giovedì 2 luglio 2015

le svolte della piccola storia di Racalmuto


La grande svolta del 1860


Eugenio Napoleone Messana svolge in pagine e pagine il passaggio epocale di Racalmuto dai Borboni ai Savoia (da pag. 235 a pag. 256). Non resiste - come al solito - alla tentazione della glorificazione della sua famiglia ed inventa una presenza a Racalmuto di Garibaldi, sol perché un senescente suo antenato così ricordava. Secernere il buono dall’immaginario non è dunque impresa facile. Ma data la saliente imprortanza di quegli eventi, noi ci limitiamo a chiosare alcuni dati della stampa dell’epoca.

Nel Giugno del 1859 in contrada La Pietra, tra Grotte e Comitini, fu innalzato il tricolore italiano: tra gli animosi che compirono quel gesto audace c’era anche il sacerdote Gerlando Sciarratta da Grotte.  Ma quanto a clero risorgimentale Racalmuto non era da meno. “Benché svolgesse la sua attività in Palermo, il sacerdote Calogero Chiarenza da Racalmuto, dove era nato nel 1823, fu «in relazione con tutti i liberali specialmente dell’aristocrazia ed era un intermediario preziosissimo tra la capitale della Sicilia e i cospiratori agrigentini Domenico Bartoli, Pietro Grillo, Vincenzo e Rocco Ricci Gramitto ... Il Chiarenza, cappellano dell’ospedale civico, grazie alla sua veste poteva molti segreti conoscere, cospirare, scrivere, senza attirarsi i sospetti del governo» ... ”. 

E’ da escludere che nel casino di compagnia vi fosse partigianeria per simili fatti, considerati bravate di teste calde. V’erano gli interessi, specie solfiferi, da tutelare e ele avventure politiche non potevano non venire considerate dai galantuomini racalmutesi che attentati alla loro sudata ricchezza. Il Chiarenza, poi, figlio di mastri, era escluso dalla “conversazione” del casino. Al Casino, invece, primeggiava Calogero Lo Giudice di Giacomo, nato a Racalmuto nel 1833 e considerato, poi, irriducibile clericale e borbonico.

Ma passiamo alla cronaca veridica del Giornale Officiale di Sicilia (I Sem. 1860). Quando al casino giunge il foglio del 10 marzo 1860, i galantuomini riescono a mala pena l’intima soddisfazione di vedere che a Licata il prezzo dello zolfo di prima qualità si era attestato a ducati 3,5 a quintali. Si pensi che a settembre, invece, a rivoluzione conclusa, il prezioso minerale scendere a quota 3,05 a quintale: un vero disastro, maledetto Garibaldi!

E’ noto come nella notte tra il 3 e il 4 aprile 1860 a Palermo Francesco Riso, un amestro fontaniere, abbia deciso autonomamente da Crispi, La Farina, Rosolino Pilo, Rattazi e Garibaldi di prendere le armi contro i Borboni. Il tentativo del Riso sembrò fallimentare essendo stato subito sopraffatto e rimettendoci la vita tutti gli insorti. Ma la rivolta, fallita nella capitale, si diffuse subito in gran parte della Sicilia: entrarono in azione squadre armate che subito presero il controllo delle campagne, soprattutto nella parte occidentale. E’ una guerriglia che si propaga dal 4 aprile all’11 maggio. L’11 maggio, Garibaldi - è ultranoto - conquista Marsala; 15 maggio, vittoria di Calatafimi; 6 giugno, presa di Palermo; 27 luglio, vittoria di Milazzo; 27 luglio 1860, presa di Messina. Il 21 ottobre si celebra il plebiscito per l’annessione della Sicilia al Regno Sardo ed il 17 dicembre 1860, data del decreto di annessione, si recide ogni legame con il passato storico della Sicilia come nazione autonoma, per l’amaro viaggio senza ritorno nella vassalla subordinazione ad un’Italia non sempre riconoscente. «E sia detto fra noi - interloquirà il Gattopardo - ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio», per poi magari aggiungere con orgogliosa iattanza: «noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.»

A Racalmuto non vi fu passaggio tra Gattopardi e sciacalletti o iene: a dominare il laticlavio comunale furono sempre le solite famiglie, divise in astiose fazioni,  magari in alternanza fra combriccole, ma sempre fra di loro. E di tutte quelle famiglie l’eco ed il punto d’incontro era nella “conversazione” del casino.

Come vissero quei mesi tra la primavera e l’autunno del ’60, i nostri ‘civili’: noi pensiamo con apprensione; era un gioco che sfuggiva loro; un caos che danneggiava i loro affari; un maneggio da cui erano esclusi. Soltanto alcuni scapestrati universitari di Palermo vi avevano avuto una qualche parte ed avevano - impudentemente, prima; proficuamente, dopo - allacciato intese niente meno che con Crispi.


Al Casino la lettura del Giornale Officiale di Sicilia sconcerta: ecco una nota del 12 aprile 1860: «alle 6 pomeridiane del giorno di jeri una colonna di reali Milizie partita da Palermo procedeva oltre senza ostacoli fin sopra all’alture di Gibilrossi, da dove sorprendeva il comune di Misilmeri. Gli insorti che vi stavano riuniti, davansi alla fuga, mentre che la popolazione si faceva incontro alle milizie, salutandole col grido di Viva il Re!

«Stamane la guarnigione di Monreale respingeva vigorasamente una banda in armi.»

