sabato 21 novembre 2015

la trasuta di li Miricani


La trasuta di li miricani

Mini storia racalmutese

 

 

di CALOGERO TAVERNA

APPARECCHIU MIRICANU ....
di Nicolò Falci

 

APPARECCHIU MIRICANU ...
(“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”
Passanu ‘n cìalu tanti aeroplani
e ‘n testa a mia pinzera luntani
(su comu granci ca vannu ‘nnarrìari)
e mi riviju carusu arrìari.
La guerra aviva finutu d’allura.
A lu paisi la vita era dura
e ni li gruìcchi ancora guzzìava
l’ecu di bumma ca ‘n terra scuppiava.
L’allavancavanu li miricani
-ca chini avivanu l’aeroplani-
p’arrigalari la dimucrazìa
a la Sicilia, a l’Italia mìa.
Ma tutti sannu ca a li carusi
-pi fari un juacu cu antri vavusi-
ogni occasioni ci duna lu spuntu,
comu la cosa ca ora vi cuntu.
Si n’apparecchiu passava, vulannu,
li picciliddri, currìann’e ridìannu,
‘n coru cantavanu na filastrocca ...
... ... ma chiddru già era junt’a Milocca!
(((“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”))).
Passa lu tìampu ma li miricani
bumm’arrigalan’a cu voli pani,
dimucrazìa pinsannu di dari
a cu cujetu vulissi arristari.
Spirassi, allura, ca ddri picciliddri,
ca hannu pi tettu sulu li stiddri,
uguali a nantri putissiru fari
e ddra canzuna assìami cantari:
ca ddr’apparecchi ca volanu gantu
ad iddri ‘un portanu lacrimi e chiantu:
eranu fansi, ma ora su mansi!
Genti trasportanu ni li so’ panzi,
genti pacifica ca viaggia in paci
e pò firriari unn’è ca cci piaci.
Chista è la spranza ca tutti avìammu,
ed è cosa fatta si lu vulìammu.

 

 

 

 

Calen di maggio; maggio mese dei fiori; maggio mese del mio compleanno. Siamo nel maggio del 1943. Il 10 di quel mese compio nove anni; frequento la terza elementare e pare che sia bravo a scuola: il primo della classe, dicono.

Mio  cugino, Giacomo Saccomando, non brilla molto a scuola, ma è davvero bravo con la "fileccia". Calpisce le colombe anche lassù nelle feritoie di "LU CANNUNI". Svelto coi pugni, si fa rispettare da quelli che vengono su  LU CHIANU CASTIEDDU da SANTA NICOLA o da LA FUNTANA.

Io dovrei essere un funtanaru, ma sto con mia nonna in una sorta di catoio DARRIERI SAN GNISEPPI, sopra la discesa di San Francesco. Mio cugino sta nelle CAMMARI di SUSU; il padre è militare in Grecia. Pur anzianotto è dovuto partire per soldato per il fatto che si era dovuto arruolare nella Milizia dopo un alterco con un milite protetto da Carminu Burruano. Credo che allora mi invidiasse avendo io oltre che la madre anche il padre a casa. Da fanciullo mio cugino era piuttosto manesco e forse cattivo: con gli animali era piuttosto crudelle. Io ero fragilino, tanto pio e volevo farmi parrino. A giocare al dottore con le bambine non andavo: mon sapevo neppure cosa facessero. Ed Angila la figlia di Rita mi ebbe per superbo e ce l'ebbe con me persino a tardissima età. Era bruttarella, oltretutto, e semmaio io arrossivo ed abbassavo gli occhi per una biondina di San Giuliano. A vederla dopo, piccoletta e rachitella, ebbi a dubitare delle mie capacità discernitrici.

In quel maggio, con mia nonna e con la sorella di mia nonna - la zza Turiddruzza, spirlongona rispetto alla sorella, ma con lo stesso jppuni, egualmente e totalmente in nero, meno il candido fazzoletto in testa - andai alla Curma a mettere la ticchiara a li ficara. Poi io, mia nonna e sua sorella, ci inerpicammo per lu Castidduzzu ove la zza Turiddruzza aveva una robba bella grande in una proprietà vasta e ben alberata. Anche là mettemmo la ticchiara.

