martedì 23 febbraio 2016

CONTINUAZIONE
VOLUME SECONDO
STORIA DI RACALMUTO
DAL SETTECENTO AI NOSTRI GIORNI
IL SECOLO DEI LUMI
RITORNANO LE MINIERE DI ZOLFO
Si sostiene, anche autorevolmente, che «l’industria zolfifera siciliana nasce all’inizio dell’800 – e si potrebbe fissare anche una data di valore puramente indicativo, il 1808, dato che fu in quell’anno, sotto la protezione britannica, che vennero dati ai grandi nobili siciliani le prime concessioni minerarie per lo sfruttamento dello zolfo …» Secondo gli studi da noi consultati, bisognerebbe risalire al 1839 per individuare a Racalmuto i primi industriali minerari dello zolfo e costoro sarebbero, tra gli altri, Giuseppe Scibetta, il barone Tulumello, Gaetano Capitano, la chiesa della Madonna del Monte, Maria Mazza in Vinci, Giuseppe Farrauto, i fratelli Lo Brutto, Calogero Ventura, Francesco e Calogero Borzellino, Gaetano Messina, Gaspare Lo Giudice, Illuminato Grillo. Miniere sorgevano in località di Cannatone, Pernice, Pietre Bianche, Gibellini e Fra Paolo.
Una pubblicazione del Colonna del 1971 ci consente di retrodatare a prima degli anni ’90 del ‘700 il sorgere della coltivazione dello zolfo a Racalmuto. E’ certo che nel Dizionario geografico del Regno di Sicilia di F. Sacco – edito in Palermo nel 1799 – sono segnalati «la produzione e il commercio del prezioso minerale nelle località di Palma, Petralia Sottana, Recalmuto [sic], Riesi, S. Cataldo, Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini e Licodia Eubea. E pensiamo che il De Borch, scrivendo del suo viaggio in Sicilia nel 1781, non abbia ben distinto tra “Millocca” e le miniere racalmutesi, che già sin da allora potevano essere attive. Soggiunge il Colonna: «La cattiva condizione o insufficienza della rete stradale, l’assoluta incompetenza dei coltivatori erano i principali motivi della condizione di precarietà in cui versava, intorno al 1781, la coltivazione di queste miniere, la cui produzione si aggirava intorno ai 25 mila cantari. (D. DOLOMIEW, Un voyage géologique in Sicile en 1781, notes inedites par M. ALFRED LACROIX, Paris 1919, p. 34.)» Sempre secondo il Colonna (op. cit. pag. 15), «Nonostante la limitata espansione del processo Leblanc, la esportazione dello zolfo siciliano continuava ad incrementarsi. Infatti sul declinare del secolo [XVIII] si esportavano dalla Sicilia circa 90 mila cantari di zolfo all’anno al prezzo di un ducato a cantaro, ed il principale mercato di sbocco era Marsiglia, che accentrava fabbriche di acido solforico e soda artificiale. (A. COPPI, Annali d’Italia dal 1750 al 1861, Napoli 1872, vol. III p. 479)»
Dopo un oblio che pare sia durato quasi tredici secoli, ecco a Racalmuto tornare lo zolfo, prodotto in pieno Settecento con i sistemi romani, con le “gavite”, lo sfruttamento umano, i “carusi” e le fornaci dai pennacchi di fumo devastatore di piante e di delicate specie animali. Ricominciò l’inquinamento del territorio, si riebbero le vulnerazioni ecologiche, il disastro paesaggistico, l’offesa alla natura che ancora continua. Quelle zone minerarie, glabre ed incolte, si pongono in desolato contrasto con le ubertose campagne che si ammirano lontano dalle ultime stigmate dei forni Gill.
IL XIX SECOLO RACALMUTESE
Introduzione
C’è chi vuol far credere che il Medioevo sia finito in Sicilia solo nel XVIII secolo; finché vi fu feudalesimo vi sarebbe stato dunque il buio tempo medievale; se è così Racalmuto sarebbe uscito dalle tenebre dell’età di mezzo nientemeno che per merito di due preti: il Figliola e l’arciprete Campanella. Il sorgere di due torri campanarie a ridosso della Matrice scandirebbe, quindi, il passaggio all’età moderna. Cacciato il Requisenz, l’avvento degli ottimati quali i Matrona ed i Tulumello, i Savatteri ed i Farrauto, i Grillo (ivi compreso l’impositore del celebre arco di don Illuminato) ed i Nalbone e gli altri, che abbiamo citato, avrebbe lanciato la vecchia universitas nei sentieri luminosi dell’era moderna ed il nuovo massonico pensare avrebbe liberato dai retaggi schiavistici dell’antica religione dei padri i poveri contadini, i mezzadri, i pastori ed anche i mastri. Tanti ne sono convinti; noi, sommessamente, ne dubitiamo.
Il Caracciolo, nel Settecento, non fu per noi così aperto come lo si descrive: era persino capace di redarguire i poveri racalmutesi che si sottraevano al precetto pasquale. Gli successe nel 1786 il principe Francesco d’Aquino di Caramanico. Sembra che questi continuasse l’opera del predecessore e riducesse ulteriormente i privilegi della nobiltà. A Racalmuto, a goderne furono solo i soliti “galantuomini” mentre per il popolino poco cambiò. Anzi, pare che per la prima volta i raccolti granari delle ubertose campagne non bastarono neppure a sfamare la povera gente e sovvennero i preti – proprio gli odiati preti – con l’avallo del supplente del vescovo, che almeno in quel periodo non c’era in Agrigento per la cosiddetta “sede vacante”.