Due giorni dopo, i galantuomini racalmutesi avranno fatto un sospiro di sollievo sfogliando il solito giornale: «Palermo, 14 aprile: - Le bande armate, che in diversi drappelliscorrevano per le campagne, pressoché tutte sonosi disciolte, e la più gran parte degl’individui, che le componevano, rientravano in seno alle loro famiglie con quell’intera fiducia, la quale scaturisce dalla certezza, che la clemenza di S.M. il Re S.N. vuole coperti dall’obblio [sic] i momentanei erramenti di coloro, che con atto spontaneo depongono le armi.»

Altro che “momentaneo erramento”! avrà esclamato il più borbonico dei civili del casino; la fucilazione ci vuole. E la notizia di questa giunse puntuale un paio di giorni dopo quando il Giornale rendeva conto della fucilazione di 13 individui in Palermo: dal ventiduenne Michele Fanara al sessantenne Andrea Cuffaro.

Vi sono oriundi racalmutesi?  avrà chiesto il solito don in vena di campanilismo. Non sembra! Avrà risposto il saccente del casino, monopolizzatore come al solito del foglio palermitano. In ogni caso, per l’agrigentino non c’era da temere: «L’Intendente di Girgenti a S.E. il Luogotenente Generale» - il giornale riportava una nota da Girgenti del 18 aprile 1860, ore 4 p.m. - “La tranquillità continua come sempre inalterata”, il succo estremamente rassicurante.

Martedì 24 aprile 1860. L’uuficiale interprete Tommaso di Palma rende noto: «Due colonne mobili, l’una comandata dal generale Marchese Letizia e l’altra dal generale Primerano muovono per le provincie di Palermo, Trapani e Girgenti affin di assicurare vieppiù colla loro presenza le pacifiche popolazioni, rimaste estranee ai sommovimenti dei trascorsi giorni.»

I Borbonici più incalliti avranno tediato don Gaetano Savatteri, nelle diatribe serotine del casino, sapendolo in ambasce per le peripezie dei suoi figli, specie Gaetano e Calogero, che con quei sommovimenti un qualche legame lo mantenevano.

Ancora, il 25 aprile 1860, si telegrafa da Girgenti che alle ore 10 a.m. “la provincia è tranquilla”, è notizia riportata dal Giornale del giorno dopo. Il lunedì, 30 aprile il Giornale ha spazio per un necrologio di Monsignor Lo Jacono: a stenderlo è il figlio di un oriundo racalmutese della cospicua famiglia dei Picone. L’avv. Giovanni Battista Picone traccia i tratti salienti della vita di quel vescovo, che - si saprà dopo - aveva razziato beni del nostro paese per le sue megalomane opere nel suo paese Siculiana. Scrive il Picone: «Mons. Domenico Lo Jacono addì 14 marzo del 1786, nasceva in Siculiana, provincia di Girgenti da parenti onesti e poveri.» Moriva «la notte del 23 marzo corrente assalito d’apoplessia polmonare.» Al Casino i motivi delle diatribe poterono per un momento venire convogliati sulla figura di quel vescovo, borbonico sino al midollo, non certo tenero con Racalmuto. L’aveva assoggettato a fiscale visita pastorale il 3 febbraio 1847. Era allora arciprete l’ottantasettenne  don Francesco Rizzo. Vi trovò 34 sacerdoti, 3 carmelitani e 4 conventuali. Queste le chiese: Matrice, Monastero, Collegio, Monte, S. Anna, S. Giovanni di Dio, S. Giuliano, Itria, S. Nicolò di Bari, Crocifisso dei Poveri, Maria SS. Della Rocca, S. Giuseppe, S. Pasquale, Convento S. Maria, Oratorio Sacramento, oltre a quelle rurali. Ecco altri dati: monastero: Abbadessa Maria Rosa Picone, suore 8, educande 1, converse 4; Collegio di Maria: suore 9, educande 5, converse 3.

La pignoleria episcopale ci fornisce un dato aliunde impreciso: gli abitanti erano nel 847 10.623. Il Lo Jacono reiterava la visita l’11 settembre 1851. L’arciprete era ora Salvatore Puma, che abbiamo incontrato sopra; i sacerdoti erano saliti a 35 unità, oltre 14 che vivevano fuori; i religiosi carmelitani 3, i Conventuali 4, i Minori 3.

Il testardo arciprete Tirone citerà poi per danni gli eredi dello Jacono, considerandone illegettimo il prestito forzoso imposto alla Comunia di Racalmuto per la costruzione della chiesa madre di Siculiana. Fornirà gli appigli giuridici il ‘massone’ don Calogero Savatteri.

Ai primi di maggio al casino possono ancora leggersi trafiletti rassicuranti sulla situazione politica siciliana. Il Giornale di giovedì 3 Maggio riporta il trionfale messaggio ai “Siciliani - La sedizione del mattino del 4 aprile, con l’aiuto di Dio, mancò di asseguire l’impobo intendimento di travolgere nell’anarchia questa bella parte dei Reali dominii”. Dovette piacere molto ai civili racalmutesi quel chiamare le cose come “improbo intendimento”  che avrebbe portato all’aborrita anarchia.  La quasi totalità dei soci del casino era - e poteva essere diversamente? - per l’ordine costituito. Lo speziale Calogero Messana e don Gaetano Savatteri lo erano altrettanto: ma i loro figli no. Biagio Messana, massone ed ora sfaccendato autore di versi in vernacolo, Serafino Messana, chimico per diventare farmacista al posto del padre, Luigi Messana, Giacchino Savatteri, il futuro sindaco, Calogero Savatteri, il notaio massone, erano giovani che tutti sapevano in combuta con i rivoltosi. La conversazione al circolo doveva tenere conto di tutti quegli intrighi; non perdere il gusto del dileggio e del sarcasmo; ma stare attenti a fare passi falsi, compromettenti. Un domani, chissà? E un domani infatti vi fu, tutto contrario al placido pensare dei galantuomini nostrani.

