni soccessore o se la loca o se la fabrica per sé». Singolare caso quello della Cappella del Santissimo Sacramento, in possesso di «cinquanta fiscelli d’api con l’eredi del rev.do sacerdote D. Calogero Cavallaro» (+ 12 gennaio 1730).
La controversa questione del beneficio del Crocifisso.
Nell’intricata controversia giudiziaria del beneficio del Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri vi entrano prepotentemente per due volte: nella prima, è attore il sac. Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso dell’Ottocento; nella seconda un patetico personaggio: Giuseppe Savatteri, sposato con una Matrona. Siamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. In entrambi i casi i Savatteri finirono soccombenti e gabbati. Ma procediamo con ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate vertenze giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido praedicto reperiatur Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae Status Racalmuti cum onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum salmae unius tumulorum quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di proprietà «primitivo veluti jus pheudi et proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel che si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l’arc. Tirone - «in quei tempi Mercanti». Del resto aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un triennio, ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS. Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del fondo per distruzione di migliorie, mancata corresponsione del canone ed abbandono delle terre dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa nel pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con atto notarile del 3 settembre 1659, redatto innanzi a quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che intercorsero tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca la dotazione dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc. Tirone il ruolo sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago accenno contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce Racalmuto, pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro 1669-70, pag. 488». Ma qualche chiarimento lo troviamo in quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio pro Archiconfraternitate SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la Del Carretto (del ramo collaterale dei locali conti) si obbliga di corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro .. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann. cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et contractus solutionis donationis et assignationis in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug. 1605 et aliorum contractum in eis calendatorum.» inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g. tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la chiesa di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che muore il 7 maggio 1650. Successivamente alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene l’atto del 3 settembre 1659 di cui sopra; dopo dell’arciconfraternita si perdono le tracce e tutto fa pensare che si sia estinta: si spiega forse così perché in un primo tempo i benefici di quel sodalizio finirono all’Oratorio di S. Filippo Neri, per volere del Vescovo Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi si legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio trigesimo nono” , così descrive Racalmuto:
«Recalmutum: Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et quatuor Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici 36. Animae 5.012.»
Vigilavano dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da 36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti vaticani.
Nelle città – precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti: Racalmuto: viene incluso tra gli oppida; le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c’è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes in sacris; 21 clerici e 5.027 anime. l’oppidum continua a venire designato erroneamente Recalmutum. Ignoriamo quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti politici e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15 settembre 1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a Racalmuto, come altrove in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la Domenica e nelle altre feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti ed apprenda quanto è necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni festivi il sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a chiamare i fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da chierici, insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si era premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del cardinale Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione de hoc specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo risponde bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus catholicè credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari veneratione prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis non be sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae consuetudinis abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec episcoporum paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto si vuole, il popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non erano bastevoli neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non cambia taglio e genericità la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736. Racalmuto vi è assente in termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che sono del tutto eguali a quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella successiva dello stesso vescovo Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere rigidamente ad un nutrito questionario.
Scarna anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i negozianti di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso all’inizio dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro prezzo. Donde il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi: pestilenza e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur ). Ma il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa controversa con il Regio Fisco: «completam victoriam obtinui. » Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello delle rendite racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum ). Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo – pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario, et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a Racalmuto. V’è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio Granata. E’ un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr. f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini, militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene) che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e dell’Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di Racalmuto” si associa con Francesco Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al “canonico” – palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci … […] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d’annona … […] Ed ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. […] Gli acatapani furono avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia. Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e Gayarre, de consilio sacrae catholicae majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti don Francesco Ramirez intimato d’ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l’animo di S.E. concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M. (che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d’osservare le prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d’essere lesa la libertà ecclesiastica, e d’aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a scomunicarli; e supponendo che l’esercizio di tal potestà economica fosse enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l’evidente nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de’ divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo, ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de’ sacri canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana, non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e prerogative del regio exequatur, secondo si prescrive dai più reali dispacci de’ serenissimi monarchi, fondati in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno, ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti, alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata, assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la citazione ad dicendum causam quae, secondo precettò la stessa Verità increata.»
