sabato 26 dicembre 2015


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L’arciprete Lo Brutto morì nel 1696 come da atto in Matrice:
 
5.2.1696
VINCENZO
S.T.Dr. SACERDOS DON
LO BRUTTO
ARCHIPRESBITER
69
MATRICE
.
FALLETTA PAOLINO CONF. PROB
 
DA OBLIG.
 
 
In calce ad un libro dei morti del tempo trovasi questa nota:
Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO  e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.
A questo si abbarbica un Savatteri del XIX secolo per vantare un’ascendenza nobile ed esigere la proprietà del beneficio del Crocifisso. Ebbe però pane per i suoi denti imbattendosi nel formidabile duo, don Calogero Matrona (che quel beneficio volle ed ottenne) e l’agguerrito in utroque arciprete Tirone. La storia del beneficio è lunga: inizia nei primi quarant’anni del ’Seicento e resta scandalosamente in sospeso ancora oggi. Beneficio nato per ‘recupero crediti’ - si direbbe ora - fu da vescovi compiacenti trasformato in appannaggio di un ragazzino della potente famiglia Cavallaro, sotto condizione che divenisse e restasse prete. Don Ignazio Cavallaro morì vecchissimo, a 84 anni, il 25 novembre 1874. Il nipote Calogero Savatteri che lo teneva in casa voleva mantenere la cospicua proprietà terriera, ma la curia l’aveva assegnata a don Calogero Matrona. Il Savatteri vanta un diritto di successione affermando che i beni fondiari nient’altro erano che una dote dei Del Carretto ad un’antenata che aveva vincoli di sangue con quei nobili: ne sarebbero derivati anche titoli nobiliari che sarebbero spettati a lui ed a sua moglie: donna Concetta Matrona (le omonimie si spiegano con i tanti matrimoni tra cugini, anche di primo grado che la chiesa del tempo non solo non osteggiava, ma incoraggiava; diversamente per i poveracci erano sanzioni con umilianti atti pubblici di riparazione). Eugenio Napoleone Messana riecheggia nel suo libro queste amene vicende nobiliari, nella benevola versione tramandata in famiglia da vecchissime zie. L’arciprete Tirone, in memorie a stampa (deliziose) che si conservano in Matrice rintuzza, da par suo, quella rappresentazione dei fatti. La vertenza giudiziaria si risolve a favore del duo Tirone-Matrona. Don Calogero Matrona può prendere possesso del Crocifisso. Deve però celebrare tante messe per l’anima dei pii leganti. Vive sino all’11 gennaio 1902. Sul letto di morte un terrore l’assale: quelle messe lui non le ha mai celebrate ritenendo di potere fare una compensazione occulta con le pesanti spese sostenute contro Savatteri-Matrona. Si confida con l’arc. Genco: lascia cospicui legati come atto riparatore. L’arc. Genco interessa le autorità ecclesiali. Sostiene che il lascito, andando in conto spese per la riparazione della Matrice, ripara alla grave inadempienza del Matrona. Le autorità trovano un compromesso: una metà alla Matrice e l’altra per la celebrazione di messe per l’anima dei secenteschi benefattori.
Nella varie bolle pontificie e vescovili, il beneficio del Crocifisso deve essere volto al sostentamento di un coadiutore della Matrice. L’ignota origine - in effetti si trattava di terre rientranti nei beni allodiali della Noce spettanti ad un ramo cadetto dei del Carretto e dall’ultima erede di tale ramo rivenduti a donna Maria Del Carretto, dopo il 1650 - era stata bene strumentalizzata dall’arciprete Tirone per riavere dal governo le terre che nel frattempo erano state vendute a profittatori delle leggi dell’eversione garibaldina. Alla morte dell’arciprete Genco, quando sorse la controversia tra il Casuccio ed il padre Farrauto, il Crocifisso fu assegnato a quest’ultimo a ristoro del torto subito con la preferenza del vescovo per il primo nella nomina ad arciprete. P. Farrauto ebbe anche il contentino di una parrocchia creata dal nulla, tutta per lui: quella della Madonna della Rocca, il 26 giugno 1923. Trasferito alla parrocchia del Carmelo, gli fu consentito di conservare a titolo personale il beneficio. Quando diviene parroco del Carmine don Giovanni Arrigo, il Crocifisso viene da lui preteso e ne esige il mantenimento anche quando nuovo parroco del Carmine è don Alfonso Puma. La gestione delle appetibili terre della Noce avviene in modo ... arrighiano. Contadini amici vi si insediano ed oggi nessuno ha più titolo per allontanarli. Già perché alla morte di padre Arrigo, è la curia vescovile che ne rivendica la titolarità. Come gestisca quegli ingenti beni immobiliari, chi scrive è e vuole mantenersi all’oscuro.

 
 
 
 
DAL SETTECENTO AI NOSTRI GIORNI
 
IL SECOLO DEI LUMI
 
Premessa
 
Siamo giunti al Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo Castro.
Per celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?» può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato epitaffio, che attraversa come un liet-motiv, come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile. E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal «secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri, di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate nella buia stiva del disincanto.» [1]
Che tutto ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la storia del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, [2] «Il Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel novembre del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al trono spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare dominazione spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re Ferdinando di Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la Repubblica Partenopea. Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro padroni.»
A Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
-9 marzo 1710: muore Girolamo III del Carretto, sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del Carretto, e così si estingue la locale casata carrettesca;
-3 settembre 1713: Die 3 7bris 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti: l’interdetto – riflesso racalmutese della sciasciana controversia liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non potere più seppellire i propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano lo smarrimento di quel cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli implicati nella politica dovettero provare, in quello stesso periodo;
- 1715: il regio commissario generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo, in nome di S. Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e chiede il dettagliato resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e dei beni delle chiese: immaginabili il terrore e  lo sgomento dei tanti nostri preti e monaci;
-10 luglio 1716: Brigida Scittini e Galletti, vedova di Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per diritto di credito dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse in paese;
-27 agosto 1719: sospiro di sollievo: «L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.»;
-1736: Panormi die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum juramentum debitae fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis servandis concedatur investitura  .... tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis Viridis. Don Luigi Gaetani  - che doveva pur rifarsi delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale - non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le vuole tutte;
-1738:  in quest’anno, sorge una controversia feudale su Racalmuto, con tutti i crismi (e con tutti i costi). Il duca trova pretermessi anche i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto ad adire le vie legali: premette che è stato già magnanimo accontendandosi della  metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Non può pertanto tollerare che i benedettini usufruiscano di un falso esonero, fallacemente accordato dal vescovo di Agrigento, il noto Ramirez, in data 16 settembre del 1711;
-1741: il 22 giugno 1741 i benedettini risultano soccombenti, con compenso di spese, però;
-1747: la contea di Racalmuto passa alla principessa di Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
- 7.1.1754; SCIASCIA LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA di m.° Bartolomeo e Caterina olim fugati.  -  Matrimoni 1751-1763 - 67 – Nota: d. Albertus Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari, testi; furono benedetti da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci ragguagliano su questo antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del «nonno di suo nonno» che lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese, oriundo, per giunta, da Bompensieri;
- 1755: nasce a Racalmuto il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)  -
-1756: il 19 febbraio viene nominato arciprete di Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla microstoria locale come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
-1759: all’Itria viene fondata la Confraternita della Mastranza (26 luglio 1759);
-1767: l’arciprete Campanella completa la costruzione del «cappellone grande» della Matrice;
-1771: i Requesens si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. La Lanza – pur avanti negli anni - riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi dell’ormai esausta  contea di Racalmuto. Annota il San Martino de Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra, Castello e feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo favore dal Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto, contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di Racalmuto; quale sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in esecuzione degli ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv. Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143, retro).  [...] Detto P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino Requisenz e Morso e di Giuseppa del CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO;
-1776: lo stesso arciprete continua nei lavori di abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.»;
-1782: «E' noto - abbiamo già scritto - un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio.."»;
-1783: inizia la causa – intentata dal sac. Figliola presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
-1785: « Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali.  Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico;
-1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello ad affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
-1786: il sac. Figliola  « … ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»;
- 1787: D. Stefano Campanella prosegue nella controversia antifeudale intentata dal Figliola e  così  « … con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo  e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”;
-1791-92 :  forte dell’ascesa dello zio sacerdote don Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella famiglia di gabelloti,  fa il grande salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così, improvvisamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il primo tassello, quello più difficile, è tutto nel carniere di famiglia;
-1793: la vecchia. Gloriosa chiesa di S. Rosalia viene smantellata; era riuscita a resistere sino al  3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu barattata  dal can. Mantione in cambio di  un altare con statua alla Matrice;
-1796: il feudo di Gibellini viene venduto con rogito del «Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77)». Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che « s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»;
-1799: Il secolo dei lumi si chiude tristemente per Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale Comunia della Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo Ramirez – onde i preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad approvvigionarsi delle più urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del 23 febbraio 1799: «XAVERIUS  Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae Racalmuti, Salutem. Ci rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e Sindaco le gravi pressanti urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione, a segno che si teme molto della furia della Popolo perché pressato dalla fame, e dalla miseria. Onde sono in penziero di occorrere quanto si può con mutui, eccedono, e chiedono che per conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa una certa somma, che la reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti istanze, bastevole a soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in considerazione l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci sarà permesso anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad eccitare la vostra carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché concorriate per quanto si può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie. Essendovi dunque nella Cassa la indicata somma, qualora si appronta una sufficiente bastevole fideiussione di restituirla nell’imminente Agosto e riposta in Cassa, potrete apprestarla a beneficio comune per distribuirsi in mutuo secondo le intenzioni del Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis = Canonicus Trapani Cancell». [3]
 
 
-Il Settecento a Racalmuto sorge con le diatribe tra padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata più o meno dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali che schiariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in quel torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro che felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti borghesi (i Tulumello in testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i Farrauto) la sorte del contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine secolo, si verifica addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano, non si era mai registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia delle chiese per il panizzo quotidiano.
 