La cronaca di quel maggio diventa all’improvviso tumultuosa. Vero è che il 3 maggio il Maresciallo comandante le armi può sciogliere lo stato d’assedio in Palermo (art. 1), ed il 4 di quel mese - come tutto fosse tranquillo - ci si può soffermare sul fatto che «saranno egualmente costruite per ora tre grandi linee di ferrovie ... la terza per Girgenti e Terranova», ma occorre stare in campana. Don Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, Luogotenente  di S.M. il Re S.N. e comandante generale delle Armi in questi domini fa pubblicare sul Giornale la notizia: «gravi fatti di sangue e di rapina in Ciminna, Petralia Sottana, Caccamo, Piana di Vicari, Porticello. I contravventori (detenzione di armi) saranno giudicati da’ Consigli di guerra subitanei e puniti di morte».

Il Giornale Officiale di Sicilia ci dà allora la statistica dei morti in Palermo nell’aprile del 1860:

“dalla nascita a 7 anni ..................................................................................... n.° 108

“da 8 a 20 anni ................................................................................................ “     10

“ “ 21 a 40 anni ................................................................................................ “     41

“ “ 41 a 60 anni ................................................................................................      41

“da 61 in sopra ................................................................................................       52

                                                                        in totale ...................................n.°  252

                                                                                                                       =======

Dalla tabella è desumibile una vita media non superiore a 28 anni e mezzo. Il grafico che sgue ne esplicita meglio la composizione statistica:



L’11 maggio il grande evento: Garibaldi a Marsala. Il Giornale Officiale di Sicilia tace. I nostri consoci saranno stati informati da qualcuno. Forse dai Messana, forse dai Savatteri. V’è sgomento. Ognuno scende a casino per trovare modo di fare una qualche eclatante dichiarazione che lui i Borboni non li ha proprio mai digerito. Il vecchio Gaetano Savatteri - ancora non del tutto svanito - annota e sorride. Il successivo venerdì 18 maggio il Giornale è però ancora sotto il controllo borbonico. Pubblica un provvedimento di Francesco il Re: “ Nominiamo il Tenente Generale Don Ferdinando Lanza Nostro Commissario Straordinario in Sicilia - Francesco. Napoli 15 maggio 1860”. E dopo una settimana, il 25 maggio 1860, si ha voglia di pubblicare questo trafiletto: «La banda dei filibustieri del Mediterraneo guidata da Garibaldi pigliava posizione il giorno 23 andante nel Parco, e vi si fortificava con quattro cannoni.» Passano pochi giorni ed il Giornale cambia finalmente voce: «Palermo 1860 - Giovedì 1° giugno n. 1. «Italia e Vittorio Emanuele - Giuseppe Garibaldi Comandante in Capo le forze Nazionali in Sicilia - Il Segretario di Stato Francesco Crispi.» Flash, fulmini che schiantano e atterriscono  ... i più ‘riproti’ borbonici del Casino di Conversazione o di Compagnia di Racalmuto. I savatteri ora non hanno più ritegno: conclamano la loro antica consorteria con quel fuggiasco di Francesco Crispi che all’improvviso ora appare a Palermo quale “Segretario di Stato”. Cicciu Crispi, sì, quello a cui i facoltosi Savatteri hanno fornito mezzi e viveri di straforo, ora è nientemeno che Segretario di Stato di Sicilia. Tremino i nemici; rimembrino i sarcastici. Vendetta? No per carità di Dio, solo qualche umiliazione, solo qualche punta intimidatrice.

Il 29 maggio 1860 il Dittatore Giuseppe Garibaldi aveva nominato il signor Domenoco Bartoli Governatore del distretto di Girgenti . Il provvedimento risulta controfirmato dal segretario di Stato Crispi.  Placido Montalbano diventava giudice di Grotte con decreto a firma Garibaldi del 7 luglio. Garibaldi diventa a un eroe agli occhi degli americani. Lo scrive il Giornale dell’11 luglio. Lo zolfo di prima qualità ha un balzo a Licata nelle quotazioni del 19 luglio 1860 salendo a ducati 3,70 a quintale. Il nobilato racalmutese è ora fanaticamente garibaldino. Gli affari vanno dunque bene; alla fin fine non è successo nulla Già, gattopardescamente, “bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è”. Ed allora che aspettare? Si legge con soddisfazione la corrispondenza da Racalmuto del Giornale Officiale di Sicilia del 25 luglio 1860. La notizia di una raccolta di firma pro Garibaldi del 24 giugno era rimasta a lungo negletta e ciò metteva in ambasce i nostri bravi compaesani. Ma ora eccola - sia pure con varie sbavature nella trascrizione dei cognomi - nelle untuose colonne del quotidiano palermitano. Si aera costituita una commissione con Luigi Messana, presidente. Seguivano le firme di Gioacchino Paratteri (ahimè, al posto di Savatteri), Gaspare Matrona, Giuseppe Grillo Matrona, Camillo Pirataggio (al posto di Picataggi), Calogero Sferlazzo, Salvatore Borsellini, Gaspare Restivo, Giuseppe Grillo Cavallaro, sac. Matina Mendola, Giuseppe Vincenzo Salvo, Francesco Borsellini, Illuminato Grillo, sac. Giancani, Antonio Grillo Borghese, Carmelo Rosina, Girolamo Grillo Poma, sac. Nicola de Caro, Diego Scibetto Proisi (invece di Troisi), sac. Beneficiale Antonio Picataggi, Napoleone Matrona, Salvatore Salvo, Paolino Matrona, Nicolò Mantia, Michele Alaimo, segretario.