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae, edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto. Nella Controversia ironizza: «INGASTONE … Era inevitabile che nascesse il contrabbando dei sacramenti e che andasse su di prezzo come il pane in tempo di carestia. PERLONGO L’altro giorno un mio vicino di casa, orefice di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non voleva da lui l’estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo a prendersi l’olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio di niente. INGASTONE Proprio così …A Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote, ho domandato se sapeva che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi ha risposto: ma quando tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello è che sanno benissimo quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto ad allontanarsi da Agrigento […] Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce, carceri, esili, confische e vessazioni, scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti, in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni. Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e piuttosto ondivago.
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non altro i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St. Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune misure.» Ma il 5 dicembre 1713 il re deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice della R. Gran Corte, in quanto occorre «metter il dovuto freno a que’ inconvenienti ch’ancor succedono in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per assolvere dall’interdetto. Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di Cammarata”, giusta quel che si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere che «due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa, diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo 1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di scomunica a sé riservata di più riputare il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno … potrebbe probabilmente essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì, ed altri luoghi … Ella vi proveda a tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo vacante. Il Ramirez muore – per così dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per studi linguistici di portata anche sociologica.
Il Mongitore – integrando il Pirri - ci ragguaglia sulla sede vacante con queste laconiche notizie: durante la sede vacante la Chiesa non fu guidata da alcun Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D., canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo della Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi auriense in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era laureato in Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale della congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2 febbraio 1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla pontificia di Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9 novembre del medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani dell’arcivescovo palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di breve apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone, protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario, cessò di vivere il 4 agosto 1729.»
Succede Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI. Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730, trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore - per doti d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i benefici e cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il Picone, «fu uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi rigeneratori di una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione, nel pubblico costume, e nel commercio.» Il che sarà vero per Agrigento, ma dubitiamo fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due visite pastorali che fece a Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo fiscale; piuttosto duro e bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso il nostro padre Elia Lauricella. Il padre Morreale ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal 20 novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene – scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio ad limina al papa.
Dopo, per dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi Antonio Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del suo altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal 15 settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d’acqua per l’irrigazione delle piante.»
Il 1° giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero durò sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel secolo successivo, in un’altra epoca, davvero.
IL CLERO RACALMUTESE NEL SETTECENTO.
Parlare delle cose di chiesa non è poi cosa diversa dal vivere civile in tempi – come ancora è il Settecento – ove il sacro ed il profano non ha linee di demarcazione ben distinte. Il cosiddetto spirito laico è prodotto di colture recentissime. Certo in Francia fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma noi siamo a Racalmuto e quello che di laico vi poteva essere non andava al di là di qualche espressione blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante le pene che la curia vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine del secolo, il noto canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava al Caracciolo coloro che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo Viceré, che ancora rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia sanciva richiami, più o meno convinti.
Parlare dunque di preti a Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della componente più vistosa e più intricante della classe dirigente locale. E a ben vedere anche di quella economica.
Ecco perché ci avvaliamo di una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma conserva ancora gelosamente in Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici che finirono i loro giorni nel Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis fere immerorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro quarum animarum suffragio semel in mense in feria secundae hebdomadae ad cantandam missam omnes Sac.es, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt convenire, ut in actis Notari Panfilis Sferrazza Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro, che non si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui ha steso convinte note biografiche l’attuale arciprete, p. Puma.
Nel Settecento furono 161 gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di vivere. Per la maggior parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno solo la data di morte e l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati – note biografiche più dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro Signorino (n° 139), con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino Picone Chiodo per essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia Lauricella e divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano Campanella: le ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.