Nella settimana santa del 1795, il Di Blasi guidava un gruppo di giovani animosi in un folle tentativo volto ad instaurare la repubblica in Sicilia. Delatori e gesuiti segnarono l’infelice fine del giurista, finito decapitato il 20 maggio 1795 a Palermo, in Piazza Santa Teresa. L’intrigo politico intenerirà il nostro Sciascia, nonostante la sua flemma miscredente. Scriverà un libro che voleva emulare il Gattopardo. “Il Consigli d’Egitto” a noi pare opera minore.
Nel 1796 la Sicilia risulta tutta per re Ferdinando e gli fornì uomini e denari contro i francesi. Crediamo che Racalmuto non sia stata da meno. Per impulso dell’arcivescovo Lozez y Rojo, tanti furono costretti a depositare alla zecca di Palermo gli oggetti d’oro e d’argento. Ma qui, i racalmutesi saranno stati abili nel sottrarsi a siffatta espoliazione: non vi riusciranno quando furono chiamati – un secolo e mezzo dopo – da Mussolini a dare “l’oro alla patria”. Da preferire, francamente il re borbone.
Tutti commossi i siciliani – anche i nostri antenati racalmutesi – quando nel 1798 il povero re Ferdinando fu costretto a lasciare Napoli per un soggiorno nella non gradita Palermo. Non capirono che si trattava di un soggiorno provvisorio, ultracostoso, per giunta, per gli ospitali isolani.
Il 10 luglio 1806 la Sicilia dovette onorare un donativo di centomila ducati, che il suo parlamento aveva generosamente votato. Tanto era il popolo a pagare, anche le classi lavoratrici racalmutesi. Frattanto gli inglesi stazionavano lungo le coste e facevano sentire la loro influenza all’interno.
William Bentinck, nonostante l’ostilità della regina Maria Carolina, impone il richiamo degli esiliati, abolisce la tassa dell’uno per cento e fa allontanare la stessa regina dal governo, costringendola a ritirarsi in una villa a Mezzomorreale. E ciò nel triennio (dal luglio 1811 al luglio 1814) in cui il plenipotenziario inglese poté essere il vero dittatore della politica siciliana.
Nel 1812 si ha la costituzione siciliana, il primo esempio italiano di uno statuto elaborato da un’assemblea costituente. Il 4 giugno 1815 il re lascia Palermo per Napoli da dove smantella tutti i privilegi che prima aveva accordato ai siciliani. Con le riforme del 1817 e del 1818 finisce ogni sembianza di regno autonomo e qui nell’Isola inizia il dissidio spirituale con Napoli che in definitiva doveva portare alla dissoluzione della monarchia borbonica e alla costituzione del regno d’Italia.
Varie rivoluzioni in questi sei primi decenni del secolo: da quella del 15 luglio 1820, con carattere chiaramente separatistico, a quella del 1848-49 di carattere federalistico e patriottico in senso nazionale, e soprattutto a quella celeberrima del 1860.
Appena l’inglese Bentinck si consolida come il dittatore della politica siciliana, ecco che vaste operazioni di disinfestazione dei briganti locali vengono condotte, con riverberi anche a Racalmuto. Ne fa le spese un membro di un ramo cadetto della famiglia Nalbone, a quel tempo piuttosto in ombra.
In piena piazza viene truculentemente seviziato e poi giustiziato tale Salvatore Nalbone. E’ il 23 novembre del 1811. In Matrice, troviamo annotato questo agghiacciante atto di morte:
Salvator Nalbone vir vid. Conceptae .. anni 42 miserandus, sumptis tantum sacramentis penitentiae et viatici, secato capite, multatus a trib. n. reg. cur. Criminalis, animam in patibulo expiravit in medium plateae, et secatis capite et manibus, corpus eius per me D. Paulo Tirone sepoltum in ecclesia Matricis in fovea commune.
Salvatore Nalbone muore dunque il 23 novembre 1811 all’età di 42 anni: era nato il 23 marzo 1769 da Pietro e Rosa Caterina Nalbone. Tutto lascia pensare che trattasi di quel brigante su cui spazia l’irrefrenabile fantasia di Giuseppe Napoleone Messana.
Anticipando alquanto gli eventi briganteschi, proprio il Messana scrive a pag. 168 del suo libro su Racalmuto: «Salvatore Nalbone e Ninu Macaluso furono a capo di una banda che operò stragi al punto da provocare un editto particolare di Ferdinando di Borbone, Fra l’altro questa banda in un conflitto riuscì a vincere i gendarmi nel poggio di Rocca Rossa, uccidendoli tutti. Si salvò solo il capitano d’armi perché, presagendo la sconfitta, si era travestito. Quando vide cadere tutti i suoi uomini , si diede alla fuga e si andò a nascondere nel granaio del “villico Garlisi”. I briganti portarono i corpi dei gendarmi uccisi in paese, li attaccarono ai ganci delle macellerie e, spavaldamente, in piazza sbandizzavano a tutta voce: Carni munnana a quattru rana lu ruotulu. Le notizie sulla banda Nalbone Macaluso il Messana [crediamo Serafino, n. d. r.] dice di averle apprese da Gaetano Macaluso, fratello del brigante. Poiché sappiamo che lui visse [chi?] dal 1818 al 1892, nulla vieta di pensare che, detta banda, sia rimasta operante fino ai primi del secolo XIX.»
Su Ninu Macaluso non sappiamo nulla; su Salvatore Nalbone, abbiamo già detto.

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