mercoledì 16 aprile 2014

per non parlare sempre di politica


Programma del seminario su

Dioniso e il dionisiaco in Nietzsche

 

(Dott. Gianfranco Bertagni)

 

 

 

 

 

1) Maurizio Ferraris (cur.), Guida a Nietzsche, Laterza, 1999, pp. 90-107;

 

2) Renato Saviane, Il bello, il dionisiaco (Schiller-Nietzsche), Olschki, 1995, pp. 49-90;

 

3) Maria Ausilia Simonelli, Alle radici del dionisiaco nietzscheano, in «Il Canocchiale», n.1-2, gennaio-agosto 1982, pp. 33-51;

 

4) Sandro Barbera, Apollineo e dionisiaco. Alcune fonti non antiche di Nietzsche, in: Campioni – Venturelli (curr.), La ‘Biblioteca ideale’ di Nietzsche, Guida, 1992, pp. 45-70;

 

5) Appunti delle lezioni

    oppure (in caso di non frequentanti)

    F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capp. I-XIII (si può scegliere tra l’edizione Adelphi, l’edizione Mondadori e l’edizione Laterza);

 


Dioniso e il dionisiaco in Nietzsche (Appunti per le lezioni)

 

La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo (1872).

Prima opera di Nietzsche. Unica opera di carattere filologico. Unica opera dedicata ai Greci che Nietzsche abbia mai pubblicato (se escludiamo i suoi scritti filologici). Opera inoltre sulla quale probabilmente più che per qualsiasi altra Nietzsche ha lavorato di più, con alle sue spalle un lungo periodo di preparazione e gestazione.

Nel ’72 Nietzsche aveva 28 anni e già ricopriva da 3 anni la cattedra di filologia classica all’università di Basilea. In questo periodo Nietzsche aveva soprattutto due numi tutelari, due autori per cui aveva un’autentica venerazione: Schopenhauer e Wagner. E del loro pensiero risulta per molti aspetti dominata la sua prima opera.

Un’opera certamente su diversi punti contraddittoria, poco sistematica, ma che ha come sue centro di gravità quell’idea (la coppia apollineo-dionisiaco) che sarà un po’ il filo conduttore di tutto il pensiero nietzschiano, fino alla morte del filosofo tedesco. Una coppia che viene formulata per la prima volta in quest’opera e cioè in relazione al problema della nascita e della morte della tragedia greca.

Torniamo indietro di qualche anno rispetto alla pubblicazione de La nascita della tragedia. Già fin dalla sua prolusione nel presentarsi all’università di Basilea nel 1869 – prolusione dedicata a Omero e la filologia classica – e anche nelle conferenze dell’anno dopo sul Dramma musicale greco e su Socrate e la tragedia, Nietzsche si presenta agli occhi dei suoi lettori e uditori come un filologo che intende il suo ‘mestiere’ in modo del tutto particolare, certamente non affine a quella che era la filologia accademica prevalente. Già il Nietzsche filologo fa l’occhiolino – se possiamo dire così – alla filosofia, o quella che lui ritiene essere la filosofia, sotto l’influenza di Schopenhauer.

D’altra parte sappiamo anche che fin dal 1868 egli nutriva dei dubbi sulla sua vocazione di filologo, dubbi che fanno vivere Nietzsche nell’ambiente filologico dei primi suoi anni di insegnamento come un estraneo, come ammette lui stesso in alcune sue lettere.

Soprattutto è l’idea di filologia come studio dell’antichità in sé e per sé, la filologia come mero lavoro antiquario, la necessità di un distacco tra il filologo e il suo oggetto di studio (distacco necessario ad una supposta oggettività dello studio medesimo) a risultare insopportabile per Nietzsche. La filologia classica è un tradimento dello spirito stesso del classicismo: cioè non guarda più all’antico come modello da imitare, ma semplicemente come un repertorio di oggetti di studio. Quindi Nietzsche rigetta l’idea di filologia come ricerca obiettiva intorno all’antico: rigetta cioè l’intero impianto della filologia professionale.

Per Nietzsche in questo periodo l’apporoccio filosofico è qualcosa che parte da un certo modo di fare filologia, di pensare la filologia, in direzione di una critica della cultura attuale. E infatti La nascita della tragedia è contemporaneamente una reinterpretazione globale della Grecità, un’originale proposta filosofica ed estetica, una critica della cultura del tempo e un progetto di rinnovamento della stessa. Tutto questo universo ruota attorno alla scoperta fondamentale presentata in quest’opera, e cioè la coppia apollineo-dionisiaco.


Il primo capitolo dell’opera inizia con queste parole: “Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti ... all’immediata certezza dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa tra loro e in riconciliazione meramente periodica”.