In appendice forniamo una lunga sfilza di sacerdoti, ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento. Sono ricavabili n° 118 famiglie che vantano un religioso nel proprio casato; per ordine alfabetico abbiamo:
ALAIMO
ALESSI
ALFANO
ALFIERI
ALGOZINI
AMATO
AMELLA
AMICO
AMICO E MATINA
AMICO E MORREALE
ARNONE
ARRIGO
AVARELLO
BAERI
BARONE
BARTOLOTTA
BELLAVIA
BIONDI
BIUNDO
BORZELLINO
BRUTTO
BUSUITO
CACCIATORE
CAMPANELLA
CARAMELLA
CARINI
CARLINO
CARRETTI
CASTROGIOVANNI
CASUCCI
CAVALLARO
CHIODO
CIMINO
CINO
CONTI
CRINO'
CURRETTI
CURTO
DE MARIA
DI BENEDETTO
DI CARO
DI MARIA
DI NARO
FARRAUTO
FIGLIOLA
FRANCO
FUCA'
GAGLIANO
GAMBUTO
GATTUSO
GIUDICE
GRILLO
GRILLO E BRUTTO
GUADAGNINO
LA LICATA
LA LOMIA CALCERANO
LA LUMIA
LA MATINA
LA MENDOLA
LA ROSA
LAUDICO
LAURICELLA
LO BRUTTO
MACALUSO
MAIDA
MANTIA
MANTIONE
MARRANCA
MARTORANA
MATRONA
MATTINA E MARIA
MATTINA ED AGRO'
MERCANTE
MILANO
MONTAGNA
MONTICCIOLI
MORREALE
MULE'
NALBONE
PANTALONE
PERRIERA
PETRUZZELLA
PICATAGGI
PICONE
PIRRERA
PISTONE
POMO
PROVENZANO
PUMA PAGLIARELLO
PUMO
RAO
RASPINI
RENDA
RESTIVO PANTALONE
RIZZO
ROCCELLA
SALEMI
SALVO
SALVO SINTINELLA
SASSI
SAVATTERI
SAVATTERI E BRUTTO
SCIBETTA
SCIBETTA ALFANO
SCIBETTA E FRANCO
SCIBETTA E MENDOLA
SCIME'
SFERRAZZA
SIGNORINO
SPAGNOLO
SPINOLA
SURCI
TIRONE
TORRETTA
TROISI
TULUMELLO
VINCI
L’elenco del LIBER (come d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione in latino sopra riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154) Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni 41. Il 18 dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L’autore del LIBER muore il 21 agosto 1705 all’età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni (+ 28 agosto 1706) era “predicatore e Collegiale). Collegiale era pure Davide Corso (+ 3 luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni, era stato tra i primi mansionari all’atto della costituzione della communia il 13 gennaio 1690. Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S. Nicolò. Altro collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don Giambattista Baera (+ 15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre 1712) risultano entrambi “collegiali”.
Don Pietro Casucci (+ 7 dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in Matrice “ex obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo d’Acquista (+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene tumulato come il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione all’interdetto del Ramirez. D. Francesco La Mattina era stato canonico della cattedrale. D. Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729) abbate predicatore, Vicario e collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre 1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don Fabrizio Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A quanto pare non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don Giuseppe Lo Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche collegiale, insieme con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d. Antonino d’Amico (+ 5 giugno 1732). Non solo collegiale ma anche fidecommissario della chiesa di S. Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26 dicembre 1733).