DOPO I DEL CARRETTO
 
Il seguito della storia dei del Carretto di Racalmuto mostra ombre ancora non del tutto dissolte. Noi disponiamo del testo di una procura rilasciata da don Luigi Gaetano per l’occorrente investitura della contea di Racalmuto; vi è riepilogata la faccenda della singolare acquisizione feudale: uno strano ed antigiuridico passaggio dai del Carretto ai Gaetano attraverso la popolaresca intermediazione di una tale Macaluso. L’evento poté verificarsi per il trambusto di quel periodo con quell’alternarsi dei Savoia e degli austriaci in Sicilia fino alla venuta dei Borboni.
E in un atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel tentativo di rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto, cadutale addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.
 
 

Brigida Schittini

 
 
Il lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano 1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32 onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di Carlo  IV [VII] di Borbone (15 maggio 1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato, riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani - pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli. Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto civile nel Settecento siciliano.
 

Paola Macaluso

 
Paola Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per conto del duca Gaetani.
 

Luigi Gaetani

 
In tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi) in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata contea.
Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Siamo nel 1738 ed una controversia lunga e defatigante.
 Trova pretermessi i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste note di cronaca.
Il duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit).  Ma ecco che i benedettini avanzano strane pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da pari loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel 1739.
 
Il 22 giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le faccende racalmutesi, comunque,  non sono davvero prospere: il bilancio è deficitario.

 

Araldica racalmutese dopo i del Carretto

 
 
Non è agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente informato). Abbiamo visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a divenire conte di Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne era ancora a conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché pose mano al volume sui del Carretto.
 
 
 
 
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«Don Gioacchino Requesens stava, tra monsignore Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del Consiglio di Sicilia.
«”E vi voglio leggere” disse ad un certo punto monsignore “una cosa che vi farà piacere… Nella vostra famiglia, se non sbaglio, avete il titolo della contea di Racalmuto…”.
«Ci viene dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio leggere” [e qui Sciascia propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana relativa alla statistica araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio 998: noi l’abbiamo sopra trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »
 
Francamente, non pensiamo che don Gioacchino Requesens avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i preti di Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci rimise i privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni  del terraggio e del terraggiolo.
 
 
 

Terraggio e terraggiolo: atto finale

 
 
 
 
Presso la Matrice, come detto, si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno 1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.
 
«Il sudetto nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38
 
Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della vicenda: l’Arciprete D. Stefano Campanella, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo nel 1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8 Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese possesso.
«Da principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di Palermo  e dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium declaratur non deberi.”
 
«Finalmente nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.
 
«Fu ancora Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»
 
 
La vicenda del terraggio e del terraggiolo è stata oggetto di nostre apposite ricerche,  che, solo di recente per  il ritrovamento di importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.
 
Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra Racalmuto.
La politica antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre 1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di sicuro un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là dell’aspetto sociale,  che ci vede dall’altra parte della barricata, siamo portati,  per amore della storia locale, a credere che il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo sbagliasse.
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo. I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi. Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.

Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)

 
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori. Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»
 
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Scrive dunque lo Sciascia [5]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.
 
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
 

Tratti salienti del Settecento racalmutese

 
Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora che si presta alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio – che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata. Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle Scale ed il duca Gaetani.
 
 
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare, in calce,  alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice. [6]
 
 
LE PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
 
Diciamolo subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per intelligenze locali che in qualche modo possano rasentare il genio: le parole del Guicciardini care a Sciascia sulla  “ricolta” di ingegni negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né grandi medici, né veri pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia – rimarchevoli eretici. Solo il bestemmiare del popolino che è poi atto di fede intensa.
Per contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto sessuofobo e sgrana tanti rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne. Il collegio di Maria era un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che vi venivano coatte perché possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare contro il vaiolo, non c’erano medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”, un barbiere, per imparare una tecnica un tantinello meno rudimentale. E m° Giuseppe Romano fu forse meglio dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla fine del secolo – 16 giugno 1795, dicono le cronache.
I preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse terrorizzati per l’incombente accesso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati, «instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa di S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si doveva vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa – ed il ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della detta ven. Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge: «li frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e – non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven. Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D. Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
 
Ancor oggi non si sa se il Santuario sia rifacimento o ampliamento o – molto più probabilmente – una nuova costruzione che venne addossata alla vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il padre Morreale è molto meticoloso ed ovviamente agiografico. [7] Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una «nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e solo attorno al 1746 l’antica chiesa sarebbe venuta «a trovarsi dentro la nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione, peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico, la chiesa del Monte: «Sorge sul poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738. Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca. Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella seconda settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che consistono nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su cavalli che, spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta al santuario. Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi scapoli. La lotta per conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni e calci da parte degli avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi afferra il drappo.»
Sciascia, che ebbe ad infilzare proprio il mansueto padre Morreale, forse perché gesuita, a proposito della ricerca storica sulla venuta della statua della Madonna del Monte, ora finge di non dargli peso per codeste ricerche testamentarie del sacerdote Pietro Signorino. Al giovane Tinebra Martorana aveva accordato il peso della sua autorevolezza e in un caso analogo, quello del testamento del sacerdote Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire il destro per sardoniche bardote  sul prete in “alumbramiento”. Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza della Chiesa del Monte, ma se ne è astenuto. E dire che piccante poteva risultare la ricerca del gesuita p. Morreale sulle propensioni a beneficiare una pinzochera da parte del pio testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel testamento – il padre Signorino – determinò alcuni legati a favore della Perpetua». Invero, la preoccupazione a beneficiare Caterina d’Alberto è pressante. «Item il sudetto testatore hà legato – si legge nel corpo delle disposizioni testamentarie – e per ragione di legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una casa, prezzo e capitale di onze 10 circa, quale vuole che se li dovesse comprare dalli ssopradetti suoi fidecommissarii» e nel codicillo, in termini ancora più chiari anche se in latino, «item dictus codicillator ligavit et ligat sorori Mariae de Alberto bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo vocata Catarina eius famulae ultra illas uncias decem in dicto eius testamento legatas tre infrascripta domus de membris et pertinentiis eius tenimenti domorum » e passando al volgare «nempe la prima entrata, la camera ed il catoio sotto detta camera della parte di occidente, seu della parte di San Gregorio» e tornando al latino «de quibus quidem  tribus corporibus domorum ipsa soror Maria, habet et habere debet solum usum exercitium». Non solo, ma «dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si devono] tumuli otto di frumento, un letto fornito, due tacche di tela sottile, il mondello, due sedie di corina, la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni arnesi di cocina.»
Almeno, quello svolazzo del codicillo, una funzione la esplica: dà materia per un eventuale museo etnografico.
 
LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
 
 
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del reverendissimo  Sig. V.G. date nella citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p. Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso un po’ troppo, quando scrive [8] «Tra i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi Crispino e Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte, restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare, a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore canonico
 
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio Capizzi  per “stucchiare e pingere” la navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa.  [9]
 
Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev. Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» [10] etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli e con una serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in Matrice). [11]
Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
 
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE DEL SETTECENTO
 
Dobbiamo al libro di padre Adamo [12] la nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al grande affresco della natività di Maria: «Antonius Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»  Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno, sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova  in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici: almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di p. Fedele da S. Biagio.[13]
Non si può, poi escludere, che taluno dei tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel secolo.
 
Non ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione prolissa  che si sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi», nel discepolo vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non  disponiamo – diversamente che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
 
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
 
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
 
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono  sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto sfilacciata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione -  sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da due compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [14]
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[15] del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220, seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto invereconda.
Dobbiamo alla penna dell’Algozini un preciso inventario  delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica”  di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654 non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò[16].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1.        la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2.        Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3.        Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4.        Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5.        Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6.        Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7.        Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8.        Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
 
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna, denominate “chiese fora le Mura”:
 
1.        Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2.        Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3.        Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4.        Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5.        Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6.        Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestici” (queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1.        Convento di S. Maria del Carmine;
2.        Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3.        Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4.        Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5.        Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6.        Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
 
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei Padri fatebenefratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1.        Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2.        Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3.        Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4.        Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5.        Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6.        Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7.        Compagnia di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda domenica di Gennaro.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti: un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:


1.        Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2.        Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3.        Sac. D. Filippo Cino;
4.        Sac. D. Francesco Pistone;
5.        Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6.        Sac. D. MichalAngelo Rao;
7.         Sac. D. Ignazio Laudito;
8.        Sac. D. Paulo Spagnolo;
9.        Sac. D. Gerlando Carlino;
10.     Sac. D. Antonino Macaluso;
11.     Sac. D. Francesco Torretta;
12.     Sac. D. Gaspare Casucci;
13.     Sac. D. Vincenzo Casucci;
14.     Sac. D. Leonardo La Matina;
15.     Sac. D. Calogero Pumo;
16.     Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17.     Sac. D. Antonino Mantione;
18.     Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19.     Sac. D. Isidoro Amella;
20.     Sac. D. Vincenzo Avararello;
21.     Sac. D. Francesco De Maria;
22.     Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23.     Sac. D. Baldassare Biondi;
24.     Sac. D. Pietro Signorino;
25.    Sac. D. Orazio Bartolotta;
26.     Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27.     Sac. D. Ignazio Pumo;
28.      Sac. D. Santo Farrauto.


 
 
Ma le vocazioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserlo nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
 La pletora dei sacerdoti era però eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci: Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
 
I francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
 
Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
 
A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano poi infondate.
 
Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccolo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo si vede da una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca” delle elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
 
Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluse, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
 
I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
 
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
 
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1.        Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi  né inimici;
2.        Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3.        Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4.        Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5.        Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
 
 
IL CLERO RACALMUTESE NEL SETTECENTO.
 
