martedì 17 marzo 2015

LADRI E BRIGANTI, BARONI E CONTI ALLA FINE DEL MEDIOEVO RACALMUTESE


LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO

 

Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del  protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.

Abbiamo sopra accennato ad alcuni interessanti atti dell’archivio di Stato di Palermo: vi dedichiamo ora una trattazione un po’ più lunga per l’interesse che rivestono., citati la volta scorsa, ci riportano un efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico: 

diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu  dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro  Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali  quasi  a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non  havendu  timuri alcuno di iusticia. Immo,  diabolico  spiritu ducti,  tagliaro  la lingua et altri menbri et  ruppiro  li  denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu  gettaru  in una fossa et copersilu di pagla et  gictaru  foco petri  et  terra.  La qual cosa essendo di  malo  exemplo  merita grande  punicioni et nui tali commoturi di popolo et  delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di  la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo  provisto per  sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi  et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et  comandamo che  vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et  cum quilla  discrepcioni  lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti  et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de  tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum  diligencia  et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati  prindiri de  personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo  dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili  in  lu castellu di la dicta chitati in modo  chi  non  si pocza  di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che  a  lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni  in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di  lo  dicto gippuni e di tucta laltra roba libri  et  scripturi diligenti  investigacioni  et perquisicioni cui li  prisi  et  in putiri  di chi persuna sono.

Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione  dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.

 

PARTE TERZA


PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO


 

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.

ANTONIO I DEL CARRETTO


 

 

 

Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.

ANTONIO II  DEL CARRETTO


 

 

 

 

 

Antonio II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.

In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto inconsistente.

A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.

Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.

Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:

«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».

In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:

«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in

«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»

Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.

 


GERARDO DEL CARRETTO


 

 

 

 

Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.

Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.

Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano.  Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.

In un atto dell’anno prima ([1])  era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.

 

MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto


 

 

 

Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.

Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.

Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([2]) ne fornisce indubbia testimonianza.

 

 

Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.

Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappicifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.

Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che questi finisse proprio male.

La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.

Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.

Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.

Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.

La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.

La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([3]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([4]): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa nelle mani di  Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. ([5]) 

Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:

"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio  de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”

Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.

Il diploma prosegue:

"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.

Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.

Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.

E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.

Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.

Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.

La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?

La chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.

Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria ([6]) che ha modo di narrare:

«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...

Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ([7])

 

Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto

 

 

GIOVANNI I DEL CARRETTO


 

 

Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto fosse feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto imperio. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.

Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo vaghi dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:

magnificus dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice et quiete et de hoc  fuit et est vox notoria et fama publica et ..

 

dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..

 

ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica  etc. ..

 

Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del Carretto.

Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a dubitare, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo lo stesso Bresc - delle proprie fortune.

Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una lettera  da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.

Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto:  v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come segue:  30 once in contanti e dieci a compensazione  di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.

Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.

Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte.

 

 

 

Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». ([8])

Sarebbe da rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto  affidata a Gispert d’Isfar.

Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).

FEDERICO  DEL CARRETTO


 

 

Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.

Non possiamo dubitare che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).

“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:

«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([9])

Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:

n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;

n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;

n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;

n e del pari restino riservate  alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;

n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.

Per il resto possesso assoluto sino al mare.

Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana. ([10])

Sempre il Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi,  Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».

 

GIOVANNI II  DEL CARRETTO


 

 

 

La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.

Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo di dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali fossero quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.

Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore  [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([11]).

Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli ([12]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio

Quando sia avvenuta quella vendita non ci è noto; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua.» ([13])

Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto  - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:

«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»

ERCOLE  DEL CARRETTO


 

 

 

E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano “conte”. Il Barberi annota su di lui:

«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700

Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.

Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il passaggio : al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.

 Settecento once di reddito - a meno che non trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che sia, Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del Carretto - ha un salto quantitativo, un sussulto verso il grande centro. Nostri precedenti studi ([14]) hanno messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notate in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.

La venuta della Madonna del Monte


 

 

Era persino sorto un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna del Monte. Sciascia è caustico:  «correva l’anno 1503, ed era signore di Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché proprio al professore, perché al del Carretto,  perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti, di intelligenti e di imbecilli.» ([15]) Ma è proprio lui che poi negli Amici della Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi siamo legati.

Ma neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del paese: così il barone Ercole del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([16]) Osta se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio 1771  ed a quella data la saga era ben salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago” (immagine molto miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di Racalmuto. ([17])  Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo - recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.

 

Tratti anagrafici di Ercole del Carretto


 

Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tal Marchisa di cui ignoriamo il casato.

Dal processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare questi altri dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.

 

Nel suo processo d’investitura si legge che:  a «Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius legitimus et naturalis.» ([18])

Crediamo che il noto giurista operante a Racalmuto, Artale de Tudisco, fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile del suo  entourage fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»

Testimoniò anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il “nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i “nobili” Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.

Il cennato processo include anche uno stralcio del testamento di Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino:

«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.

 

«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.

 

«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.

«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,  secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.

«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.

«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»

 

Il testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III. Ercole poté avere contratto altre nozze ma non ne sappiamo nulla. 

Paolo del Carretto


 

Di quale madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella rinomata Palermo restaurata? Siamo propensi ad avvalorare l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel 1630 circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni  scrisse per sé secentesche memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e addirittura dal padre di Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano. Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non possiamo esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.

«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.

 

Un giorno volle il Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e ne morsero dall’una e dall’altra parte.

 

Ma il Carretto, investendo il suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.

Satisfatti perciò i nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.

Del che fattosene relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.

 

Sentì gravemente il successo D. Giovanni Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.

 

In quel tempo era nella città di Naro Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li quali faceva allo  spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.

D. Giovanni del Carretto, figlio del predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.

Gli promise buona opera Enrico; e perché si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti, presi ed uccisi.

E se ne presero le teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in quei tempi.

 

N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»

“Più solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa che possa avere il suo congetturare sulla genesi della saga della Madonna del Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero fratello del barone Ercole.

 Probabile invece che una volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della vetusta e pia memoria  della “venuta” di quella adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.

Il canto popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - , “intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà mmasciata”, il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica altura della omonima chiesa.

 

GIOVANNI III DEL CARRETTO


 

 

Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.

Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.

Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)

 



[1] ) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[2] ) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[3] ) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[4] ) Rosario Gregorio fu storico e paleologo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso  delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[5] ) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[6] ) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[7] ) [Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
 
[8] ) Per ACA  Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria.  Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29.
[9]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N.    1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[10] ) Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
[11] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi 1512-20  - f. 284v 285r
[12] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol. I - pag. 386 e segg.
[13] ) Il conto enne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentate Pa. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[14] ) Giuseppe Nalbone e Calogero Taverna, Racalmuto in Microsoft - dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[15]) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra  - Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[16])  Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986, pag. 35.
[17] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Registro Vescovi 1686 - f. 785.
[18]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).

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