L’arciprete dr. Don Filippo Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età di 50 anni. Suo un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731. L’economo vicario d. Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don Pietro Signorino (+ 11 aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria – Fondatore della chiesa del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a sapere che d. Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S. Officio”. Muore a soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu arciprete di Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754), in quanto “fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio Bartolotta (+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva avuto un canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26 gennaio 1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27 gennaio 1757 l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche d. Vincenzo Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30 dicembre 1759) era stato commissario del S. Officio; in più “economo fidecommisso della chiesa del Monte e collegiale”. Altro commissario del S. Officio: d. Orazio Bartolotta (+ 11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il vicario foraneo dr. D. Giuseppe Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766) viene “ritrovato morto in un palmento dello Zaccanello” Aveva 19 anni. Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D. Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì ammazzato con un colpo di fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì d’apoplessia il 28 novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P. D. GIUSEPPE ELIA LAURICELLA - «Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario di Girgenti, Missionario, Predicatore e confessore di diversi monasteri e Collegi di Maria, promotore zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21 ora nelle piazze e nelle strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio, e pochi mesi pria di morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu Curato di Comitini, ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in Canicattì con pianto universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto il di lui cadavere e fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d’anni 73» P.S. Traslato al santuario di racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di 85 anni muore il detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21 novembre 1781), aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+ 16 marzo 1783). Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per l’arciprete D. Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo” D. Alberto Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a 73 anni il 24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il secolo XVIII.
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello, don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Il canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare – quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda delle varie versioni , al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una chiesa da ridurre a stalla.
Santa Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento. Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’ «aura romantica ed un tantino melodrammatica».
Francesco Lo Brutto aromatario
Scrivevo qualche mese fa:
Non sono disponibili dati anagrafici su Francesco Lo Brutto. Riteniamo che fosse molto più anziano del sac. Santo Agrò e gli sia premorto, ragion per cui non può avere sostenuto le spese di miglioria della nuova matrice, specie quella a tre navate che sappiamo operante solo dopo il 1662. Nella numerazione delle anime del 1660, il nominativo non figura per nulla e quindi era deceduto da tempo.
Una recentissima consultazione del Rollo Primo del Suffragio apre qualche spiraglio sulla identità di questo speziale del seicento tramandatoci dal Pirri. Ai fogli 72 e seguenti abbiamo la cronistoria di un legato di don Gaspare Lo Brutto alla Confraternita del Santissimo Suffragio delle Anime dei defunti fondata nella Matrice. La lettura degli atti ci consente di stabilire che il sacerdote è figlio di Antonino Lo Brutto e che l’aromatario Francesco Lo Brutto era un suo fratello. Gli atti risalgono al 20 ottobre 1616 ed al 3 ottobre 1617.
Da qui è piuttosto agevole risalire al nucleo familiare secondo quel che emerge dal Rivelo del 1593. Non vi dovrebbero essere dubbi che il “fuoco” in questione sia il seguente:
LO BRUTTO ANTONINO CAPO DI CASA DI ANNI 48 – CONSTANZA SUA MUGLERI - VINCENZO SUO FIGLIO DI ANNI 18 - GIAIMO SUO FIGLIO DI ANNI 17 – FRANCESCO SUO FIGLIO DI 15 - JOSEPPI SUO FIGLIO DI ANNI 10 - GASPARO SUO FIGLIO DI ANNI 5 - ANTONELLA SUA FIGLIA - NORELLA SUA FIGLIA
L’aromatario del Pirri dunque nacque a Racalmuto attorno al 1578 da Antonino e Costanza Lo Brutto. I suoi fratelli, oltre al sacerdote che morì molto giovane (il 4 ottobre 1617 secondo il Liber c. 2 n.° 31), furono Vincenzo (nato attorno al 1575), Giaimo (nato attorno al 1576) e Giuseppe (nato il 19.1.1585); le sue sorelle: Antonella (nata il 26.9. 1581) e Norella.
Quest’ultima si sposò con un fratello di Pietro d’Asaro:
23 10 1622 D'ASARO BARTOLO di GIOVANNI q.am e di GIOVANNA con LO BRUTTO Leonora di Antonino q.am e di Constanza. Testi: Curto cl. Panphilo e Sferrazza Mariano. Sacerdote: Sanfilippo don Gioseppe Trattasi del fratello del Pittore . Bartolo era nato il 10.12.1597.