Laggiù, a Porto Empedocle sparavano i cannoni in risposta alle cannonate delle navi americane, ma non ce ne curavamo. Eravamo abbastanza lontani e non era sera: allora sì che era uno spettacolo sembrava uno caleidoscopico castieddu fuocu.

 

Mia nonna e sua sorella avevano i figli emigrati in America: a Buffalo la prima; a New York la zza Turiddruzza. Entrambe prima dello scoppio della guerra erano state fornite abbondantemente di zucchero e caffé. Mia nonna teneva sopra lu cantaranu una fila di burnie piene di quel ben di Dio, che era merce preziosa ora durante il conflitto. Mio cugino, scendeva spesso di soppiatto e salendo su una siggiteddra, che mia nonna non alta di statura prediligeva, riusciva a scoperchiare la burnia dello zucchhero e trangugiare pugni pieni di quella prelibatezza. A me sembrava che commettesse peccato mortale ed ero convinto che non si confessasse neppure anche se si faceva la comunione. La prima comunione ce l'eravamo fatta insieme tre anni prima. Io avevo un completo di giacca e pantaloni lunghi che bianchi com'erano mi facevano apparire come un buffo angioletto: con libricino bianco in mano frammezzato da una coroncina pur essa bianca - mio padre ne faceva commercio - mi fecero la fotografia appoggiato ad una colonnetta piuttosto alta con sopra un vaso di fiori finti. La posseggo ancora.

In quel maggio lì, in Africa era avvenuto quello che è avvenuto; per l'Italia la guerra era ormai irrimediabilmente persa. Toccava a noi subire l'urto della strabocchevole potenza alleata; all'America, all'amica America, alla terra promessa di tanti emigranti, a tanti nostri compesani là emigrati, ai loro figli il compito di conquistarci. Fu liberazione? fu aggressione? Dopo le aspre polemiche dell'immediato dopoguerra, ecco riproporsi il quesito: non credo che la parola sia davvero passata agli storici, alla ricerca obiettiva, anche se la querelle attuale mi sa troppo di pruriti eruditi, di voglia di contraddire, di correggere, di sapere, di potere essere più intelligenti. L'America ci è amica, la Germania ci protegge, i fascisti sono patetici ed innocui nostri consanguinei, la Sicilia non ebbe guerre partigiane (e se ciò è un male per la crescita culturale, è un bene per il relativismo che bisogna avere nelle militanze politiche).

Sfogliando una raccolta ben rilegata di un settimanale dell'epoca IL MATTINO ILLUSTRATO che il suocero di mio fratello teneva ben custodito, mi soffermo sull'ultimo numero della Sicilia fascista, l'anno XXI (ovverossia il 1943), mese di maggio.


 

 

 

 

Mi colpisce l'assenza assoluta di immagini di Mussolini; ma quel periodico mai mostra Mussolini; forse era questione di censura di guerra. Sembra ormai che la guerra non ci sia più. Almeno per la Sicilia. Sono amori ancellari che hanno spazio; voli aerei dell'epoca, romantici, vagamente sensuali. Sono le cene dei ricchi che affiorano, in tempi credo (e ricordo) di grandi privazioni. Vestigia dell'ancora imperante regime un VOI al posto del Lei ed un periodare caro a Starace.

 

 

 Dopo l'ultimo numero di maggio 1943, il periodico non arriva più a Racalmuto, nella casa dei solerti benestanti della famiglia Palermo.

Neppure le innocue rievocazioni storiche di un papa pur discutibile per il fascismo come PIO XI ci saranno più. Sparisce il settimale con l'ultima pagina disegnata con scene soprattuttutto irridenti all'America.