V’è quasi tutto il Gotha degli ottimati racalmutesi; ma vi sono assenze rilevanti.  Nessun Tulumello, nessun Cavallaro, nessun Farrauto. Discriminati all’ultimo momento? Ancora titubanti il 24 giugno? Rampogne, subdole accuse, insinuazioni, cattiverie, ire, sedie e porte sbattute, di sicuro nel casino quando si potè provare l’infame canagliata dei Messana e del Savatteri. Inopinatamente i Matrona (i giovani fratelli Gaspare e Napoleone - ma non il borbonico fratello prete, don Calogero -) vi si erano intrufolati. I sacerdoti che in massa avevano aderito ai moti (cartacei) di Biagio Messana del 1848 ora sono ridotti ai soli Giancani, de Caro e Piacataggi - solo tre rispetto ai 16 di allora. C’era da temere di più per il noto anticlericalismo di Garibaldi che per il pacioso riformismo dei re Borboni.

Sorprende come anche i pavidi Grillo Borghese, l’umbratile Illuminato Grillo e l’emergente Michele Alaimo sono ora tutti della partita. Quanto a Nicolò Mantia - una prefigurazione in dodicesimo del celebre don Calogero Sedara - nessuna meraviglia: il fiuto del borghese è infallibile. Carmelo Rosina si associa. Salvatore Borsellini pure, pure i Salvo e così Sferrazza, Gaspare Restivo - quello di “con tutto il cuore del 1848” - e con lui Girolamo Grillo Puma. Gli assenti: Nicolò Alfano, Michelangelo Argento, Angelo Baeri, Carmelo Buscarino, Giovanni Chiarelli, Luigi Cavallaro, Felice Caratozzolo, Nicolò Di Vita, Luigi Falletta, il farmacista Lorenzo Farrauto, Alfonso Farrauto, Gaspare Franco, Calogero Fucà, Aurelio Giudice, Luigi Grisafi, La Tona Nicolò, Salvatore Macaluso, il farmacista Raffaele Mattina, il sac. Angelo Morreale, Carmelo Morreale, Nicolò Mumisteri  Pinò, Leopoldo Muratori - l’odiato cognato di don Gaetano Savatteri -, Luigi Nalbone, G. Battista Picone, Ignazio Picone, Michelangelo Pomo, Calogero Presti, Orazio Restivo Pantalone, Giosafatto Restivo Pantalone, Paolo Rizzo, Calogero Romano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe Sciascia, Pasquale Sciascia - l’antenato di Leonardo -, il farmacista Luigi Scibetta (ma è firmatario il fratello Diego), Serafino e Vincenzo Tinebra, Giuseppe Tulumello, Luigi Tulumello, Vincenzo Tulumello, Giuseppe Tulumello, Saverio Vinci, Mario Vinci, Calogero Vinci e Mario Vinci.

Sono 45 notabili - la vera creme dell’imprenditoria locale - che viene esclusa o che improvvidamente ritenne di non aderire. Ma forse una costante anti- Messana  non fu assente. Biagio Messana - auoproclamatosi presidente della sedicente Giunta comunale - non ebbe fortuna a Racalmuto. “Dopo l’unità - scrive il suo omonimo biografo  - segnalato da Michele Amari, ebbe l’incarico di costituire il corpo di polizia in Emilia. ... Nel 1863 venne nominato ispettore di pubblica sicurezza”. Quella della polizia, sarà una costante, poi, dei Messana. “Buontempone, irascibile e spregiudicato - lo reputa Eugenio - spirito bizzarro”, insomma. Approda verso lidi tranquilli, però, quelli liberali lasciando da parte Mazzini e i giovanili vezzi socialisti. “Materialista convinto accettava il dio dei massoni, architetto dell’universo, ponendolo immanente e non trascendente” se crediamo al suo disecendente E.N. Messana. Si credeva tetragono “nei principi inalterabili, avversi alla Tirannia ed allo Stato Politico della Corte di Roma”. Fu anche propenso a scrivere poesiole  in dialetto decisamente pornografiche: una s’intitolava, lasciando intravedere subito il lascivo contenuto: «Padre Filippo e Soru Catarina»; miscela di anticlericalismo becero e di stucchevole trivialità. Ritorno a Racalmuto per morirmi il 13 gennaio 1882, in tempo per dilapidare i beni di famiglia e lasciare in miseria i molti figli, costretti a realizzare il poco rimasto per disperdersi in varie parti del mondo.

Frattanto, le sorti del mercato solfifero cominciarono a declinare, lasciando tra i don del circolo motivi di apprensione. Ecco la curva dei prezzi all’ingrosso:

Curva dei prezzi all'ingrosso dello Zolfo nel 1860
Luglio, 31
6,60
  al quintale
Agosto, 13
3,25
  al quintale
Agosto, 31
3,05
  al quintale


In un mese vi era stata dunque una diminuzione del 15,3%: oscillazione da mandare in frantumi tutti i calcoli di convenienza. Certo, si stava in villeggiature; a fare la “campagnata”. Le sale del casino erano vuote per commenti salaci o per recriminazioni. Ed il 13 settembre scenderà ancora: ducati 3 al quintale. Una ripresa a fine anno: ducati 3,20 ed un’impennata il 15 gennaio 1861: 3,50 ducati al quintale. Poi una discesa catastrofica: 2,60 l’8 marzo 1861; 2,55 il 5 aprile 1861. Una falcidia del 29,17% in meno di un anno.