 
Parlare delle cose di chiesa non è poi cosa diversa dal palare del vivere civile in tempi – come ancora è il Settecento – ove il sacro ed il profano non ha linee di demarcazione ben distinte. Il cosiddetto spirito laico è prodotto di colture recentissime. Certo in Francia fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma noi siamo a Racalmuto e quello che di laico vi poteva essere non andava al di là di qualche espressione blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante le pene che la curia vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine del secolo, il noto canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava al Caracciolo coloro che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo Viceré, che ancora rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia sanciva richiami, più o meno convinti.
Parlare dunque di preti a Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della componente più vistosa e più intricante della classe dirigente locale. E a ben vedere anche di quella economica.
Ecco perché ci avvaliamo di una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma conserva ancora gelosamente in Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici che finirono i loro giorni nel Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis fere immerorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro quarum animarum suffragio semel in mense in feria secundae hebdomadae ad cantandam missam omnes Sac.es, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt convenire,  ut in actis Notari Panfilis Sferrazza Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro, che non si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui ha steso convinte note biografiche l’attuale arciprete, p. Puma.
Nel Settecento furono 161 gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di vivere. Per la maggior parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno solo la data di morte e l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati – note biografiche più dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro Signorino (n° 139), con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino Picone Chiodo per essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia Lauricella e divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano Campanella: le ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.
 
Altrove  forniamo una lunga sfilza di sacerdoti, ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento. Sono ricavabili n° 118 famiglie che vantano un religioso nel proprio casato; per ordine alfabetico abbiamo:


ALAIMO
ALESSI
ALFANO
ALFIERI
ALGOZINI
AMATO
AMELLA
AMICO
AMICO E MATINA
AMICO E MORREALE
ARNONE
ARRIGO
AVARELLO
BAERI
BARONE
BARTOLOTTA
BELLAVIA
BIONDI
BIUNDO
BORZELLINO
BRUTTO
BUSUITO
CACCIATORE
CAMPANELLA
CARAMELLA
CARINI
CARLINO
CARRETTI
CASTROGIOVANNI
CASUCCI
CAVALLARO
CHIODO
CIMINO
CINO
CONTI
CRINO'
CURRETTI
CURTO
DE MARIA
DI BENEDETTO
DI CARO
DI MARIA
DI NARO
FARRAUTO
FIGLIOLA
FRANCO
FUCA'
GAGLIANO
GAMBUTO
GATTUSO
GIUDICE
GRILLO
GRILLO E BRUTTO
GUADAGNINO
LA LICATA
LA LOMIA CALCERANO
LA LUMIA
LA MATINA
LA MENDOLA
LA ROSA
LAUDICO
LAURICELLA
LO BRUTTO
MACALUSO
MAIDA
MANTIA
MANTIONE
MARRANCA
MARTORANA
MATRONA
MATTINA E MARIA
MATTINA ED AGRO'
MERCANTE
MILANO
MONTAGNA
MONTICCIOLI
MORREALE
MULE'
NALBONE
PANTALONE
PERRIERA
PETRUZZELLA
PICATAGGI
PICONE
PIRRERA
PISTONE
POMO
PROVENZANO
PUMA PAGLIARELLO
PUMO
RAO
RASPINI
RENDA
RESTIVO PANTALONE
RIZZO
ROCCELLA
SALEMI
SALVO
SALVO SINTINELLA
SASSI
SAVATTERI
SAVATTERI E BRUTTO
SCIBETTA
SCIBETTA ALFANO
SCIBETTA E FRANCO
SCIBETTA E MENDOLA
SCIME'
SFERRAZZA
SIGNORINO
SPAGNOLO
SPINOLA
SURCI
TIRONE
TORRETTA
TROISI
TULUMELLO
VINCI


 
 
L’elenco del LIBER (come d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione in latino sopra riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154) Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni 41. Il 18 dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L’autore del LIBER muore il 21 agosto 1705 all’età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni (+ 28 agosto 1706) era “predicatore e Collegiale). Collegiale era pure Davide Corso (+ 3 luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni, era stato tra i primi mansionari all’atto della costituzione della communia il 13 gennaio 1690. Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S. Nicolò. Altro collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don Giambattista Baera (+ 15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre 1712) risultano entrambi “collegiali”.
Don Pietro Casucci (+ 7 dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in Matrice “ex obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo d’Acquista (+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene tumulato come il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione all’interdetto del Ramirez. D. Francesco La Mattina  era stato canonico della cattedrale. D. Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729) abbate predicatore, Vicario e collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre 1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don Fabrizio Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A quanto pare non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don Giuseppe Lo Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche collegiale, insieme con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d. Antonino d’Amico (+ 5 giugno 1732). Non solo collegiale ma anche fidecommissario della chiesa di S. Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26 dicembre 1733).
L’arciprete dr. Don Filippo Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età di 50 anni. Suo un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731. L’economo vicario d. Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don Pietro Signorino (+ 11 aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria – Fondatore della chiesa del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a sapere che d. Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S. Officio”. Muore a soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu arciprete di Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754), in quanto “fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio Bartolotta (+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva avuto un canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26 gennaio 1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27 gennaio 1757 l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche d. Vincenzo Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30 dicembre 1759) era stato commissario del S. Officio; in più “economo fidecommisso della chiesa del Monte e collegiale”. Altro commissario del S. Officio: d. Orazio Bartolotta (+ 11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il vicario foraneo dr. D. Giuseppe Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766) viene “ritrovato morto in un palmento dello Zaccanello” Aveva 19 anni. Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D. Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì ammazzato con un colpo di fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì d’apoplessia il 28 novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P. D. Giuseppe Elia Lauricella -  «Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario di Girgenti, Missionario, Predicatore e confessore di diversi monasteri e Collegi di Maria, promotore zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21 ora nelle piazze e nelle strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio, e pochi mesi pria di morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu Curato di Comitini, ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in Canicattì con pianto universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto il di lui cadavere e fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d’anni 73» P.S. Traslato al santuario di racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di 85 anni muore il detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21 novembre 1781), aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+ 16 marzo 1783). Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per l’arciprete D. Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo” D. Alberto Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a 73 anni il 24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il secolo XVIII.
 
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.
 
 
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,  don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché l’arciprete – non ancora canonico  - don  Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe Savatteri, altrettanto e non vanno neppure obliate le stilettate inferte da Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu “consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei fatti, pensiamo.
Era imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse,  è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - scrive fra l’altro il Matrona  - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium   Parochi di libera collazione da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose per coscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
 

IL CANONICO MANTIONE

 
 
Il canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’archivio vescovile di Agrigento ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene l’autorizzazione a venderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti Grillo; a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare – quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini  op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità  superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era  da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano disponibilissimi. E’ un comportamento – quello dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un  pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa)  verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una  poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta risalente, a seconda delle varie versioni,  al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al  3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una chiesa da ridurre a stalla.

Santa Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento. Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’ «aura romantica ed un tantino melodrammatica».

L’INTERDETTO

 
L’eredità arcipretale del Lo Brutto tocca a Fabrizio Signorino: su di lui cade la tegola dell’interdetto. Senza ricorrere al Mongitore, sappiamo dai libri della matrice che:
 
eodem die 2 settembre 1713 VII ind. die 3 settembre 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Si dovette affiggere la bolla episcopale di interdetto generale il 3 settembre 1713, nel giorno di Santa Rosalia: forse fu anche per questo che dopo meno di un secolo decadde a Racalmuto il culto di Santa Rosalia, prima egemone ed a carico della universitas. L’ordine è quello di approfittare della notte (hora vigesima), per aggirare e raggirare le autorità civili.
Le sepolture, dal giorno dopo, non possono farsi in chiesa, ma in un luogo a ciò “deputato” dal signor arciprete. Il primo a farne le spese è un chierico coniugato a nome Santo Bordonaro:
 
4/9/1713 - Sancto f. cl. coniug. Stefani et Ninfa   Bordonaro e mesi in loco deputato a rev.do arch.
L’esordio è duro e sembra che non si guardi in faccia a nessuno. Dopo, data la legge, trovato l’inganno: basta una bolla a pagamento di sovvenzione delle crociate per avere cristiana sepoltura in chiesa.
Certo, scatta ora il dramma della regolare somministrazione dell’estrema unzione: quest’atto ne lascia traccia:
5/9/1713 - Agostina f. di m° Stefani et Catarinae   Rizzo di anni 11; sepolta in una ex foveis deputata a rev. arch. in via s. gregorii  - gratis pro deo -  roborata ante officium interdecti.
 
La fanciulletta, undicenne, figlia di mastro Stefano e Caterina Rizzo, viene tumulata - con quale strazio, è facile intuire - nelle fosse comuni prescelte (e benedette) dall’arciprete Signorino, degradanti nella scoscese contrada di S. Gregorio (S. Grigoli). E’ povera ed il funerale è avvenuto gratis pro Deo; era stata “roborata” - confortata e temprata alla morte - secondo i sacri canoni, alcuni giorni prima, quando non era scattato l’ Officium interdecti.
Ma ora muore un notabile, un Romano: non può certo venire esposto all’inclemenza del clima e di altro:
7/9/1713 - Salvatore Romano vir Josephae Romano di anni, 43, sepolto in matrice, per privilegium bullae sanc. cruciate e pure gratis pro deo.
 