Don Gaspare Lo Brutto morì dunque all’età di 29 anni come dal seguente atto e fu sepolto a S. Giuliano:
4
10
1617
Lo Brutto
don Gasparo
S. Giuliano Per lo clero Gratis
Ecco come è ricordato nella visita del 1608:
cl: Gasparo Brutto an: 20 cons. ad duos p. min. ord. die 19 maij 1606 Panormi
Un giorno prima di morire fa testamento e dispone il seguente legato in favore della Cappella del Suffragio delle Anime del Santissimo Purgatorio fondata nella Matrice chiesa:
Est sciendum qualiter iner alia capitula donationis mortis causa condite per condam don Gasparem Lo Brutto in actis meis infrascripti sub die iij octobris prime ind. 1617 extat capitulum pro ut infra:
Item dictus donans donavit et donat legavit et legat Confraternitati SS.mi Suffragij Animarum SS.mi Purgatorij fundate in Hac Terra Raclmuti tt.os viginti quatuor redditus de summa supradictarum unciarum trium anno quolibet debitarum per dittum Don Antoninum Capoblanco ad effetum celebrandi missas viginti quatuor de requie pro animas defunctorum anno quolibet in perpetuum scilicet: missas duodecim in quolibet nono die mensis novembris cuiuslibet anni et missas duodecim hoc est in die lune cuiuslibet mensis unam missam in perpetuum quoniam sic voluit et non aliter.
Ex actis meis not. Natalis Castrojoanne Racalmuti.
Il 20 ottobre del 1616 don Antonino Capobianco era ancora chierico. Egli è costretto a sistemare una intricata vicenda giudiziaria proprio con don Gaspare Lo Brutto. Questi è però già infermo e manda al suo posto proprio l’aromatario ricordato dal Pirri, Francesco Lo Brutto appunto. Il resoconto trovasi nell’atto del Rollo del Suffragio (f. 72)
Die xx octobris XV ind. 1616
Notum facimus et testamur quod Franciscus Lo Brutto Aromatarius huius terre Racalmuti tamquam commissariatus D. Gasparis Lo Brutto eius fratris a quo dixit habere tale specialem mandatum ... sponte quo supra nomine pro heredibus et successoribus dicti D. Gasparis in perpetuum vendidit et alienavit .. clerico Antonino Capoblanco eiusdem terre Racalmuti ... unam vineam de aratro arboratam cum eius clausura in duabus partibus cum suis puntalibus domo torculari limitibus maragmatis gessi et alijs in ea existentibus sitam et positam in feudo predicto Racalmuti et in contrata Garamolis secus vineam Hyeronimi Capoblanco ex una et secus aliam vineam dicti clerici Antonini emptoris et secus vineam heredum quondam Nicolai Capoblanco minoris et secus vineam Antonini Curto Bartholi et alios confines; et eademmet bona quae possidebat Nicolaus Capoblanco maiori, dictoque don Gaspari uti ultimo emptori et plus offerenti predicta bona liberata per primum et secundum decretum et actum possessionis inclusive redactum penes acta curie dicte Terre Racalmuti diebus etc. banniata et subastata ad instantiam quondam Antonini Lo Brutto et pro ut melius est expressatum et declaratum in dictis decretis superius calendatis ad quae in omnibus et per omnia plena habeatur relatio et me refero et non aliter nec alio modo.
Totam dictam vineam cum omnibus supradictis etc. subiectam dictam vineam cum arboribus ... cum eius solito onere census proprietatis et directi dominii debiti et anno quolibet solvendi ill.i Comiti dicte Terre Racalmuti a quo ill.e proprietario prefati contrahentes ad invicem proprio eorum nomine licentiam auctoritatem et consensum reservaverunt et reservant cum debita et solita protestatione mediante
Et hoc pro pretio unc. triginta quatuor p.g. de pacto et accordio inter eos absque estimatione ... de quibusquidem unc. 34 quoad uncijs quatuor dictus clericus Antonius dare realiter et cum effectu solvere promisit et promittit dicto d. Gaspari absenti ..
