lunedì 9 marzo 2015

MalgradoTutto chiama questa mia CONTROSTORIA

Da una cervellotica congettura all'altra, povero toponimo di Racalmuto. Da ultimo. dovendosi spendere e spandere fondi regionali (quando però la Regione ne aveva tanti di fondi) un paludato arabista  riduce Racalmuto in un esotico Rahal-mudd , e così ci fa diventare Paese del Mondello  meglio Paisi di lu Munnieddru.
 
Munniedru un tempo munnizzara stratartassati oggidì,  progressi non è che ne facciamo tanti.
 
Ho sbattutu la testa con diplomi, fonti scritte, escatolli riportati e le verità cui sono arrivato sono queste. Racamuto non è stato MAI Rahalmaut e pertanto sia buona pace al Picone (l'avvocato ottocentesco oriundo racalmutese);  cervellotica congettura la sua, quella di  farc divenire  paese dei morti; no, grazie, manco se ingentilendo dovesse optare per i paese del silenzio.
 
 
Quindi - taccia o non taccia - niente uomo nudo che i settecenteschi satrapi  borbonici hanno appioppato al loro massonico stemma di Racalmuto: il silenzio non ci riguarda, l'omertà non è roba nostra (anzi da ultimo siamo diventati talmente loquaci - vudieddra lisci -  da far fare tanta fortuna a troppi rampanti magistrati antimafiosi per lucro). Tinebra Martorana  può sbracciarsi quanto vuole, gridare"per verità storica e per santo orgoglio cittadino, noto e son sollecito dichiarare ai racalmutesi che lo stemma del nostro Comune, dipinto come è attualmente al teatro, al palazzo di città ed in qualche altro edificio pubblico, deve  ritenersi in parte come falso e bugiardo. Questo simbolo umiliante di uomo nudo, che, con una mano si gratta la pancia  o segna una torre e con l'altra impone il silenzio, deve essere modificato". Tinebra Martorana gridi pure ma se si vuole correttezza storica si rievochi lo stemma che il D'Asaro (forse lui) dipinse all'Itria e cioè uno scudo con bande rosse e gialle (i colori del nostro paese) in numero delle migliaia di anime che oggi sarebbero manco nove.
 
 
Altra mia verità riguarda l'esclusione di ogni servaggio di Racalmuto ai vari Kamuth agrigentino o narese che fosse, Barrersi, Malconvenant. Antonino del Carretto marchese di Finale Ligure e via discorrendo. Se un primo nobile signore ci piace accreditarci, onoriamo allora quel tl Musca venuto forse da Modica.
 
 
Io ho da combattere non con le tradizioni della zia Ermenegilda o Carolina ma con fonti letterarie e queste mi fanno molto sbandare. Ma una logica, una trama sia pure congetturata seppure non cervellotica l'ho riformulata tra me e me.
 
 
Racalmuto dunque per me è PRE SICANA (sette mila anni fa) attorno e sotto la Grotta di Fra Diego, greca, tra lu Pizzo di Don Elia e l'ipogeo delle Grotticelle, romana da lì, lì, sino allo Zaccanello e dintorni ove v'era una delle tante stationes lungo la via Antonina da Agrigentum sino al Casale in Piazza Armerina. Quindi bizantina con notevole necropoli (oggi del tutto negletta) tra il Ferraro e Vriccico.
 
Il tesoretto bizantino alla Montagna complica ancor di più la mia voglia di certezze storiche. Quindi gli arabi, meglio i berberi, gli antenati degli odiati odierni  isis libici.
 
 
Ove si insediarono codesti berberi? Non credo che fossero tanti. Ad ogni modo vorrei stravolgere l'Idrisi e pensare  e dire che Gardutah - leggendo il toponimo come lo legge l'Amari, e c'è da dibuarne - riguardasse proprio l'antenato di Racalmuto,  che fosse peraltro il toponimo di una contrada che mi pare padre Salvo fa proprio derivare da codesto Gardutah, e cioè  GARGILATA (ma attenzione perché no: Garamoli?).
 
Congetture comunque e qui davvero ci avviciniamo alle deprecate dal Garufi cervellotiche congetture.
Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli   Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.

Il Garufi annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « ....  l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tut­tavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».  ([1]) Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ([2]). Il Rachal Chammoùt (ύ del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto.  E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant  domino illius agri extructum...” ( [3]) «A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento,  da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.

Svanisce così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.

Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ([4]). Il Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone  più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([5]). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([6]). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor»  ([7]) cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.

I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([8]) Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ([9]) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.

Fu a seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([10]) Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge  maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio,  Gerardo e Matteo del Carretto. ([11]).

La narrazione sinora soltanto abbozzata  tende  ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.

Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia  secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([12])  Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith ([13]) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.

Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).

Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani. 

E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503,  così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse  per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.








[1]) Carlo Alberto Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEU­DALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA, parte II dell'articolo, in ARCHIVIO STORICO SICILIANO, anno 1947, pag. 34.



[2]) Vincenzo Di Giovanni: Il Monastero di S. Maria di Gàdera, poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi, in Archivio Storico Siciliano 1880  pag. 15 e ss.



[3]) Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie della Chiesa Agrigentina - pag. 758.



[4]) Registri della Cancelleria Angioina - vol VIII - n.° 209 - Napoli 1957.



[5]) Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di Aragona - pag.295.



[6]) Henri Bresc, Un monde méditerraneéen.  Économie et société en Sicile - 1300 - 1450 - Regione Siciliana Assessorato ai Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione - Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo  - 1986, Tomo I, pag. 64.



[7]) Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di Aragona - pag. 9 e 364.



[8]) Scrive il Pirri  «cum Agrigentina ecclesia propter bellum Saracenorum et propter amissionem villanorum, quibus quondam Fridericus Imperator eamdem ecclesiam spoliavit, eos in Apuliam tranferendo, tum propter alia gravamina, quibus tam dictus Fridericus quam officiales sui supradictam ecclesiam vexaverunt, ad eam tenuitatem et inopiam devenerit ut dictus episcopus [Rainaldo d’Acquaviva] non haberet unde se et ecclesiam suam sustentaret, ei concessit omnes redditus et proventus judaeorum et tintoriae civitatis Agrigenti.. » Cfr: Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie della Chiesa Agrigentina - pag. 704.



[9]) ibidem



[10]) Scrive il Surita: « a onze del mismo mese de Noviembre  [1282] Federico Musca conde de Modica , que estava en la Escaleta, con gente de guerra, y tenia cargo de la costa de Catania, y del val de Noto, embio cinco mil almogavares a Calabria contra los lugares vezinos de Rijoles.» Cfr.: ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:  ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro IIII de los Anales - MCCLXXXII - De la passada de los Almogavares a la Corona, y del destroçio que hizieron en la gente de armas que alli estana. XXVII (pag. 253).



[11]) «Praedictus dominus Gerardus - recita un diploma dell’archivio palermitano - tamquam primusgenitus habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam etiam  hereditatis magnificorum  quondam domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici  domini Jacobinj de Carretto eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et etiam quocumque alio iure  competente domino domino Gerardo aliqua ratione occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris, et eius territorio castro et casali nec non in bonis burgensaticis ....».



[12]) AA.VV.: Pietro D’Asaro, il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.

 



[13]) Denis Mack Smith: Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1973 - vol. I pag. 207.

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