Le note dell’atto funerario svelano parecchi aspetti religiosi ma anche sociali ed economici della Racalmuto del tempo. Il Romano muore a 45 anni, ad un’età che pur supera di molto l’età media della mortalità del secolo dei lumi in quel di Racalmuto. Appartiene ad una delle più prestigiose famiglie del luogo, ma è caduto in miseria e per i suoi funerali non può corrispondere i diritti ecclesiastici dei c.d. festuarii. Supplisce la carità dei preti, che il funerale lo fanno lo stesso, gratis pro Deo. Il settecento fu a Racalmuto, come altrove in Sicilia, misero, in crisi economica profonda, con punte di grande fame per tutti. A fine secolo, i sacerdoti racalmutesi ottengono l’autorizzazione dell’Ordinario ad impegnare gli arredi sacri per approvvigionare l’Universitas di grano per la pubblica fornitura del pane quotidiano. Lo studio del Valenti (cfr. Calogero Valenti - Ricchezza e povertà in Sicilia nel secondo settecento) può estendersi anche al primo settecento e le considerazione sulla povertà di Grotte si attagliano appieno pure a Racalmuto.
Ciò nonostante il buon Romano ha sepoltura nella Matrice: aveva la bolla della santa crociata: un privilegio che scavalca il rigore dell’interdetto del Ramirez, comminato per la difesa dei beni materiali del ricco vescovo di Catania.
Desta pietà la fine di questa neonata racalmutese: muore a soli quindici giorni: una “gloria”; potrebbe trovarsi un cantuccio nelle carnaie delle chiese; ma è povera ed è illegittima: finisce - sia pure gratis pro Deo - nel nuovo pauroso cimitero all’aperto, che l’arciprete ha degnato dell’acqua benedetta:
11/9/1713 -Antonina f. Juliae Virtulino Inzione patre ignoto 15 giorni - in fovea non benedicta deputata a rev.do arch. in via s. Gregorii ob interdictum - gratis pro deo.
 
Frattanto la miseria genera violenza: mastro Stefano Savatteri viene folgorato dalla lupara all’età di 44 anni. E’ povero ed i funerali avvengono gratis pro Deo. Ma è anche mastro: appartiene alla confraternita del Tau. La sua sepoltura deve avvenire nell’oratorio della confraternita - interdetto o non interdetto:
16/9/1713 - STEFANUS MAG. VIR PAULAE SAVATTERI - 44 - IN ORATORIO TAU ET SOLUM FUIT ROBBORATUS SACRO OLIO UNCTIONIS OB MORTEM VIOLENTAM GRATIS PRO DEO.
 
Quando a morire è un “galantuomo”, l’imbarazzo del cappellano detentore dei libri della Matrice è evidente; il suo latino si ingarbuglia, comunque la sepoltura avviene in chiesa, nonostante l’interdetto:
5/10/1713 - FRANCISCUS DON VIR MARIAE PUMO - 45                                    IN ECCLESIA S. JOSEPH PER PRIVILEGIUM BULLAE SS.ME CRUCIATAE OB INTERDICTUM
 
Le annotazioni sparse qua e là nel libro dei morti contengono queste altre notizie:
a 28 agosto 1713 - l'interdetto imposto dell'ill.mo e rev.mo signor fra d. Francesco Ramirez arcivescovo e vescovo di Girgenti - con il consenso della s. sede nella chiesa cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese _fu' rimosso; e prosciolto domenica - 27 agosto 1719 ad horam 22 - dal rev.mo signor dr. don Giuseppe Pancucci ca. tes., e vic. generale apostolico con l'actorita' della s. sede per via della sac: congregatione dell'immunita' 
 
Li bro dei morti 1714-1724
a 28 agosto 1713 - l'interditto fu imposto dell'ill.mo e rev.mo signor d. Francesco Ramirenz arcivescovo e vescovo di Girgenti con il consenso della s. sede nella chiesa cattedrale di Girgenti, et in tutta la sua diocese
 
L’interdetto durò poco meno di sei anni e - forse anzi tempo - fu revocato il 27 agosto 1719, stando alle precisazioni dei libri parrocchiali.

 
 
 
 

 

 

CONCLUSIONI

 
 
Ad ispirare le precedenti dissertazioni sui punti topici della storia religiosa di Racalmuto è stato l’attuale arciprete sac. Alfonso Puma. Origini e familiari di costui hanno avuto dispiegamento in un apposito capitoletto. Qualche dato biografico va qui comunque aggiunto, ai fini di una migliore comprensione dello spirito che ha animato gli studi e la ricerca storica del lavoro che qui si licenzia.
 

Cenni biografici: Arciprete Alfonso Puma

 
Nato a Racalmuto il  21 novembre 1926, ha avuto l’ordinazione sacerdotale il 29 giugno 1950, anno santo; parroco del Carmine dal 1961 al 1966, è divenuto parroco-arciprete della Matrice di Racalmuto dal passato 1° dicembre  1966 sino ad oggi. Sin dalla tenera età aspirava al sacerdozio, e  così, finite le elementari, è entrato in Seminario nell’ottobre del 1939. I suoi studi colà sono avvenuti durante il tremendo periodo della guerra. Sono stati vissuti senza eccessiva  paura ma senza iattanza, nutrendo sempre la speranza di farcela.
Sua madre fu la prima direttrice spirituale; suo padre, un uomo sodo, calibrato, molto parco nel parlare ma saggio, diceva sempre: voi pensate a studiare, al resto penso io. Se faccio sacrifici o non ne faccio, voi non ve ne dovete preoccupare; dovete pensare solo a studiare. I suoi genitori sono stati i suoi primi ed impareggiabili amici.
In Seminario ha avuto padri spirituali di grande santità come il padre Isidoro Fiorini per il quale ha fatto da testimone nella causa della sua beatificazione, come il padre Stefano Conte, anima bella che lo ha sostenuto durante la guerra, o come mons. Jacolino, poi fatto vescovo, uomo di stampo tedesco ma molto temprato al sacrificio: questi, durante la guerra, riuscì a mantenere aperto il Seminario, unico caso: seppe provvedere al cibo quotidiano e per quei tempi era problema pressoché insolubile.
L’ apostolato di padre Puma si è svolto in un centro minerario, con problemi sociali e politici tutti particolari, diversi da quelli del circondario, eminentemente agricolo. La sua famiglia è stata colpita dal primo sequestro di persona dell’Italia del dopoguerra. Un suo cognato ha subito l’onta del sequestro nell’estate del 1946. Un sequestro fatto più per fame che per vera  cattiveria; un atto criminoso che fruttò agli artefici ben magra ricompensa. Ciò lo ha sensibilizzato nel versante dei poveri, che astretti dalla necessità si spingono verso il crimine, ed in quello della giustizia sociale. Ciò ha ingenerato in lui una repulsione profonda, sincera nei confronti della mafia. Questa, ha combattuto con vigore, anche con le armi che promanano dal suo carattere sacerdotale e dal suo ruolo di guida del paese, come arciprete. Oggi, - può affermarsi - la mafia, quella tradizionale, discendente dalla notoria Fratellanza della Favara ottocentesca, che aveva le sue propaggini in tante famiglie racalmutesi, può dirsi finita e non certo per l’opera dell’Antimafia - Dio solo sa quanto veritiere e schiette sono state talune pagine di Leonardo Sciascia! - ma per cruentissima ed efferata autoeliminazione. Purtroppo, è subentrata una microcriminalità che non viene adeguatamente fronteggiata. Melanconicamente può affermarsi che Racalmuto si consegna al terzo millennio in deteriorate condizioni morali ed in un invivibile disordine sociale.
Lungi da lui l’insidiosa tentazione di autocommemorarsi. Non può giudicarsi per il noto aforisma: nemo judex in causa propria. Né, a dire il vero, ne ha voglia. La microstoria locale dovrà di certo occuparsi della sua persona: potrà raffigurarlo nei più disparati modi, ma non potrà in alcun modo etichettarlo come ... arciprete accidioso.
Come uomo, suo motto preferito, suol essere “fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare cose belle”.
Come prete ha dovuto attraversare un deserto, è stato “comu l’ovu, ca chiù si coci, chiù duru si fa”;  non si è mai adagiato, anche se solo e solo in un deserto; ha ambito ad una fusione dello spirito pragmatico di S. Pietro e di quello speculativo, innovatore e missionario di S. Paolo. Ha difeso ad oltranza la casa del Signore. Non può vantare orpelli e questo testimonia la sua scarsa arrendevolezza verso i potenti, anche se ecclesiasticamente paludati.  Se Sciascia amava dire di sé “contraddisse e si contraddisse”;  come suo compaesano e suo contemporaneo, padre Puma ha amato la fede in Cristo e ha riposto fiducia nella Madonna (specie in quella nostra del Monte); ha avuto carità ed attaccamento a questo popolo di Dio racalmutese. Un suo antico parente volle ad epitaffio: “feci quod potui, faciant meliora potentes”. Lo vorrebbe adattato a se stesso.

Le svolte epocali della chiesa di Racalmuto.

