sabato 25 aprile 2015

La trasuta di li miricani a Racalmutu (Racalmuto Liberata).


La trasuta di li miricani

Mini storia racalmutese

 

 

di CALOGERO TAVERNA

APPARECCHIU MIRICANU ....
di Nicolò Falci

 

APPARECCHIU MIRICANU ...
(“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”
Passanu ‘n cìalu tanti aeroplani
e ‘n testa a mia pinzera luntani
(su comu granci ca vannu ‘nnarrìari)
e mi riviju carusu arrìari.
La guerra aviva finutu d’allura.
A lu paisi la vita era dura
e ni li gruìcchi ancora guzzìava
l’ecu di bumma ca ‘n terra scuppiava.
L’allavancavanu li miricani
-ca chini avivanu l’aeroplani-
p’arrigalari la dimucrazìa
a la Sicilia, a l’Italia mìa.
Ma tutti sannu ca a li carusi
-pi fari un juacu cu antri vavusi-
ogni occasioni ci duna lu spuntu,
comu la cosa ca ora vi cuntu.
Si n’apparecchiu passava, vulannu,
li picciliddri, currìann’e ridìannu,
‘n coru cantavanu na filastrocca ...
... ... ma chiddru già era junt’a Milocca!
(((“apparecchiu miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”))).
Passa lu tìampu ma li miricani
bumm’arrigalan’a cu voli pani,
dimucrazìa pinsannu di dari
a cu cujetu vulissi arristari.
Spirassi, allura, ca ddri picciliddri,
ca hannu pi tettu sulu li stiddri,
uguali a nantri putissiru fari
e ddra canzuna assìami cantari:
ca ddr’apparecchi ca volanu gantu
ad iddri ‘un portanu lacrimi e chiantu:
eranu fansi, ma ora su mansi!
Genti trasportanu ni li so’ panzi,
genti pacifica ca viaggia in paci
e pò firriari unn’è ca cci piaci.
Chista è la spranza ca tutti avìammu,
ed è cosa fatta si lu vulìammu.

 

 

 

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Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15 o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di Via Fontis dei documenti (divenuta poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni, marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio; altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.

“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri. “Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una folgorazione: “viva gli americani”. Figli di taliani sunnu. Abbasso il duce, stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a Racalmuto”.

cannuni-popo

 

Sciascia sapidamente irride al noto proclama Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato. Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è poi malanno esiziale.

A leggere le invocazioni roattiane non si può non dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò l’essere  stato mio nonno disperso di guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37 anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula; stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al fronte che lu cuocciu di la littra ce l’aveva.

Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va  … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa “mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.

Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe  a morire per le mitraglie americane sol perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo: altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli anglo-americani. Brava gente si vorrebbe  oggi.

A far levare l’abito monacale e farla vestire da cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella casettina di la Curma, mia nonna, la figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni e Luigi.

Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non interessava ad alcuno:  sia pure vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane – non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale. Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino genuino era; nutriente. Favi, ciciri, piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.

 

Quella storiellina del contadino e dell’arciprete va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete – finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta. La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella condanna a dispetto.

I due giovanottoni, per essersi acquistata una buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico,  alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già quando come dice Sciascia in fuoco all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con Berlinguer, Guttuso  e lo scrittore finì in tribunale ma ancora non c’è sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso. Il giornalista  racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.

In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43, l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime in articulo mortis  avevano accettato quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»

Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu, che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che  tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”, vi fu qualcuno che, dopo,  impedì la deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore (fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate da don Pinu Matina, per me un gran signore, un “galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione. Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche. D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino  impettito nella signorile poltrona del Circolo.

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Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo un po’ pudiche nella parte finale.

 Prende subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra  ma se si cimentano nelle cose della storia, sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»

Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria. Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in  Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi, presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra, stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939 parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del padre.  Ritornerà in Italia il 29 giugno 1945.  Parte ventunenne, ritorna trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma  appena settantaquattrenne muore di cancro, dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a 37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero, col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia nonna però preferiva quella della straduzza di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per intesa; credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie aveva.

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Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.

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