giovedì 9 aprile 2015

Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto


Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto

 

Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita :

Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se  criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...

Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali conoscenze.

Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe. 

LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO

 

Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del  protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.

Abbiamo sopra accennato ad alcuni interessanti atti dell’archivio di Stato di Palermo: vi dedichiamo ora una trattazione un po’ più lunga per l’interesse che rivestono., citati la volta scorsa, ci riportano un efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico: 

diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro  Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo,  diabolico  spiritu ducti,  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  La qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono.

Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione  dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.

 

PARTE TERZA

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO

 

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.

ANTONIO I DEL CARRETTO

 

 

 

Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.

ANTONIO II  DEL CARRETTO

 

 

 

 

 

Antonio II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.

In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto inconsistente.

A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.

Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.

Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:

«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».

In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:

«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in

«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»

Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.

 

GERARDO DEL CARRETTO

 

 

 

 

Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.

Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.

Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano.  Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.

In un atto dell’anno prima ()  era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.

 

MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto

 

 

 

Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.

Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.

Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo () ne fornisce indubbia testimonianza.

 

 

Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.

Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappicifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.

Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che questi finisse proprio male.

La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.

Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.

Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.

Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.

La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.

La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma () del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio (): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa nelle mani di  Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. () 

Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:

"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio  de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”

Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.

Il diploma prosegue:

"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.

Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.

Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.

E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.

Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.

Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.

La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?

La chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.

Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria () che ha modo di narrare:

«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...

Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ()

 

Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto

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