Eccone la terribile curva:


C’era di che maledire Garibaldi, Crispi, Vittorio Emanuele II, i Savoia ed in loco i Messana ed i Savatteri: bel regalo aveno confezionati per i ‘poveri’ galantuomini racalmutesi. Chissà le ire al casino; intuibili le diatribe delle serali ‘conversazioni’. Ci hanno rovinato! Io l’avevo detto! Come poi nel 1948 o 1949 il Ferdinando Trupia dell’epoca avrà incendiata la sala di conversazione; solo che al posto dei contributi unificati cera il crollo del prezzo dello zolfo o le tante tasse che il nuovo regime spandeva a piene mani. «Verso le diciannove - parafrasiamo Sciascia  - c’è sempre qualcuno che dà fuoco alla miccia dei contributi unificati, don Ferdinando si accende come  una di quelle macchine che in bellezza concludono i fuochi d’artificio, tutto razzi, girandole cascatelle e spaccate di bestemmie imprecazioni e apprezzamenti di natura sessuale ai funzionari e ai governanti diretti; tiene però a dichiarare, tra tanta furia, che lui paga quanto deve pagare, personalmente non ha subìto soperchierie, con lui tutti camminano su una lama.»

Già le tasse! Il nuovo governo ora era inflessibile e ficcante nell’esigere l’imposta fondiaria: Cresceva anche il dazio sui consumi: ma quello i civili lo consideravano un male altrui, incombente sulla ‘plebaglia’. La sola sovrimposta sui terreni passò nell’agrigentino da 0,79 lire per ettaro cui era arrivata nel 1866 a ben L. 1,87 nel 1879, un aumento di ben 136,70%. Davvero la pressione fiscale diventava soffocante. Ci penso poi il comune a fare spese pazze (i Matrona avevano una maniacale voglia di sperperare in faraoniche opere pubbliche)  e queste ripiobavano sotto forma di imposte comunali dominicali sui nostri galantuomini. Erano letteralmente diventanti furibondi. Serafino Messana - fratello  dell’irrequieto Biagio - è incontenibile! Diventato farmacista, resta solo formalmente il rivoluzionario (cartaceo) del ’48. Si diletta di lettere: scrive inventando neologismi improbabili, vocabolario greco alla mano. La povera storia si lega alla natura nientemeno che in “apocastasi”;   “emanatismo” e “mistogogi” , sono termini per Messana di comune accezione; e “gli antichi credenti usavano la Xerofagia a nona”;  e “metaformasondone il il pensiero dal vero all’immaginario, dall’idea all’ideale, andonne in sivibilio la severa logica per la confusion dei sistemi, degenerando in goffa stravaganza che ne diè pure la spinta la caduta dell’Impero d’Occidente” : accipicchia! Peccato che Rascel non era ancora nato. E così via con lemmi quali: Camauro; imberciare [pag. 9];  antinomia di cinici tartuffi [pag. 10]; essere da sezzo; sanguinaria apoftegma [pag. 11]; Diffalte [pag. 20]; taglia mummica ad ogni menoma lor pia azione [pag. 22]. Le 24 paginette dello sproloquio di Serafino Messana un raccontino tutto paesano ce l’hanno e noi lo riportiamo, pari pari:

«Il signor M..... ascrittosi all’Opera Pia del Suffragio previo lo sborso di ducati sei (scotto stabilito per cadauno; mentre adesso è aumentata la cifra come pure quella delle messe a norma del caro delle derrate) ne volea in Racalmuto la celebrazione, che gli si negò pria con ambagi, poscia con dirgli che per godere di tanto profitto in vita bisognasse erogar di nuovo altrettanta somma. Virtù evangelica!!!; e per l’ipocrisia involava un guardiano i votivi ciondoli della signora M... dal simulacro di S. Maria di Gesù col pretesto di farne tersa pulitura; gli eredi di G....C... ebber sottratta la roba valutata tremila ducati, ed incamerata dal Convento del Carmine; mentre rimasero tapini gli eredi nel più orrido trivio per le mene del prete N....»

Quante volte l’avrà sciorinata questa querelle al casino di conversazione? Se con quella leziosità linguistica, tra lo sberleffo degli annoiati consoci.

Nel 1873 il solito Serafino si fa pubblicare un libello su «il brigantaggio in Sicilia, ossia i delitti impuniti.» Ora la rabbia contro il fiscalismo di stato non ha più remore: Le nostre aspirazioni sono dirette - esplode a pag. 57 - ad alleggerire le riscosse dei tributi, e tòrre quelli che più scottano per essere inventati da mera baratteria, acciocchè i contribuenti non siano straziati e costretti per scadenza di pagamento.» Ed nella chiusa finale, in termini meno lambiccati, lo sfogo intimo e più vero: «Impertanto siimi indulgente nel compatire la lealtà delle mie idee significate in questa lettera abbandonata e ripresa più volte in questo mese e per le odierne occupazioni della famiglia e del Fisco...» Fisco, terrore di don Serafino Messana  e di don Ferdinando Trupia che i locali sanno chi essere stato veramente: un diretto discendente del grafomane Serafino ottocentesco.

Nel 1874 Serafino Messana non aveva remore religiose - miscredente com’era - e si accaparrò un ettaro di terra in contrada Troiana requisito al disciolto convento di santa Chiara, offrendo 1.400 lire al posto del prezzo base di L. 941. Subì ipso facto la scomunica: lui non se ne dolse. Del resto era in compagnia dell’arciprete Tirone che si servi di una prestanome, la sorella Teresa, per annettersi con poche lire tutti questi beni:

1.          anno 1868 - provenienza: Conv. S. Francesco d’Assisi; terre, alberi frutteto; contr. Motati (? forse Malati); Ha. 1 - prezzo base L. 812; prezzo aggiudicazione L. 832.