Ecco, qui subito Nietzsche introduce le due categorie apollineo e dionisiaco, e ancor prima di spiegare di cosa si tratta, dà una definizione della storia dell’arte (greca, ma non solo, nella misura nella quale l’arte greca dovrebbe essere modello di qualsiasi altro tipo di arte che voglia dirsi tale: e poi qui parla di “storia dell’arte” in generale) come una storia dell’eterno contrasto tra queste due categorie, un contrasto che solo temporaneamente si trasforma in un’armonia, per poi ritornare ad essere ancora contrasto.

Poco dopo, per entrare nel merito di che cosa siano effettivamente il dionisiaco e l’apollineo, Nietzsche usa la parola “istinti” (Triebe): già qui capiamo la lontananza dell’impostazione nietzschiana dalla filologia accademica. “Istinti” fa parte di un vocabolario proprio della psicologia, magari della filosofia, ma non certo dell’armamentario della filologia greca.

Questi due istinti, se sono tali, hanno una valenza che supera il mondo greco antico. Vediamo allora che già fin dalla prima pagina il discorso di Nietzsche parte dalla Grecia, parte da un problema anche storico-estetico (capire il senso dello sviluppo dell’arte), ma per andare subito a toccare qualcosa di molto più vicino all’uomo rispetto a quella che potrebbe apparire l’indagine filologica classica, e cioè facendo un discorso relativo agli istinti che lo costituiscono e che si manifestano nella storia.

Questi due istinti – dice Nietzsche – costituiscono un grande contrasto nel mondo greco. E cioè da una parte abbiamo l’arte figurativa, quella di Apollo, e dall’altra l’arte non figurativa per eccellenza – che è la musica, legata alla figura di Dioniso. La storia dell’arte greca è costituita da questo contrasto, sempre rinnovato e risultante in situazioni e momenti artistici sempre nuovi, fino a un momento nel quale apollineo e dionisiaco compaiono armoniosamente accoppiati tra loro, che è il momento della tragedia attica, quell’opera d’arte nella quale dionisiaco e apollineo sono equilibrati perfettamente.

Un altro accoppiamento che Nietzsche istituisce con l’apollineo e il dionisiaco, legato strettamente alla dicotomia tra arte figurativa e arte non figurativa, è con i mondi del sogno e dell’ebbrezza. Dice Nietzsche: il mondo del sogno è legato all’arte figurativa (anche di buona parte della poesia). Mentre quello dell’ebbrezza è legato all’arte non figurativa, la musica. Cioè nel sogno l’uomo è l’artista del sogno medesimo: è il perfetto artista della sua creazione. E quindi il sogno è il presupposto di ogni arte figurativa. Anche nella massima intensità della vita in sogno, l’uomo comunque mantiene la sensazione che questa realtà che lui sta vivendo è pura apparenza. E allo stesso modo, l’uomo dallo spirito filosofico ha il presentimento che dietro alla realtà nella quale viviamo, ve ne sia un’altra davanti alla quale la nostra realtà è pura apparenza. In quest’affermazione nietzschiana ovviamente agisce il fascino per la filosofia di Schopenhauer.

L’uomo artista impara e gode nel contemplare la realtà del sogno e attraverso questa realtà egli si spiega la sua vita reale: anche qui agisce in Nietzsche un’impostazione evidentemente romantica. Ma egli non si chiude in questo tipo di riproposizione di un approccio di certo ottocento tedesco. La contemplazione della realtà del sogno non si riduce a puro atteggiamento estetizzante volto alle belle forme e tipicamente neoclassico. No, l’artista contempla insieme alle immagini amene anche ciò che è luttuoso, cupo, sinistro, angosciante. Perché la realtà del sogno è fatto di tutto questo, ha al suo interno tutta una serie di situazioni e stati d’animo opposti. Inoltre questa contemplazione dell’animo artista non si riduce ad un’osservazione distaccata, ma in una piena identificazione: egli vive, gode e soffre quelle scene di sogno che gli scorrono davanti. Mantiene sempre la vaga impressione di vivere un mondo di apparenza, ma non di meno ne è letteralmente partecipe.

Apollo non sarebbe altro che l’impersonificazione che i greci hanno dato a questa necessità di imparare dal sogno, secondo Nietzsche. E infatti Apollo è il dio delle arti figurative, è la bellezza divina più eccelsa, ma è anche il dio della profezia, cioè il dio che ha da insegnare all’uomo, che gli comunica parole che sono di utilità alla sua vita. Questa dimensione si contrappone a quella della vita reale, che certamente non è fatta di pura bellezza, e si contrappone ad essa bilanciandola. In altre parole, sono le arti che rendono la vita meritevole di essere vissuta – o al limite, tollerabile. Apollo è anche il dio della forma, della misura, dell’equilibrio. In che senso? Nel senso che non arriva mai a vivere stati interiori sfrenati, sregolati. Anche quando Apollo si adira – dice Nietzsche – lo fa mantenendo attorno a lui un’aura di bellezza e di armonia delle forme. Così come nel sogno: la realtà sognata non può oltrepassare un certo livello senza che questo non abbia un effetto patologico. Per questo anche il discorso che fa Nietzsche sul fatto che anche chi sogna sa, con una parte di sé, che sta vivendo in un mondo di pura apparenza, e questo gli permette di vivere quello che sogna, ma senza essere troppo catturato “dentro” al sogno stesso.