 
L’avvento del terzo millennio recepisce una Racalmuto non più povera, non più mineraria, non più derelitta, men che meno “meschinella”, eppure piena di turbe sociali, in mano ad una microcriminalità radicata e diffusa, con una religiosità appariscente ma alquanto formalistica e satura di miasmi consumistici, di vacuità perbenistiche, di inquinamenti ritualistici.
Non è più la vecchia paura dell’oltretomba ad inquinare il credo religioso dei racalmutesi, che pur di avere un avello in chiesa erano disposti a soggiogare il  cadente “dammuso” o la minuscola “chiusa”. I rolli delle confraternite pieni di tali lasciti giacciono ormai polverosi negli scaffali della Matrice, per la delizia dei radi studiosi locali.
Oggi, l’opulenta “gentilizia” - acquistata da eredi smemorati e sacrileghi delle vetuste famiglie nobiliari del luogo - raccoglie i resti talora martoriati dalla lupara mafiosa.
Il rosario non lo canta più la voce ineffabile di un vecchio che devoto ed implacabile imponeva la risposta salmodiante alle tante vecchiette rinsecchite, mentre intirizzivano di freddo sulle panche di San Giuseppe o della Matrice.
Non sono più pensabili le processioni propiziatorie,  con il loro carico di superstiziosa sensualità repressa.  Non è più pensabile che i racalmutesi - per dirla con Sciascia - vivano del ricordo e della tradizione del miracolo della venuta di “la bedda Matri di lu Munti  e restano “compensati del terraggio e del terraggiolo, dei contributi unificati, della ingiusta mercede riscossa per estirpare sale e zolfo”. Mondo definitivamente scomparso, ammesso poi che sia mai veramente esistito.  Il dissacrante Sciascia vuole il miracolo del Monte come un arcano “succo gastrico” “ per don Girolamo del Carretto, per don Calogero Virzì che persino i velieri possedeva per vendere lo zolfo che i racalmutesi cavavano per lui, per Salvatore Accursio che ammucchia ricchezze col sale, un succo gastrico che aiuta a digerire la ricchezza, uomini lavorano come talpe e quelli fanno siesta a digerire ricchezza”. L’apologo nel 1960 veniva all’istante afferrato da colti ed incolti di Racalmuto. Ora, solo qualche attempato erudito riesce a cavarne una qualche rimembranza paesana. Sempre Sciascia accenna alla strumentalizzazione della Madonna nelle elezioni del 1948. A Racalmuto avvenne una zuffa che potrebbe assurgere ad emblema, fantasmagoria e che sicuramente rispecchia lo spirito dei tempi. Lasciamo la parola allo scrittore: «I regalpetresi [alias racalmutesi] pretesero che la consegna [dell’effige della Madonna] avvenisse alle porte del paese, ne nacque una burrasca, si invelenì di vecchi rancori, dispregiosi apprezzamenti furono gridati dall’una e dall’altra parte. La zuffa si accese, girandole di bestemmie rutilarono intorno alla celeste effige, i padri levarono alte le mani a placare la tempesta. Mai la Madonna come in quel giorno è stata bestemmiata dai cittadini di Castro e di Regalpetra. I comunisti furono primi nella mischia; si fosse votato nei giorni che la Madonna di Fatima restò a Regalpetra, un solo voto al Pc non sarebbe toccato; si votò un mese dopo, e il Pc ne ebbe un migliaio.» Il terzo millennio non annovererà racalmutesi di tal fatta. La Chiesa locale sarà ben altra. Come e con quali problemi, con quali angosce, con quali empiti, sono quesiti che saranno gli storici a venire a dipanare. Mutato il paese, mutata la società locale, mutata l’economia della zona, mutato il costume, mutata persino la struttura mafiosa e delinquenziale - la “stidda” d’oggidì non può più dirsi certo ‘omertosa’ - è anche profondamente mutata la religiosità locale e tanto in termini e con connotati che non è dato per il momento afferrare.
I mutamenti di pelle la comunità ecclesiale di Racalmuto li ha conosciuti varie volte nello scorrere dei secoli. A volo d’uccello, possiamo affermare che ciò avvenne attorno al quinto secolo, quando da chiesa latina sembra essere divenuta chiesa greca sotto l’egida del vescovo (se santo o depravato, neppure Mons. De Gregorio riesce per il momento a stabilirlo). Sotto i berberi, da cattolici pare che i racalmutesi preferissero passare all’Islam per non sottostare a tassazione d’indole religiosa (gizia o altro che sia). Insediatosi il vescovo Gerlando, a Racalmuto non seppe risorgere una comunità cristiana memorabile. I Saraceni rimasero saraceni e divennero “villani”. I loro padroni - cattolici e latini - abitavano altrove. Sotto Federico II, le orde ribelli che osarono addirittura imprigionare un vescovo (senza dubbio esoso e vessatorio) furono dirottate verso Lucera e nell’altipiano racalmutese giunse tal Federico Musca - dopo autoproclamatosi conte di Modica - con taluni coloni e sfruttando le terre lasciate incolte dai saraceni pose le basi per un casale - nel luogo un tempo fortificato dal gaito di Naro Chamut - che ebbe a chiamarsi Rachal Chamuth prima di stabilizzarsi nell’attuale toponimo di Racalmuto. Ora la fede ed il culto sono quelli di stretto rito latino. Monaci arrivano sul posto a confermare nella fede dei padri, cioè in quella una, vera, cattolica, romana. Angelo di Montecaveoso fu di certo uno di tali monaci. Unitamente all’altro sacerdote Martuzio de Sifolone può avere ‘primizie’ ed altre rendite dai fedeli racalmutesi, ma a sua volta e nel 1308 e nel 1310 viene chiamato, sempre assieme al Sifolone, a versare decime cospicue alla lontana corte papale. Alcuni studiosi locali - il p. Girolamo M. Morreale, S. J. - accennano all’episodio. Noi, in questo lavoro, non abbiamo mancato di dilungarci trattandosi dell’esordio o del battesimo della comunità ecclesiale racalmutese che si conclude con questo secolo o questo millennio.

Da dove vengono e ove vanno i fedeli racalmutesi. 

 
Sulle plaghe racalmutesi, nell’età del bronzo d’occidente, circa quattromila anni fa, un popolo che da Tucidide in poi si denomina sicano mise le sue radici. Lo contraddistingue il sentimento religioso tanto profondo da spingerlo ad opere che scavalcano l’obliterazione dei millenni per giungere sino a noi. Sono le tombe sicane che si affacciano grandiose e impressionanti dalla parete della grotta di Fra  Diego. Il culto dei morti - una costante racalmutese che diventa una mania al di là di ogni temperanza, dai tempi remoti sino ai nostri giorni - affonda le radici in quel sentimento religioso, nel senso dell’al di là che connota ed ossessiona persino l’uomo preistorico racalmutese. Certo, a quel tempo è più il terrore superstizioso della morte, che non una liberatrice fede nell’immortalità dell’anima, ad avere il sopravvento. Ma è pur aspetto nobile e qualificante di un popolo che se crede in una vita ultraterrena, crede anche nell’esistenza di Dio. In tal senso anche il popolo sicano racalmutese è stato il popolo di Dio.
Sparita quella civiltà attorno al XIII secolo a.C., saranno i sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il culto dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di pietà e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto. Così come avviene quando il territorio viene annesso dalla predace Roma ed assoggettato a decime in natura ed in denaro. Una epigrafe sul timbro apposto nell’interno del manico di una diota testimonia la tassazione romana delle terre di Racalmuto al tempo di Cicerone. Reperti archeologici di tombe attestano riti e culti religiosi.
Con Commodo, nel 180 d. C., le viscere della terra, che erano state invase da vibrioni trasformatisi in vene di zolfo,  vengono violate per l’estrazione del biondo minerale con metodi e strumenti che dopo essersi eclissati per secoli riemergono nell’ottocento e durano, tutto sommato, sino a metà di questo secolo. Reperti archeologici compresi per primo dal nostro quasi compaesano avv. Giuseppe Picone disvelano l’esistenza a quei tempi di “gàvite” con impressi timbri di singolare importanza epigrafica. In esse talora viene impressa una piccola croce. Ecco la più antica testimonianza dell’avvento del cristianesimo a Racalmuto.
L’industria mineraria solfifera dura dal II al IV secolo d.C. in quel di Racalmuto: dopo decade e scompare (salvo a risorgere nel XVIII secolo) per l’opera nefasta dei Vandali di Genserico. L’abitato si trasferisce allora a Casalvecchio. Un monticello calcareo - le Grotticelle - ben si presta alla tumulazione dei morti. Per Biagio Pace quello è un ipogeo cristiano. Il culto dei morti si ammanta ora di pietà cristiana. Solo la rapace ed incolta pirateria di improvvisati tombaroli racalmutesi degli anni ’quaranta ha impedito uno studio archeologico serio di quell’ipogeo. Nessun reperto si è comunque salvato. Di nessun dato disponiamo per una vulnerazione del buio fitto che è calato sulla vicenda religiosa locale del periodo post-romano.
Nell’atrio dell’ex convento della Clarisse - rapinato dal buon Garibaldi - si custodisce il noto sarcofago con il bassorilievo del ratto di Proserpina. Giaceva prima nel castello chiaramontano, assurto nel XVI secolo a dimora dei Del Carretto. Chi, quando e come ve lo avesse qui portato, resta un mistero. Se dovesse essere il superstite segno di una necropoli giacente sotto (o nei dintorni) del castello (per i racalmutesi: lu Cannuni), se ne dovrebbe trarre l’inferenza che ancora nel VI secolo d. C. la religione cristiana non era universalmente abbracciata in questa antica terra, e qualcuno amava farsi seppellire in sarcofagi pagani.
Dal VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La locale comunità fu di certo grecofona e quanto al rito religioso ebbe ad optare per quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco e quello latino. Le vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma con tali obnubilamenti che neppure il grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso dunque l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.
Subentrano gli arabi. I contadini berberi penetrano e si espandono nelle terre del nostro paese. Un toponimo - troppo poco - vorrebbe testimoniare che si siano raggrumati attorno alla località del Saracino: la vicinanze di abbondanti sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri, potrebbe avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva inventato per permettere che i non credenti conservassero vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la conquista normanna dell’XI secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, per chi ne voglia sapere di più gli studi di I. Peri).  Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, ove nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
I Chiaramonte si erano impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio, l’attuale fortezza,  forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio omertoso, sia pure in tema di verità storica? In questa fatica, non sono state poche le pagine dedicate a tale spinosa questione.
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un  cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici. All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”. [17]
Martino il vecchio si rende subito edotto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene dall’oscurare. Ne abbiamo trattato - come spero si ricorderà - dianzi.
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio del detto Matteo. Henri Bresc vorrebbe questo barone come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio degli Agliata. Lo storico francesce è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del  protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo, cui abbiamo già fatto riferimento. In un documento del 7 luglio 1474,  Ind. VII vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine.
 Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere, intenda.
 
