domenica 1 novembre 2015

girolamo ii del carretto e beatrice dei principi di ventimiglia


Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.

L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:

Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.

Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.

Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne   (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).

L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo



Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.

Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.
In una memoria del 1738 [1], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.

Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).

Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.


La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..

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