 


 

 

 

 

 A giugno sostenni gli esami di terza elementare; terrorre di fanciullo il mio; soddisfazione paterna per il brillante risultato, il primo invero di tant'altri che hanno costellato la mia vita e che hanno riempito di orgoglio mio padre, che non lo celava al Mutuo Soccorso incassandone malcelate invidie. Io mi irritavo tanto; ma pover'uomo non faceva nulla di male. Ovunque tu sia, padre mio, questo tuo figlio, ora più che  ottantenne, ti ricorda con molto melanconico affetto e ti vuol bene come se tu fossi ancora fra noi.

Ombre fluttuanti, ai miei occhi appariste .... eccovi ancora.

 

Spolvero un vecchio testo di “cronaca”. Eugenio Napoleone Messana ecco come rammenta, riferisce, corregge, riempie di valenze politiche questo scorcio di storia locale.

“Il 1943 fu l’anno più duro.  … Gli allarmi cominciarono a susseguirsi. Mentre prima, sia di notte che di giorno, quando le campane a morto annunziavano l’allarme di rimanere a casa, limitandosi a vestirsi se a letto e a riempir d’acquale bacinelle per intinguervi le lenzuola in caso di lancio di gas asfissiante e metterli davanti le imposte, secondo le istruzioni avute in precedenza, poi si cominciò a correre nelle grotte. Gli aerei nemici si sentivano rombare sopra le case.

”Un giorno verso le tredici una raffica di mitraglia lanciata sul campanile della Matrice fece avvertire che realmente il pericolo c’era. Il 9 luglio 1943 mitragliarono un treno ad Aragona Caldare […] Verso le ore 21 si sentì un cupo rombo di aerei. Poco dopo piovvero le bombe in contrada Pantanelli. Ci fu il corri corri. Tutti alle grotte  [cfr. foto successive]

 





 

 

RIEVOCAZIONI

 

Riprendo il racconto con una precisazione: nel 1943 nessun MATTINO ILLUSTRATO giunse a Racalmuto. Mi sembrava strano: ora so che varie annate del MATTINO ILLUSTRATO tutte e belle e rilegate pervennero a Racalmuto ma da una bancarella di Palermo e quando eravamo negli anni ‘60. Nel 1943 a Racalmuto era solo cessato ascoltare a mezzogiorno il comunicato radio, dopo il celebre cinguettare, a capo scoperto. Con il 13 maggio anche il residuo patriottismo dei più grintosi fascisti si era afflosciato. Solo Giuggiu Agrò poté credere alla retorica del bagnasciuga dell’ormai spento Mussolini. Certo i baldi cadetti vi facevano coro, ma con quanta convinzione non sappiamo dire. L. M., L. di M., G.C., Leopoldo, tutti i cugini di M., il non cresciuto P. F. ed altri ed altri ligi al duce, poco al re, si dichiaravano pronti alla morte ma nel calduccio delle case racalmutesi; ad ammirare il martire fascista e a credere, ubbidire e combattere, ma solo nelle colonie elioterapiche del Serrone. A sbirciare magari le piccole donne in camicetta bianca ed in gonnellino nero. Quando insomma fiorirono i primi amori. E mi pare che non andarono a buon fine. Amori che se si consumarono, come dicono i preti, non portarono al matrimonio. Il matrimonio magari dopo vi fu, ma tra parenti stretti, Alcuni di loro spinnarono fino al decomporsi della non più giovane vita.

 