In apposito capitolo, abbiamo seguito la storia (quasi sotterranea) di una Racalmuto alle prese con tanti problemi politici, religiosi ed economici. Là abbiamo puntato l’attenzione  su arcipreti, sacerdoti, religiosi e laici del nostro paese nei due secoli e più successivi alla scoperta dell’America: mentre il mondo entrava nell’era moderna, il medioevo racalmutese persisteva in istituti, atteggiamenti ed altro che appariva come un’ascia bipenne: masse di contadini scorticate a vivo; signorotti e prelati rapaci e lontani.
 
*   *   *
La vicenda della controversia liparitana, nel suo svilupparsi a Racalmuto è un’orrida vicenda: abbiamo scritto quella pagina di storia locale - religiosa e civile - con raccapriccio, disorientamento, vergogna: il distacco dello storico va a farsi benedire di fronte a siffatti disvelamenti che i cupi registri parrocchiali ti sbattono in faccia. Ogni commento saprebbe di impietosa acquiescenza e noi non ne abbiamo voglia. Per un pugno di ceci, si poteva - e si doveva - avere remora a tribolare le popolazioni contadine affamate anche con crudeltà inferte in punto di morte.
 
 
*   *   *
 
E qui si apre una voragine di altri quattro secoli di storia religiosa e civile di Racalmuto. Non è questa la sede per avventurarci in tale smisurato pelago. Lo spunto è tratto da documenti di archivio: specie quelli della Matrice, ma anche quelli degli archivi agrigentini (della Curia e dello Stato), nonché degli archivi di Roma e di Palermo. Sono provocazioni. Occorrono altre ricerche ed altre forze per cavarne un abbozzo di storia (altro che microstoria) racalmutese. Sciascia, nel presentare il libro di memorie del Tinebra, prima dichiara il testo di E. N. Messana: «voluminoso, fitto di notizie» e poi, nella chiusa, inopinatamente catoneggia: «... limitato è il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre dai libri e da manoscritti.» Ed invece, i nostri richiami  spalancano le porte a mari, oceani  di notizie. Né ci si venga a dire che sono curiosità paesane, affette da municipalismo. Tutt’altro. Si scopre che un tal m° Giovanni Sciascia (parente alla lontana dello scrittore) ebbe ad aggiudicarsi il subappalto della famigerata (ed esecrata dallo stesso Leonardo) tassa sul macinato: i manoscritti sono espliciti:  maestro Giovanni Sciascia gabelloto del macino per onze 285; e ciò nell’anno di grazia 1809-10.
 
 
*   *   *
 
All’obiettore che storcerà il naso per quel nostro ricorrente richiamo critico a Sciascia, eccepiamo che tanto ingegno ci ha molto inceppato nelle nostre ricerche storiche su Racalmuto: è stata opera defatigante far collimare il nostro sviscerato attaccamento al grande scrittore con l’opposta realtà che le carte man mano disvelavano. Se qualche volta siamo sbottati, è merito di Sciascia che nella ricerca della verità non ti consente quiete e distrazione. Se qualche altro eccepisce “de mortuis nihil nisi bonum”, ebbene Leonardo Sciascia non è, come espressione dell’intellettuale collettivo, morto: mentre vaga - ci assicura - nelle infinite lande dell’empireo, ha tuttora voglia di ricordarsi di questo pianeta; noi che in questo pianeta ancora dimoriamo, non possiamo fare a meno di ricordarci di lui - anche di scontrarci con lui - quando, alieni dal metafisicismo del Borges, non sappiamo avere “l’impressione che la nostra nascita a Racalmuto sia alquanto posteriore alla nostra  residenza qui”. L’ancestralità del nostro essere racalmutesi ci porta a volere, sopra ogni cosa, la verità storica del paese e non quella fantasmatica, come direbbe Massimo Onofri magari a spese delle derelitte casse del Comune.

Per finire, .... davvero!

 
Nel mio rapporto con il paese, posso affermare che ho sempre coltivato le tre virtù ... teologali. La speranza che il paese avesse sempre la forza di uscire dai tunnel della delinquenza, della mafia, dell’amoralità è stata e permane sempre vivida. E ciò è anche un atto di fede. Un empito di carità charitas non è mai mancato nel mio percorso culturale nel deserto dell’altipiano del sale (della sapienza ma anche dell’intelligenza corrosiva, autocompiacentesi) e dello zolfo, anche quello dello schioppo, anche quello della lupara che da secoli folgora sinistro ed improvviso nelle campagne ubertose o nei calanchi scoscesi ed ammalianti. Quello che ho narrato, l’ho narrato con amore, con la forza passionale della charitas, senza asetticismo. Non storico, dunque, ma dilettante rinvenitore dei minuscoli segreti racalmutesi dei tempi trascorsi; quei segreti di ogni giorno di quella «vita tenace e rigogliosa, abbarbicata al dolore e alla fame come erba alle rocce», per chiudere, appunto, con Sciascia.

INDICI E SOMMARIO
 
 
 
 



