giovedì 9 luglio 2015

Sepoltura in chiesa, tarì al Vescovo

 
 
Siamo nel dicembre del 1663. In matrice di Racalmuto solerti amanuensi, i preti detentori dell'archivio, annotano diligentemente questi atti di morte.
Vi notiamo nomi di famiglie che poi hanno fatto la storia di Racalmuto, la storia moderna, nel bene e nel male.
Chissà se farà mai il regista Beppe Cino attenzione  a queste carte antiche e gloriose. Forse vi potrebbe cogliere qualche flash nel suo nuovo film ch girerà nel paese che per lui, però,  è solo ed esclusivamente quello  ormai sparito delle PARROCCHIE di Sciascia. E Sciascia allora non ebbe curiosità per tali testimonianze genuine  anche se un po' cupe.
Vi verrà attratto solo quando cercò le veridiche radici di quel frate agostiniano di tenace concetto, omicida.
Qui, in questo doppio foglio, non è solo un burocratico attestato di buona morte. E' anche (soprattutto direi) uno scrupoloso registro contabile.
Vi si annotano le spese funerarie, ancora non gravate dall'IVA di Renzi.
Erano le quartuarie. Cinque tarì per gli adulti, un quarto per le "glorie", esenzione per poveri (gratis pro Deo) e per i grandi potenti del luogo, massimamente dignitari religiosi (gratis cum clero). Quartuarie perché: un quarto al vescovo, un altro all'arciprete, il terzo quarto al cappellano e l'ultimo quarto a quelle strane confraternite diciamo della "buona morte" a metà fra i becchini (la gente veniva seppellita però in chiesa e là vi era una di tali confraternite) e il moderno impresario delle pompe funebre.
Anche allora la Racalmuto tartassata: tassata dalla culla (battesimo) alla tomba (sepoltura) in questa intrigante commistione di sacro e di profano, religiosa e laica.
 

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