Sciascia odiava il “giummo”: quando l’ho scritto, un fanatico per poco non va a comprarsi una lupara per scaricarmela addosso. Sciascia giovane col fascismo vi bazzicò. Aveva zio quasi federale ed il primo impiego glielo diede nelle odiose trappole fasciste della requisizione del grano superfluo o intercettato al mercato nero.  Si chiamava Consorzio Agrario. Un galantuomo di vecchia data ebbe ad adontarsene e se lo segnò a dito. Venuti gli americani, quel galantuomo, che pur aveva avuto alti incarichi nelle ragnatele paramilitari fasciste, divenne persino capo della inventata sezione partigiana racalmutese. Subito se la intese con Guarino Amella di Canicattì. Quando ancora forse il celeberrimo Tony, questo strano yenkee americano che signoreggiò su Racalmuto  e ne taglieggiò qualche ricattabile farmacista, non era sbarcato; il galantuomo, dottore per antonomasia, riuscì a far spedire in Africa per un paio di anni di internamento Giuggiu Agrò l’ex gerarca fascista (che aveva osato requisirgli qualche stanza del suo palazzo in via Matrona per darlo ad ufficiali tedeschi ed anche italiani), l’evanescente maresciallo Craveri (cui i tre americani conquistatori di Racalmuto, avevano tolto la pistola d’ordinanza in piena piazza, che è poi il Corso Garibaldi dinnanzi la putia di Ticchitì) e tale don Bardiddu (finito vice podestà  per la insostituibilità del podestà Matitina chiamato alle armi e per la indisponibilità degli altri gerarchi anzianotti, Grillo o Farrauto, riluttanti a coprire tale ormai scottante carica).  Uomo vendicativo, quel galantuomo, passato dalla sera alla mattina da gerarca fascista a capo della sezione partigiana di Racalmuto, non fu contento di avere fatto tre vittime – per il paese tutti e tre innocenti, ma più innocente di tutti viene ancora ritenuto ed era don Bardiddu.

 

Il nostro galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro  - e lo porta a Canicattì per il confino in Africa. Tra questi vi era Nardu Sciascia e don Pino Matina; vi era pure un altro giovane che mi pare fosse Fofu la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive), sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato ignoto oppure  - e pare – certo, sarà stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia, don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose. 



 

 

 

 

”La trasuta di li miricani” a Racalmuto,  Sciascia  ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel     tempo avevo pur io età per ricordare qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare. L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato – la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.

Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a decriptare. Io racconto la mia versione.


 

Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15 o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di Via Fontis dei documenti (divenuta poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni, marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio; altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.

“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri. “Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una folgorazione: “viva gli americani”. Figli di taliani sunnu. Abbasso il duce, stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a Racalmuto”.

 

 

Sciascia sapidamente irride al noto proclama Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato. Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è poi malanno esiziale.

A leggere le invocazioni roattiane non si può non dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò l’essere  stato mio nonno disperso di guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37 anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula; stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al fronte che lu cuocciu di la littra ce l’aveva.


 

Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va  … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa “mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.

Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe  a morire per le mitraglie americane sol perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo: altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli anglo-americani. Brava gente si vorrebbe  oggi.

A far levare l’abito monacale e farla vestire da cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella casettina di la Curma, mia nonna, la figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni e Luigi.

Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non interessava ad alcuno:  sia pure vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane – non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale. Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino genuino era; nutriente. Favi, ciciri, piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.

 

Quella storiellina del contadino e dell’arciprete va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete – finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta. La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella condanna a dispetto.

I due giovanottoni, per essersi acquistata una buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico,  alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già quando come dice Sciascia in fuoco all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con Berlinguer, Guttuso  e lo scrittore finì in tribunale ma ancora non c’è sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso. Il giornalista  racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.

In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43, l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime in articulo mortis  avevano accettato quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»

Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu, che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che  tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”, vi fu qualcuno che, dopo,  impedì la deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore (fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate da don Pinu Matina, per me un gran signore, un “galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione. Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche. D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino  impettito nella signorile poltrona del Circolo.

 

 

Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo un po’ pudiche nella parte finale.

 Prende subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra  ma se si cimentano nelle cose della storia, sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»

Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria. Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in  Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi, presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra, stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939 parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del padre.  Ritornerà in Italia il 29 giugno 1945.  Parte ventunenne, ritorna trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma  appena settantaquattrenne muore di cancro, dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a 37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero, col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia nonna però preferiva quella della straduzza di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per intesa; credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie aveva.


 

Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.

 

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