[Dizionario topografico della Sicilia; 120
‘tenace concetto’; 103
Abate; 70
Acquisto; 87
ad Oliverio RAFFA; 17
adversus Reverendos Sacerdotes; 154
Afflitto
Carlo; 64
agostiniani; 106; 115; 118; 120
Agrigento; 11; 15; 16; 17; 19; 21; 22; 23; 33; 35; 40; 58; 59; 61; 70; 71; 79; 202
Alaimo; 10; 30; 69; 75; 90; 102; 127; 128; 129; 138
fra Sebastiano; 30
ALAIMO; 28
Aldonza del Carretto; 100; 137; 153
Alfano; 128; 135
Algozzini
arc.; 83
Algumento; 62
alla chiesa del Monte; 21
Amari; 70
Amato; 37
fra Antonino; 37
Amella; 128; 135
Amico; 120; 142; 154
Andrea d’Argomento; 23
Angelo de Montecaveoso; 24
Angelo di Montecaveoso; 8; 9; 24
Annunziata; 21
Antimafia; 209
Antinoro
fra Giuseppe; 36
Antonio del Carretto; 14; 74
Antonio Veneziano; 94; 119
Aragona; 96
ARCHIVIO STORICO SICILIANO; 71
Archivio Vaticano Segreto; 23; 61; 62
arciprete; 8; 15; 23; 24; 36; 38; 39; 40; 59; 60; 61; 62; 65; 69; 83; 94; 97; 98; 101; 109; 110; 114; 123; 124; 128; 130; 133; 137; 138; 139; 140; 141; 153; 157; 158; 203; 204; 208; 209; 210; 217
arcipreti; 62
Argisto Giuffredi; 119
Asaro; 66; 70
Averna; 23; 39; 43
AVERNA
Arciprete don Gerlando; 38
AVS - Reg. Av. 162; 9
Barberi; 16; 26; 44; 45; 46; 84; 128; 129; 218
Giovan Luca; 218
BARONE; 81
baroni di Racalmuto; 87
Barresi; 85; 86
beneficio del Crocifisso; 38; 202
Bertrando du Mazel; 9
bolla; 23; 38; 78; 79; 200; 202
Bona; 24
BONGIORNO; 13
Bonincontro; 30; 32; 64; 124; 125; 126; 129
Bonsignura; 66
Borboni; 106
Bovo seu Montagna; 154
Burruano; 10
Burzellina; 66
BUSCEMI; 13
Busuito; 200
Cammalleri; 66
Cammarata; 97; 134; 137; 138
Canicattì; 13
Cannuni; 214
canonicato di Agrigento; 16
canonicato di Santa Margherita; 15
canonici; 97; 104; 124; 215
Capibrevi; 84
Capobianco; 87; 128
Capoccio; 23; 60; 61; 62
arciprete; 97; 98; 99; 100; 101
cappellano; 15; 24; 89; 91; 99; 132; 137; 139; 152; 206; 217
Caracciolo; 106; 118
Carchiola; 66
Carlino; 13
Carlo d’Angiò; 10
carmelitani racalmutesi del secolo XVI; 32
Carmine; 94; 129; 158; 208
Carretto; 14; 15; 16; 19; 24; 25; 26; 27; 29; 31; 33; 40; 41; 42; 43; 44; 46; 58; 65; 74; 78; 79; 85; 86; 87; 88; 92; 94; 95; 96; 97; 100; 103; 108; 110; 113; 114; 115; 116; 117; 118; 119; 120; 121; 126; 128; 129; 130; 131; 132; 133; 135; 137; 139; 140; 153; 154; 155; 157; 158; 201; 211; 214; 216; 217; 218
Girolamo; 211
Casal Vecchio; 70
Casalvecchio; 214
Cascini; 65; 69; 70; 72; 73; 74; 75; 82; 83; 203
Giordano; 73
Castronovo; 20; 65; 66; 72
Casuccio; 24; 35; 66
fra Angelo; 35
Casuchia; 87; 128; 129
Cavallaro; 64; 67; 202
Chamut; 212
Chiaramonte; 10; 14; 15; 16; 27; 74; 216
Chiarenza; 66; 82
CHIAZZA; 13
Chiesa della \“NUNTIATA; 64
Chiesa di S. Giuliano; 64
chiesa di S. Margherita; 12; 83
chiesa di S. Maria; 8; 12; 23; 76; 78
chiesa di San Leonardo lo vecchio; 64; 67
Chiesa di Santa Maria del Monte; 63
Chiesa di santa Maria di Gesù; 63
Chiesa di Santa Maria di lo Munti; 64
Chiesa di Santa Rosalia; 64; 65; 66; 67; 68; 72
CHIESA DI SANTA ROSALIA; 67
Chiesa Maggiore; 63
Cicerone; 213
Cicio
dott. Giuseppe arciprete; 137
Clarisse; 214
Collegio di Maria; 69
Collura
Paolo; 9
COLLURA; 11
Commodo; 213
confraternita; 34; 67; 72; 78; 185
confraternite; 87; 88; 89; 90; 91; 95; 96; 210
Conte
Stefano Conte; 121; 130; 135; 209
Convento del Carmine; 31; 33
convento di S. Francesco; 26
Convento di S. Francesco; 26
convento di S. Giuliano; 102; 106
Costanza; 216
Costanza Chiaramonte; 14
Covarruvias; 59; 61; 62
Crocifisso; 38; 200; 202
Cuddura; 66
Cullura; 66
Curto; 44; 45; 46; 64; 65; 67; 68
d’Afflitto; 64; 67
D’AMELLA; 13
d’Argomento; 123
Andrea; 123
d’Asaro; 102; 129; 130; 131; 135; 138
D’Averna; 39; 40
Damiano; 88; 93; 96
DE FINO; 217
Gerardo; 217
de Grachio; 87
De Gregorio; 97; 212; 214
Mons. Domenico; 212; 214
Del Carretto
Giovanni; 85; 86; 87; 88; 92; 93; 94; 95; 96; 97; 110; 113; 114; 117; 120; 121; 129; 130; 131; 132; 133; 135; 139; 140; 153; 154; 155; 157; 158; 214; 216; 217; 218
Del Carretto; 218
Di Benedetto; 65
Di Giovanni; 85; 86; 92; 108
Vincenzo; 85
Di Liberto; 37
fra Pasquale; 37
di S. Margherita Belice; 9; 12
di S. Maria di Gesù; 8; 34
Di Vita; 115
Diego La Matina; 20; 102; 105; 107
diocesi di Agrigento; 15
don Calogerum Cavallaro; 154; 155
don Fabritium Signorino; 154
don Franciscum de Agrò; 154; 155
don Joannem Battistam Baera; 154
don Joseph Casucci; 154
don Michaelem Angelum Rao; 154
don Petrum Casucci; 154
don Sanctum de Acquista; 154
Doria; 136; 216
Brancaleone; 216
Matteo; 217
duca d'Alba; 119
duca di Montblanc; 216; 217
ebrei; 11; 16; 19
Ecclesiola; 63
Enrico; 86
Ercole Del Carretto; 85; 95; 218
EUGENIO NAPOLEONE MESSANA; 11
Evodio; 116; 120
Falletta; 23; 66
Paolino sac.; 23
Fanara; 24; 26; 31; 32; 33; 36; 87; 90; 123
fra Paolo; 32
padre Paolo carmelitano; 31
Farrauto; 13; 66; 202
Favara; 113; 209
Fazello; 216
Federico Chiaramonte; 216
Federico II; 8; 212; 215
Filippini; 153
Fiorini
Isidoro Fiorini; 209
Fontana; 21; 63; 67; 68; 71
Fra  Diego; 213
Francesco de Bona; 87
Franciscus Sferrazza; 35
Fratellanza; 209
Gagini; 218
Gaitano; 29; 30
padre Cola Andrea; 29
gaito; 212
Galletti; 23
Garamoli; 58
Garibaldi; 214
GARUFI; 12
Genco
arciprete; 65; 69; 72; 74; 82
Genova; 14; 15
Gerardo de Fino; 24; 84
GERARDO DE FINO; 15
Gerlando; 212
Gerlando d’Averna; 23; 38; 40; 41
Giacchetto; 86
Giancani; 65
Giglia; 66
Gilberto; 11
Giovanni Del Carretto; 88; 218
Giovanni Sciascia; 220
mastro gabelloto; 220
Giovanni V; 94; 103; 119; 121; 135; 137; 139; 153
Girgenti; 10; 14; 17; 40; 45; 61; 72; 102; 129; 140; 142; 200; 201
Girolamo II; 94; 114; 115; 118; 119; 130; 131; 135; 137
Girolamo III; 110; 119; 121; 135; 140; 153; 154; 155
Girolamo IV; 119
giudei; 17
Giudeo; 16
governatore; 91; 94
Graci; 24
Gregorio Blundo; 64; 67
Grillo; 80; 81; 82; 83; 164; 203
don Antonino; 82
don Girolamo; 82
rev. don Salvadore; 82
GRILLO; 81
Grotte; 11; 73; 74
Grotticelle; 24
Guarino; 11
Gueli; 66
Gulpi; 44; 45; 46; 87; 155
Hammud; 10; 12
Horoczo y Covarruvias; 61
Horozco; 59; 60; 61; 87; 94; 97; 98; 99; 100; 101; 104; 110
inquisitore; 105; 119; 120; 121
ipogeo cristiano; 24
Islam; 212
Jacobo Damiano; 88; 93; 96
Jacobo Vella; 87
Jacolino; 209
Jo:Vito D’Amella; 14
La Cannita; 119
La Gnignia; 66
La Lattuca; 30; 66
la Legazia Apostolica; 15
La Licata; 10; 24; 25; 28; 36; 43; 66; 87; 89; 155
Francesco; 14; 63; 65
Leonardo; 24; 25; 28
LA LOMIA; 13
La Matina; 20; 36; 102; 103; 105; 107; 154
La Nuza; 106
Lagumina; 17
Bartolomeo; 17
Lanuza, gesuita; 106
Laudicu; 66
Lauricella; 22; 66
Lautrec; 85; 86
Legazia Apostolica; 142; 217
Leonardo Sciascia; 20; 63
Liuni; 18
Lo Brutto; 44; 45; 46; 65; 66; 68; 110; 128; 129; 141; 153; 155; 156; 185; 200; 202; 204
arciprete; 153
Lo Sardo; 66
Lombardo; 72
Lop Ximen Durrea; 17; 18
Macaluso; 10; 44; 45; 46; 68
Madonna del Monte; 20; 21; 91; 218
MADONNA DEL MONTE; 20
Madonna di Fatima; 211
Malaterra; 215
Malconvenant; 8; 11; 12; 83
Manfredi Chiaramonte; 10; 16; 216
Manglono; 217
Tommaso; 217
Mantione; 65; 82; 83; 164; 203
canonico; 82; 203
Marco Antonio Alaimo; 102; 138
Martino; 93; 216; 217
MARTORANA; 10; 11
Martuzio de Sifolono; 23
MARTUZIO DE SILOFONO; 12
Matera; 8
Matranga; 103; 105; 107
Matrice; 20; 21; 23; 34; 35; 38; 39; 40; 61; 62; 65; 68; 75; 76; 78; 81; 82; 83; 91; 97; 102; 103; 106; 108; 109; 121; 133; 137; 138; 139; 140; 141; 142; 143; 156; 157; 158; 164; 185; 206; 208; 210; 211; 219
Matrona; 13; 39; 200; 202
Matteo; 95; 216; 217
Del Carretto; 217
Matteo del Carretto; 14; 15; 16; 24
MAZEL; 9
Menta; 201
mero e misto impero; 87
Messana; 7; 13; 20; 70; 71; 78; 79; 87; 88; 106; 157; 202; 220
Messina; 24
Michele Romano; 23; 39; 40; 43; 59
Modica; 212
Molinaro; 137
monaci e parrini; 91
Monte; 87; 90; 91; 153; 210; 211; 218
Montecaveoso
Angelo; 212
Montescaglioso; 8
Montiliuni; 14
Morreale; 20; 21; 28; 29; 44; 45; 46; 65; 68; 69; 70; 73; 74; 75; 82; 83; 201; 203
Antonella; 28
Girolamo gesuita; 20
Morreali; 87; 128; 129
Morte dell’Inquisitore; 93; 103; 105; 107; 115; 116
Mulè; 24
Mulè alias Paruzzo; 154
Mule’; 65
Murriali; 43; 65; 66
Musca; 212; 215
Federico; 212
Mussomeli; 133; 155
Nalbone; 14; 15; 28; 60; 82; 87; 93; 100; 106; 108; 115; 116; 132; 133; 153; 154
Giuseppe; 28
Napoli; 24; 61; 75
Naro; 86; 129; 139; 212
Neglia; 87
Nicastro; 14
Nicola de Galloctis; 23
Nicolò Salvo; 20
Nobili; 66; 68; 87
Normanni; 15; 24; 63; 70; 215
Noto; 8; 59
Nunziata; 89; 123
Olivero Raffa; 18
Pace; 24; 214
Biagio; 214
padre Bonaventura Caroselli; 20
Paolo del Carretto; 25
Paramo; 119
parocchia della Nuntiata; 65
parrocchia di S. Giuliano; 67
Paternò; 15; 24; 217
Peri
Illuminato; 215
PERI I; 9
Petruzzella
don Salvatore; 140
Piamontesi; 87
Piamontisi; 10; 68
Jacomo; 10
PIAMONTISI; 13
Picataggi; 13
PICONE; 11
Picuni; 66
Pietro; 85; 86; 90; 96; 102; 109; 128; 129; 130; 133; 135; 138; 139; 142; 210; 215; 216
re; 215
Pietro d’Aragona; 10
Pirri; 7; 8; 16; 67; 69; 71; 72; 79; 83; 92; 98; 134; 203; 215
PIRRI; 8; 11; 66
Pirro; 120
Pistuna; 66
presbitero Franesco La Licata; 87
Prizzi; 24
Promontorio; 87
Provenzano; 26
Puma
Alfonso Puma; 87; 154; 158; 208
PUMA; 1
Racalmuto; 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 19; 20; 21; 22; 23; 24; 25; 26; 27; 30; 31; 32; 34; 36; 38; 39; 40; 41; 42; 43; 44; 45; 46; 47; 48; 51; 53; 54; 55; 57; 58; 59; 60; 61; 62; 63; 64; 65; 67; 68; 69; 70; 71; 72; 74; 75; 76; 78; 82; 84; 85; 86; 87; 88; 89; 90; 91; 92; 93; 94; 95; 96; 97; 98; 100; 101; 103; 104; 105; 106; 107; 108; 110; 113; 114; 115; 116; 118; 120; 121; 122; 123; 124; 125; 126; 129; 130; 132; 133; 134; 135; 136; 137; 138; 139; 140; 141; 153; 154; 155; 156; 200; 202; 203; 204; 205; 208; 209; 210; 211; 212; 213; 214; 215; 216; 217; 218; 219; 220
RACALMUTO; 9; 14; 15; 16; 23; 26; 41; 68
RACALMUTU; 110
Racel; 215
Rachal Chamuth; 212
Raffo; 49
Ramirez; 110; 112; 142; 206
Randazza; 66
Raneri; 18
ratto di Proserpina; 214
Reale Cancelleria; 24
Regalpetra; 91; 92; 116; 117; 120; 211
Rettore; 200
Riccio; 34
fra Salvatore; 34
fra Zaccaria; 34
riformati di S. Agostino; 103
Ristiva; 66
Rizzo; 34; 68; 87; 129; 155; 205
RIZZO; 13
Romano; 23; 36; 39; 40; 43; 58; 59; 60; 97; 112; 205; 206
Rosalia; 21; 22; 63; 64; 65; 66; 67; 68; 69; 71; 72; 73; 74; 75; 76; 77; 78; 79; 80; 81; 82; 83; 164; 203
ROSALIA; 63; 66; 67; 72; 81; 83; 204
S. Agata; 71
S. Antonio; 38; 40; 63
S. Benedetto; 26; 71
S. Chiara; 26
S. Giovanni Gemini; 24
S. Margaritella; 15; 16
S. Maria di Gadera; 5; 8
S. Michele Arcangelo; 153
S. ROSALIA; 63; 72; 83; 204
S.Anna; 153
S.Erasmo; 103
SACERDOTI; 23
Sadia  di  Palermo
giudeo; 17
Sadia di Palermo; 18; 95; 218
SALAMUNI; 11
Salvo; 20; 28; 29; 30; 68
fra Ludovico; 30
SALVO; 28
Sammaritano; 139
arciprete; 139
San Giuliano; 64
Sant’Uffizio; 93; 96; 98; 99; 102; 104; 105; 106
Santa Chiara; 94; 137
Santa Margherita; 15; 24; 63; 64; 84; 130; 215; 217
Santa Maria di Gesù; 64; 90; 129; 215
chiesa; 215
Santa Rosana; 65
Santo d’Agrò; 102; 137; 138
saraceni; 8; 11; 12; 13; 15
Saraceni; 212
Saracino; 155; 215
SAVATERI; 13
SAVATTERI; 13
SCATURRO; 12
SCHILLACI; 13
Sciascia; 20; 63
Leonardo Sciascia; 88; 91; 92; 93; 94; 95; 96; 102; 103; 104; 105; 107; 109; 110; 114; 116; 117; 118; 120; 121; 123; 130; 132; 137; 142; 209; 210; 211; 218; 220; 221
Sferrazza; 23; 35; 36
Falciotta o Fasciotta don Francesco; 35
fra Francesco; 35
SFERRAZZA; 32
sicano; 213
Sicilia Sacra; 120
Siculiana; 217
Sifolone
Martuzio; 212
Spalletta; 37
SS. Sacramento; 70; 185
Surci; 65
Tagliavia; 8; 23; 26
Tagliavia de Aragona; 96
Taibi; 10; 66; 87
Taverna; 39; 87; 93; 97; 100; 115
Terra di Racalmuto; 14
THOSSINIANO; 27
Tinebra Martorana; 20; 92; 93; 116; 117; 120; 121; 130; 131; 137; 138
TINEBRA MARTORANA; 11
TINEBRA-MARTORANA; 10
Tirone; 107; 157; 158
tombe sicane; 213
Tommaso de Manglono; 15; 24
Tommaso Sciarrabba; 23
Traina; 134; 135; 137; 138; 139; 140
Tucidide; 213
Tudisco; 87
Tulumello; 13; 69; 75; 82
UGO; 13
Unione; 91
Circolo; 91
Universitas; 135; 215
Vaccari; 87; 89; 90
Valenti; 155; 205
Calogero; 205
vescovo di Agrigento; 87; 95; 96; 99
villanaggio; 215
Vinci; 20
Francesco; 20
Zanghi; 124
zolfo; 91; 211; 213; 221