2.          anno 1868 - provenienza: Convento Carmine; pagliera; via Carmine; prezzo base L. 453; prezzo aggiudicazione L. 655.

3.          anno 1868 - provenienza: Convento Carmine; terraneo; via Carmine; prezzo base L. 508; prezzo aggiudicazione L. 280.

4.          anno 1868 - provenienza: Convento S. M. di Gesù; 1 stanza; via Matrice; prezzo base L. 571; prezzo aggiudicazione L. 686.

5.          anno 1868 - provenienza: Convento S. M. di Gesù; 1 stanza; via Matrice; prezzo base L. 560; prezzo aggiudicazione L. 555.»

Serafino Messana potè pure sogghignare sull’interdetto, ma un suo discendente ebbe isterie mistiche: «O pio, figlio di padre Pio, che ogni giorno ti prendi la lavatura della comunione», lo insolentiva pubblicamente l’avv. Carmelo Burruano, al tempo del Cavallo Alato, tra lo sghignazzo del popolino plaudente.

Salaci mormorazioni al casino di compagnia nell’Ottocento; salaci mormorazioni al circolo Unione in quell’infocato maggio del 1950.

*    *     *

Nel Giornale Officiale del 6 settembre 1860 i radi soci, che continuavano a frequentare il circolo nel mese più adatto alla villeggiatura nelle campagne circostanti, potevano leggere «Data in Palermo il 26 agosto 1860. - In nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia, il Prodittarore decreta: Art. 1: sono destituiti i giudici circondariali. A Racalmuto: [destituito] Giacomo Sanfilippo » Il  provvedimento reca la firma di De Pretis. Il 13 settembre viene promulgata la legge provinciale e comunale: Racalmuto è il XIV comune del circondario di Girgenti e vanta una popolazione di 9.426 abitanti. E’ chiamato ad eleggere un consigliere provinciale.

Il successivo martedì 19 settembre viene pubblicato “l’indirizzo del consiglio civico e del municipio al Generale Dittatore”: Racalmuto figura in mano di Gaetano Savatteri, presidente; Felice Cavallaro e Giuseppe Savatteri. L’indirizzo è datato 18 agosto 1860. E.N. Messana fa ampie digressioni sulla sindacatura del Savatteri a cavallo del 1860. Non abbiamo elementi per contraddirlo (ma neppure per essere concordi). Forse Gaetano Savatteri non si dimise mai dal settembre 1859, quando ebbe a succedere a Giuseppe Tulumello Grillo.

Il 25 ottobre si celebra il plebiscito: Racalmuto risulta naturalmente sabaudo all’unanimità: 1931 elettori iscritti; 1924  votanti; 1924 sì; nessun no; nessuna scheda nulla. Vi sarà stato al circolo qualcuno che come Ciccio Tumeo si lamentava di avere votato no e di vedere poi la sua scheda “cacata” con un sì?

28 ottobre 1860 - Art. 1: Sono nominati i giudici di Mandamento - In Racalmuto: il signor Benedetto Diliberti. - Palermo 26 ottobre 1860. Il prodittatore: Mordini.

6 novembre - Racalmuto, il signor Salvatore Bellomo, cancelliere di Mandamento.

Statistica

Racalmuto

                                         Maggio 1860              Giugno 1860

1.               compagni d’arme                    n.° 48                        40 militi a cavallo

2.               guardie di polizia                        22                          5 guardie di sicurezza

3.               Rondieri                                       4

4.               sopranumeri                                38

A Racalmuto ufficialmente non v’è dunque opposizione ai Savoia, come se li avessero voluti sin da quando se ne erano andati senza rimpianti nel lontano 2 agosto 1718. Il Consiglio civico si spreme le meningi per formulare un solenne indirizzo al nuovo re sabaudo. Crediamo che si siano avvalsi della penna del mazziniano Calogero Savatteri, figlio del presidente Gaetano. Lo stile è quello, del tutto analogo alle lacrimevoli accenti delle lapidi funeree della madre «Donna Maria Grillo in Savatteri fù Francesco Paolo nata a Racalmuto e quivi [morta] di anni 52 l’alba del 20 Marzo 1862, col maledetto aneurisma», nonché del notar Pietro Cavallaro, morto il 20 giugno 1860, lapide che ancor oggi si legge nella cappella della navata sinistra della Matrice.

Il reboante messaggio recitava:

«Consiglio Civico di Racalmuto.

Sire,

La libertà da tanti suoli bandita dall’invidiato suol d’Italia, è nostra finalmente, e nell’unità Italiana, e sotto l’egida del Vostro glorioso scettro, consolida il suo più splendido trionfo, e segna il rovescio del nemico austriaco.

I gemiti degli oppressi Italiani Voi li sentiste, un’eco dolorosa trovarono nel Vostro cuore, vi commoveste, e gettando il Vostro scettro nella bilancia della politica, e quasi immolandolo sull’altare della Patria sposando la giusta causa del popolo, foste celere a redimerlo, ed a porlo nell’esercizio dei suoi più sacri diritti.

Il molto sangue di cui fu prodiga la nostra Sicilia, ed i suoi ultimi, ed infiniti patimenti, valsero molto per essa quando avventurosamente faceva acquisto del Vostro amorevole paterno regime.