Et pro alijs uncis triginta ad complementum dictarum unc. 34 dictus clericus Antonius vendidit et subiugavit dicto d. Gaspari Lo Brutto uncias tres redditus censuales et rendales .. super dicta vinea
Item in et super quamdam aliam vineam sitam et positam in dicta contratasecus supradictam vineam et secus dictam vineam Antonini Curto de bartolo et secus vineam dictorum heredum quondam Nicolai Capoblanco
Item in et super duabus domibus terraneis existentibus in dicta terra et in quarterio Fontis secus domos heredum quondam Vincentij Mannisi ex una et secus domos dicti Hieronimi Capoblanco ex altera
Testes Franciscus Manueli D. Michael Barberi et Joannes Franciscus Pistone
Ex actis meis not. Simonis de Arnone.
In actis curie juratorum ..Grillus mag. not. Franciscus
Anche don Antonino Capobianco ebbe breve vita. Crediamo che sia una delle innumerevoli vittime della peste del 1624. Già il 22 novembre 1626 risulta deceduto. Naturalmente la cappella del suffragio si fa parte diligente nella riscossione del legato. Tocca al solerte don Santo d’Agrò, nella sua veste di deputato della Cappella del Suffragio delle anime del santissimo Purgatorio, fondata nella chiesa Maggiore, di sollecitare gli eredi, come dalla seguente carta notarile (Rollo Suffragio f. 75):
Die XXII novembris X ind. 1626
Fuit per me notarum infrascriptum ad instantiam don Sancti de Agrò deputati Capelle Suffragij animarum S.mi Purgatorij fundate in maiori ecclesia huius terre Racalmuti ... intimatum et notificatum Vincentio et Vito Capoblanco fratribus heredibus universalibus quondam don Antonini Capoblanco Sacerdotis olim eorum fratris presentibus et audientibus contractum de summa illarum unc. trium redditus annualium per ipsos de Capoblanco dicto nomine debitarum anno quolibet heredibus quondam don Gasparis Lo Brutto subiugantium per dittum quondam don Antoninum dicto quondam don Gaspari vigore huiusmodi contractus subjugationis facti in actis not. Simonis de Arnone die XX octobris XV ind. 1616, habeant et debeant anno quolibet solvere dicte Capelle Suffragij eiusque deputatis tt. 24 redditus e sunt pro alijs dette Cappelle legatis per dittum quondam don Gasparem in eius donatione causa mortis fatte in attis meis not. infr. die iij octobris p. ind. 1617 et nemini alteri solvere sub pena anno quolibet .... unde
Testes Antonius Curto martini et Franciscus Curto Joseph
Ex actis meis not. Natalis Castrojoanne.
* * *
Giaimo Lo Brutto morì pure giovanissimo, appena ventiquattrenne, ed era ancora scapolo: non può quindi essere quello del noto processo dei Savatteri che rivendivano il beneficio del Crocifisso in quanto eredi del nobile Giaimo Lo Brutto:
1 9 1600 Lo Brutto Giaimo Antonino Carmino per lo clero
La madre fu al contrario piuttosto longeva: morì nel 1636 e venen sepolta nella chiesa che il figlio aromatario avrebbe abbellita:
27 6 1636 Lo Brutto Costanza m. del q.m Antonino Matrice sepulta in questa magior eclesia.