 


SOMMARIO

 

 

PRIMA DELLA STORIA.................................................................................. 2

LE PROBABILI ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO....................... 3

GLI ESORDI STORICI................................................................................... 8

IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO......................... 14

GLI EBREI  A RACALMUTO........................................................................ 16

IL SECOLO DELLA MADONNA DEL MONTE............................................ 20

SACERDOTI DI RACALMUTO DEL XVI SECOLO....................................... 23

Premessa.......................................................................................................... 23

I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500...................................................... 26

CENNI INTRODUTTIVI................................................................................. 26

Convento di S. Francesco................................................................................... 26

Francescani conventuali nel 1593.................................................................... 28

Il guardiano padre Cola Andrea Gaitano......................................................... 29

Fra Ludovico de Salvo..................................................................................... 30

Fra Sebastiano d’Alaimo................................................................................. 30

Il Convento del Carmine.................................................................................. 31

I carmelitani racalmutesi del secolo XVI.......................................................... 32

Fra Paolo Fanara............................................................................................. 32

Fra Salvatore Riccio di Racalmuto................................................................ 34

Fra Zaccaria Riccio.......................................................................................... 34

Fra Angelo Casuccio........................................................................................ 35

Fra Francesco Sferrazza................................................................................... 35

Fra Giuseppe d’Antinoro................................................................................. 36

Due religiosi di fine secolo:.............................................................................. 37

fra Antonino Amato;..................................................................................... 37

fra Pasquale Di Liberto................................................................................. 37

L’arciprete don  Gerlando d’AVERNA.............................................................. 38

Il nobile Girolamo Russo, marito della figlia spuria di Giovanni del Carretto. 40

L’arciprete don Michele ROMANO.................................................................... 43

Capoccio arciprete di Racalmuto........................................................................ 60

ANTICHE CHIESE............................................................................................ 63

CULTO DI S. ROSALIA................................................................................. 63

CHIESA DI SANTA ROSALIA...................................................................... 67

LA NOVELLA CHIESA DI S. ROSALIA....................................................... 72

La vecchia chiesa di S. Margherita................................................................... 83

ARCIPRETI, SACERDOTI, RELIGIOSI E LAICI IN OLTRE DUE SECOLI DI STORIA RACALMUTESE - 1500-1731.......................................................................... 85

Dopo la venuta della Madonna del Monte....................................................... 85

Il Seicento Racalmutese.................................................................................. 113

Brigida Schittini............................................................................................. 166

Paola Macaluso.............................................................................................. 167

Luigi Gaetani.................................................................................................. 167

Araldica racalmutese dopo i del Carretto....................................................... 168

Terraggio e terraggiolo: atto finale.............................................................. 169

Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802).............................................. 172

Tratti salienti del Settecento racalmutese.......................................................... 174

IL CANONICO MANTIONE........................................................................... 203

L’INTERDETTO.............................................................................................. 204

CONCLUSIONI............................................................................................... 208

Cenni biografici: Arciprete Alfonso Puma........................................................ 208

Le svolte epocali della chiesa di Racalmuto................................................... 210

Da dove vengono e ove vanno i fedeli racalmutesi......................................... 213

Per finire, .... davvero!...................................................................................... 221

 

 



[1] ) AA.VV., Leonardo Sciascia ed il Settecento in Sicilia, Caltanissetta 1998, p. 5.
[2] ) ibidem, p. 9.
[3] ) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRO 1798.99 (PAG. 304-305)
 
 
[4] ) Leonardo Sciascia, Il consiglio d’Egitto, Adelphi, Milano 1989, pp. 64-66
[5] ) Leonardo SCIASCIA, Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 21.
[6] )
1713 (Morti dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
 
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
 
 
Battesimi 1711-1716 - pag. 450.
 
Ad perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero D.re D. Frabritio Signorino 1713.
 
 
[7] ) Girolamo M. Morreale, S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto – Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
[8] ) Girolamo M. Morreale, S.J.  Maria SS. del Monte …, op. cit., p. 67.
[9] ) A riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della “fabrica”:
A Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d.  -/ 8;
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di Girgenti onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze 29. et sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere la nave della matrice chiesa di questa terra come il  tutto si vede all'atti di notar Michelangelo Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d.  --- -/  8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17. 9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662 Ad Antonio Capizzi onze tre quali si ci pagano a complimento di onze vinticinque et in conto d'onze vintinovi si li devono per conto della fabrica della matrice come per mandato et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d. appare;
10.2.1662 Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
[10] ) Leonardo Sciascia, Prolusione a Pietro d’Asaro .., cit. p. 20.
[11] )
708
CAPIZZI
ANTONINO
 
C.
4
6
10
MASTRO
 
 
GERLANDA
M.
C.
 
 
 
 
 
 
GASPARU
 
 
 
 
 
 
 
 
PASQUA
 
 
 
 
 
 
 
 
BARTOLA
 
 
 
 
 
 
 
 
BARTOLOMEO
 
 
 
 
 
 
 
 
GIUSEPPE
 
 
 
 
 
 
 
 
ROSALIA
 
 
 
 
 
 
 
 
NARDA
 
 
 
 
 
 
 
 
CATARINA
 
 
 
 
 
 
 
 
VENA
 
C.
 
1
1
FAMULA DI D.O DI CAPIZZI
 
[12] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi, Palermo 1988, pp. 163; 171 e riproduzione policroma dopo p. 192.
[13] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[14] ) ) Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 304-305.
[15] ) Calogero Valenti, Grotte – origini e vocende storiche, Grotte 1996, pp. 199-210.
[16]) Tra le carte della Matrice è però custodito un documento che comprova la rendita della Cappella della Maddalena, risalente appunto a don Santo d’Agro, che si continua a percepire ancora nel Settecento e nell’ Ottocento.
 
[17])  Solo lo studio e l’analisi del diploma del 1400 dell’Archivio di Stato di Palermo, relativo ai Del Carretto consente di far una qualche luce sulle vicende del feudo racalmutese nel XIII secolo. Cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181.)

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