Undici anni di efferata tirannide, e di crudele reazione non valsero ad intiepidirla di affetto per la gloriosa dinastia di Carlo Alberto. Scosso nel 1848 il giogo borbonico, chiamava alla reggenza dei suoi destini il Vostro rimpianto fratello, liberatasi un’altra volta Vi proclama Suo Re, ed avventurosa per aver tanto compiuto; oggi festeggia il Vostro arrivo, e corre esultante a presentarVi le più calde ovazioni, e i più veraci sensi di obbedienza, e di amore.

Sire, fra gli omaggi che Vi giungono da ogni angolo della sicula terra, accogliete pure benignamente gli affettuosi voti di sudditanza dei sottoscritti consulenti civici di Racalmuto.»

Indirizzi rassegnati a S.M. Vittorio Emanuele - Municipio di Racalmuto.

«Sire,

Il voto della nazionalità italiana, questo fervido desiderio nutrito da ogni italico cuore, cresciuto tra i patiboli e le carcerazioni, tra l’ostracismo e i martir, si è compiuto.- L’Italia è una: e nella storia di sì lieti e grandi avvenimenti son Vostri gli allori, com’è Vostro il compimento.- L’Italia è una; e sotto l’egida del vostro scettro che si fregia di ogni civile e religiosa virtù, che si sorregge dall’amore dei popoli sarà felice; e sotto la nobile insegna della Sabauda Croce acquisterà gloria e fortezza.

DescriverVi lo eccesso del contento, i sensi di suttitanza e riconoscenza è superfluo. Sicilia tutta, avventurosa pel vostro arrivo esulta e festeggia e da ogni parte si vola per offrire al rigenitore della Patria comune, all’apostolo dell’indipendenza italiana, le più calde manifestazioni di sincero ossequio e di verace amore.

Racalmuto che non fu l’ultimo alla riscossa, che fu solerte a secondare, non è l’ultimo a presentare, per organo del Magistrato Municipale, gli omaggi di sua obbedienza ed amore alla Maestà Vostra e a manifestarVi ad un tempo, che se tutti i popoli dell’Isola idolatrano il Re Galantuomo, l’entusiasmo di alcuno non sorpasserà mai quello del Popolo Racalmutese.

Gaetano Savatteri, Presidente.»


Il Re Galantuomo: ai civili, ai galantuomini di Racalmuto quell’attributo doveva tornare gradito, familiare. Complimenti! Bravo davvero! E forse stavolta al circolo i complimenti erano sinceri.

Il 20 gennaio 1861 si ebbero le elezioni: Emerico Amari entra “in ballottazione”. A Girgenti: esito di ballottaggio. Eletto Specchi.

Il 12 febbraio 1861 a Canicattì viene eletto il barone D. Salvatore D’Ondes Reggio. Il 5 aprile 1861 a Girgenti il ballottaggio ha il seguente esito: Dottor G.B. Picone (di origini racalmutesi) n.° 372 voti; Marchese D. Ignazio Specchi n.° 367 voti: per 5 voti la vittoria va al Picone. Ma questi rinunzia. Si riaprono i ludi elettorali. Garibaldi vuole Luigi La Porta da Sambuca. “Nel corso del mese - scrive il Picone nelle sue Memorie, pag. 656 - si anima intemperante lotta elettorale. I candidati sono Laporta e il sindaco dottor Drago. Tutti i garibaldini o veri o finti propendono pel primo, e vogliono imporsi agli altri cogli insulti, colle minacce. La società operaia pubblica un proclama incendiario. Si viene quasi alle mani nel Casino Empedocleo. Si procede alla votazione, e Drago riporta tre voti meno di Laporta.»

Gli echi al casino di conversazione racalmutese inevitabili, altrettanto irascibili, infiammati. Le mandorle toccano quota ducati 22,20 per quintale. Finalmente una buona notizia. Il 2 maggio sono da eleggere i consiglieri provinciali di Girgenti. Racalmuto riesce a piazzare il barone d. Giuseppe Tulumello Grillo.

Rientra così in scena l’antica famiglia nobiliare. Sciascia è insolente contro di essa. Fuori tempo massimo, ancora fanatico della famiglia Matrona, antagonista, ha parole di elogio per quest’ultima nella introduzione (mirabile) al testo del Tinebra sulla storia di Racalmuto ed a pag. 11 chiosa: «Non nobile [la famiglia Matrona] - e del resto nel pasese una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che fu rivale ai Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo - ma di grande e vera nobiltà nel comportamento, negli intendimenti, nelle opere.» Ci consta invece che i Matrona erano per parte di madre dei Moncada . Più nobili di così! I Tulumello - discutiamoli quanto vogliamo - ma nobili lo furono sul serio (per quello che significa nobili. Abbiamo poi visto don Illuminato Grillo fregiarsi del titolo di barone. Pensiamo a ragione.

Un precesso d’investitura è lì in Palermo a testimoniare sulla indubitabilità del loro blasone baronale su Gibillini (alias il Castelluccio).  Quanto alla nobiltà del comportamento e degli intendimenti dei Matrona, absit iniuria verbis. Una pur vaga sbirciata ai vari incartamenti degli archivi agrigentini (ed ora anche racalmutesi), svela ben altro.