Su Leonora (Norella) Lo Brutto, sposatasi con Bartolo d’Asaro, possiamo piluccare qualche dato: Nel 1636 era già vedova. Le amministra i beni il pittore Piero d’Asaro che li include nel suo rivelo come sue “gravezze”. Dichiara il 25 novembre 1636 nel documento intestato:
Rivelo che il Cl. Don Pietro d'Asaro, clerico coniugato di questa terra di Racalmuto presenta con giuramento nell'officio del signor D. Giacomo Agliata capitano d'arme del Regno nella nuova numerazione delle anime, e facultà in virtù di bando d'ordine di d. sig. cap.no d'arme in detta terra a 25 novembre Va ind. 1636
tra le altre, la seguente “gravezza”:
Gravezze mobili
Deve onze ducento a Leonora d'Asaro di detta terra relicta dal q.m Bartholo d'Asaro per causa et compenso delle sue doti assegnatele per testamento di d.o q.m Bartholo in notaio Simone d'Arnone di detta terra di onze....................................200
Ella morì a 74 anni nel 1663 come dal seguente atto:
8 2 1663 D'Asaro Leonora 74 Uxor q. Bartholomei Matrice presente clero Agro' Libertino
MANSIONARI 1690
[DALL’ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRI VESCOVI 1689-1690 - F. 898 E SS.]
“Racalmuto - Concessione di insegne corali pei 12 mansionarii”
Nos frater don Xaverius Maria Rhini ex ord. min. reg. observantiae Sancti Principis nostri Francisci Dei et Sanctae Apostolicae sedis gratia Agrigentinus Regiusque Comitus etc:
Dilecto in Cristo filio Ill.ri Domino nostro D. Hieronimo del Carretto principi comiti terrae Racalmuti huius nostrae agrigentinae dioecesis et salutem in Domino et nostram episcopalem benedictionem.
Perillustres hae imperialis familiae, et antiquissimae nobilitatis genus, multiplica servitia, quae ad suorum perillustrium Antenatorum imitationem, invictissimo nostro Catholico Hispaniarum Regi in muneribus militaris campi ad bellum in revolutionibus Civitatis Messanae, et in bello regio Galliae evidenti cum tuae vitae periculo in fonte inimicorum tuis maximis dispensiis manutendo societates militum siculorum, alemannorum et calabriensium, et vicarij generalis prius in civitate neti, et postea in hac Civitate Agrigenti, eamque repartimentis toto d. belli et revolutionum tempore contra Gallos ad singularem benefitium, et huius regni hi tamen prestiti, et in diem prestare non curans (?), quorum intuitu à predicto invictissimo Rege pias (?) ceteras mercedes habuisti munus Pretoris predictae Siciliae regni et clavem auream uti illius eques; aliaque innumera laudabilia merita nobis satis superque cognita nos inducunt, ut te specialibus favoribus, et gratiis prosequamur. Praemissa igitur prae oculis habentes in exequtione provisionis de ordine nostro factae in domo tuae suppicationis, tenore pretium Bullarum perpetuo valiturum concedimus facultatem, Reverendissimum Archipresbyterum et duodecim Mansionarios, et Chorales distributionarios à nobis eligendos, et qui pro tempore erunt in Sacra distributione de numero duodecim iam ex nostra facultate erecta et fundata pro divini cultus incremento, et Sanctissimi Purgatorii anumarum suffragio, per alias nostras Bullas expeditas sub die 12 Januarii currentis posse deferre capuccium sive Almutium sericum, quò ad rev.m Archipresyiterum et Vicarium nigri, et subtus rubri colorum, et quò ad alios nigri, et subtus violacii colorum..
Mandantes etc. ....
die 13 januarii 1690
Officiati
Santo d’Acquista terrae Racalmuti (ex 12 coristi);
don Antonio de Amico;
don David Corso;
don Vincentio Casuccio Racalmuti;
don Francesco Pistone;
don Nicolao Carnazza;
don Filippo Cino;
don Giovanni Sferrazza;
don Francesco Savatteri;
don Pietro Casuccio;
don Vincenzo Castrogiovanni;
don Santo la Matina.
don Caetanus Cirami (in casu vacationis mansionarium);
don Fabritio Signorino (de suprannumerariis);
don Stefanus Faija (soprannumerario della sacra distribuzione);
don Calogero Cavallaro ( ‘’ ‘’ ‘’ ‘’ );
don Pietro d’Agrò ( ‘’ ‘’ ‘’ ‘’ ).

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