lunedì 26 ottobre 2015

Calogero Taverna

La signoria racalmutese dei Del Carretto

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Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II Chiramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo  e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il coautore, prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’novanta di questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo.
 Scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare  i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testomoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di marchesato che fasullamente in esordio avevano contrabbandato. 
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
 E quel che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!


UN EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO

Ricerca storica di Calogero Taverna

Dalle brume dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo verso la fine del secolo scorso.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini  ne specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.


La questione feudale racalmutese


Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1]  specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto un centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”,  è proprio come asserisce il De Stefano[2]: faceva  parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del 1311. 
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie aprocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè nel   1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.

GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO

Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un  Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia  tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle cointeressenze date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»

La svolta del 1374

Si accredita autorevolmente la tesi di un Mafredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si venisse a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della residua, falcidiata popolazione. Già, subito dopo la conquista di Garibaldi, il locale sindaco - pensiamo a Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto professore del Continente che: «Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. Questo borgo fu sotto il dominio della famiglia Chiaramonte, passò quindi in feudo della famiglia Requisenz, principi di Pantelleria. (Alcune delle surriferite notizie debbonsi alla cortesia dell'on. Sindaco di questo Comune).»  [6]
L’apice della visionarietà si ha naturalmente nel Messana, [7] secondo il quale: «A  Racalmuto le cose andavano bene, la popolazione cresceva, sempre attorno al castello. Vista insufficiente la cappella del Palazzo che nei primi tempi dopo il 1355 fu aperta al culto dei pochi superstiti alla calamità, si costruì la chiesa dedicata a S. Antonio Abate, eletto patrono del paese, alla periferia del nuovo centro abitato, verso l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni passavano, e al barone Antonio Del Carretto erano succeduti i figli Gerardo e Matteo. La baronia di Racalmuto con altri possedimenti era toccata a Matteo, a Gerardo  invece Siculiana col resto dei feudi. I due germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari del regno. Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i Chiaramonti, anche perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte le volte che non vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e dedizione. Negli anni di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici infatti Racalmuto è annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del Carretto erano i signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e dipendenti dai Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei potentissimi parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di Andrea Chiaramonti, che avevano seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di Martino e ricoverarono  all'interno. » In questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se si dà in qualche modo credito alla lezione da noi sopra esposta.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto.  La corte pontificia, ancora ad Avignone, versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa: bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto naturalmente.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a  Limoges nel  1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane. Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede la guerra degli «8 santi», novanta città e castelli dello Stato pontificio si sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della Santa Sede.
Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie. Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a partire dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia in favore del patrimonio della Santa Sede. [8] Scoppia quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374 raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del 1373. Dopo, nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che continuava più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la percezione dell’obolo è un totale fallimento nel reame di Napoli e, specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là 25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4 giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni. I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera apostolica.  Gregorio XI si fa prestare somme enormi.
L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento finale della fiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello Stato pontificio e si estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio XI nel 1373.
Per un sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono perdonate;  lo può Racalmuto ed il 29 marzo 1375 viene solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità” di una colpa mai commessa. 
Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura. Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato spirituale e temporale insieme.» [9] Ma ciò per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si ritirò dinanzi all’impellenza delle varie lingue delle varie nazioni.»  L’universalità perse terreno; l’elemento ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si mettono in cammino lungo percorsi  nuovi, in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati. La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso del suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della potenza papale.
Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le  pubbliche autorità rigettano le idee di sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.
Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scisma. I papi poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.  




[1] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977, pag. 10 e segg.
[2] ) ibidem, pag. 18.
[3] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[5] ) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[6] ) DIZIONARIO COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura  del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.


[7] ) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec - Canicattì  - Giugno 1969. pag. 77.
[8] ) Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Anno V  . n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[9] ) L. von Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.

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