Il giorno 7 giugno 1809 si ebbe l’investitura unciarum 157.14.2.3 census super feudo gibillinorum, in personam D: Joseph Tulumello. Fu l’eccellentissimo dominus marchio D: Franciscus Migliorni Regius Consiliarius, et Secretarius Status Suae Regiae Majestatis, ad accordare l’invetitura a  D: Franciscus Gaipa Procurator vigore procurationis in actis notarij D: Gabrielis Cavallaro Terrae Recalmuti, in nome e per conto di Dn Aloysius Tulumello veluti tutoris, et pro tempore curatoris D: Joseph Xaverij Tulumello minoris, del feudo di Gibillini nella rendita prima segnata. E viene narrata la provenienza del titolo: l’aveva ottenuto dal saserdote D. Nicolò Tulumello che gliene aveva fatto dono. Quel prete Tulumello, operante a fine Settecento ed osannato per la pretesa fondazione del Collegio di Maria, aveva acquistato il feudo dall’ Ill.re D: Julio Antonio Giardina et Grimaldi Principe Firacaridiorum con atto del notaio Salvatore Scibona di Palermo in data 22 luglio 1796. Aveva preteso che il suo nome non apparisse e che l’atto si stipulasse a pro di persona da nominare. Trattandosi di feudo vi fu controversia anche giudiziaria ma alla fine l’alienazione fu approvata dal re (“venditio et dismembratio fuit a Sua Regia Maestate approbata, et confirmata vigore realis diplomatis de die vigesima nona aprilis anni currentis - 1809 - executoriati sub die quinta proximi preteriti mensis maij”). L’investitura fu formalmente ineccepibile:  il mandatario  fecit, flexis genibus juramentum, et homagium debitae fidelitatis, et vassallagij manibus, et ore commendatam in forma debita, et consueta juxta , sacrarum huius Regni constitutionum imperialium, continentiam, et tenorem in manibus, et posse eiusdem Excellentissimi domini de Migliorini illud recipientis nomine et pro parte Suae Regiae maestatis Ferdinandi (D.G.) regis utriusque Siciliae, Hierusalem, Hispaniarum, Hinfantis Ducis Parmae, Placentiae, Castri mani haereditarii Etruriae Principis, eiusque heredum et successorum in perpetuum ...” Il titolo baronale era dunque inattaccabilmente legittimo, la vetustà, magari .. Ma Sciascia non sottilizza, stronca e passa oltre. Del resto come storico locale, poco gli importa dell’esatteza di ciò che afferma se ciò gli offre il destro di un aforisma, di un’acidula insinuazione, di un’atavica vendetta, di una fantasmagoria, di un apologo. Sono pronto a sostenere il linciaggio, anche nel nostro circolo Unione, se queste mie note verranno mai alla luce.



Il neo eletto consigliere provinciale non era come compravano questi dati anagrafici del matrimonio del Tulumello con donna Maria Angelica Messana:


1842
23/11/1842
TULUMELLO Dr. D. GIUSEPPE DELLI FURONO BARONE D. LUIGI
GRILLO D. MARIA
MESSANA D. MARIA ANGELA DEL FU CALOGERO E
NALBONE D. LUCIA
 Atto Matrice N.° 86


Ecco cosa scrive E.N. Messana sulla nobile consorte: «Luigi [Messana era un] borghese arricchito dell’ultimo ‘700 attraverso il commercio degli zolfi, la somministrazione del conte, che tenne per molti anni, e l’esazione, più tardi della tassa del macino. Don Calogero Messana era stato fatto speziale dal padre Luigi. La ricchezza ereditata dal padre gli consentì di sposare, con lauta dote, l’unica figlia Maria Angela al barone Giuseppe Tulumello, divenuta poi madre di Luigi ed Arcangelo che incontreremo nel corso di questo scritto.»

Giuseppe Tulumello non era dunque figlio di Giuseppe Saverio Tulumello,  l’unico ad avere davvero diritto al titolo di barone. Ma pare che questi morì (l’11/1/1858) senza eredi ed il titolo passò a Luigi Tulumello, il nipote del fratello Luigi. 

Alla fine del secolo XIX, proprio sul punto del declino definitivo della potente famiglia, i tanti Tulumello ancora sulla breccia erano i seguenti:

n. ° lista commerciale
n.° lista politica
Cognome
Nome
paternità
data di nascita
Attività comm.
285
493
TULUMELLO
LUIGI
fu Giuseppe
 25 luglio 1850
Negoziante di zolfi
286
494
TULUMELLO
NICOLO'
fu Giuseppe
10 febbr. 1853
Idem
287
495
TULUMELLO
SALVATORE
fu Giuseppe
31 dic. 1860
Idem
288
496
TULUMELLO
ARCANGELO
fu Giuseppe
13 sett. 1865
Idem
289
497
TULUMELLO
NICOLO'
fu Luigi
14 ott. 1844
Idem
290
498
TULUMELLO
SALVATORE
fu Luigi
18 aprile 1847
Farmacista
291
499
TULUMELLO
VINCENZO
fu Luigi
16 giugno 1839
Neoziante di Cereali.
292
500
TULUMELLO
GIUSEPPE
fu Vincenzo
4 ott. 1851
Negoziante di zolfi.
293
501
TULUMELLO
GIOVANNI
fu Vincenzo
18 dic. 1853
Idem.
294
502
TULUMELLO
BIAGIO
di Giuseppe
27 aprile 1865
Idem.


Si può star certi che tutti i dieci magnifici Tulumello fossero soci del Circolo Unione; ne dominassero le assemblee, impallinassero gli sgraditi, ricoprissero le cariche di prestigio. Ancora negli anni ’50, in piena decadenza nobiliare, erano il sale del circolo. S’ispira a qualche membro della famiglia Sciascia quando tratteggia nelle Parrocchie di Regalpetra la satiriasi senile del barone Lascuda. I più anziani del sodalizio sono ancor oggi in grado di farvi nome e cognome - quelli veri - di ognuno dei coloriti personaggi sciasciani del Circolo della Concordia. A Sciascia è stato perdonato il dileggio del circolo: una simile infamia a nessuno mai è stata consentita; a nessuno  si consentirà mai.

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