La scorsa volta abbiamo parlato, alla fine della lezione, di Apollo, delle sue caratteristiche e di come Nietzsche se le e ce le spieghi; del suo legame con il mondo del sogno e di come, così come nel sogno l’uomo è impercettibilmente consapevole che la realtà che sta vivendo è apparenza, così anche la realtà apollinea sia tale e Apollo reagisca, durante le sue vicende, in un modo attutito rispetto alla completa estrinsecazione dei sentimenti e delle emozioni, come se attorno a lui risplendesse continuamente l’aura dell’apparenza.

Per quanto riguarda invece la realtà dionisiaca, essa realizza la riconciliazione tra l’uomo e la natura, e anche tra uomo e uomo. Quella natura vista come estranea, spesso ostile, separata dall’uomo, nell’evento dionisiaco, viene vissuta immergendocisi. Si va al di là dell’apparenza, dell’apollineo cioè, del fenomeno; e nel momento nel quale ci si trova così svincolati dal mondo delle forme, si è anche in preda al panico, al terrore. Per questo il modo in cui Nietzsche tratteggia il dionisiaco ha ben poco di consolatorio o di romantico. L’essenza del dionisiaco, dice Nietzsche, è accostabile tramite il confronto con lo stato di ebbrezza. Nell’ebbrezza dell’ubriacatura il soggetto scompare, perde la sua consapevolezza di soggetto: e così anche nel dionisiaco; anche nell’ebbrezza vissuta dalla potenza della primavera, l’intera natura risulta compenetrata di questa “atmosfera”.

La realtà dionisiaca non è poi tipica solo del mondo greco. Nietzsche segnala e fa paragoni con il medioevo tedesco, nel quale i danzatori estatici di San Vito o di San Giovanni cantano e ballano, come se fossero i cori dionisiaci greci; fenomeni analoghi – continua il filosofo tedesco – avvennero nell’Asia Minore e anche a Babilonia e nelle feste orgiastiche sacee (le sacee erano feste orgiastiche che si celebravano a Babilonia per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo). Quegli uomini che ridono di questi fenomeni, che li catalogano tra i fenomeni propri del popolino, della volgare anima di quegli spiriti non eletti, non elevati intellettualmente, coloro i quali ritengono che questi fenomeni siano da relegare alla stregua di malattie popolari, di psicopatologie, sono persone in realtà che non centrano il bersaglio, che per eccesso di freddezza non colgono la potenza del dionisiaco. Quella che pretendono essere la loro sanità in realtà appare come situazione cadaverica, morta, spettrale, nel momento nel quale passa vicino a loro la processione vitale e ardente dei dionisiaci. Tutto viene dissolto nel dionisiaco: le barriere vengono spezzate, i limiti infranti, i bisogni dissolti, il libero arbitrio svuotato. È, come lo chiama Nietzsche, il “Vangelo dell’armonia universale”: in esso “ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma si sente fatto uno con lui, quasi che il velo di Maia fosse squarciato e svolazzasse non più che in brandelli davanti al mistero dell’Uno primigenio”. Nel dionisiaco, nel raptus musicale, nella danza, nel canto l’uomo partecipa di una dimensione divina, magica: è rapito e sublime, così come vede essere gli dèi in sogno. Non c’è più distanza nemmeno tra lui e l’opera d’arte: non c’è più artista da una parte e opera dall’altra, ma lui stesso diviene l’opera: nell’ebbrezza tutta la natura diviene opera d’arte, beatificazione dell’Uno originario, e l’uomo si sente completamente immerso in essa.

A questo punto vediamo che apollineo e dionisiaco non sono solo istinti presenti nell’uomo, ma qualcosa che agisce anche nella dimensione più vasta della natura. Davanti alla natura, ai suoi impulsi, l’uomo diviene un artista essendone imitatore: artista apollineo del sogno da una parte, artista dionisiaco dell’ebbrezza dall’altra, oppure ancora: artista dell’ebbrezza e del sogno insieme, cioè nel caso della tragedia greca. In quest’ultimo caso è come se l’uomo vivesse la dionisiaca ebbrezza e la mistica alienazione di sé, rimanendo però solitario, appartato rispetto ai cori deliranti operanti nella tragedia stessa. La dimensione perfettamente apollinea dei sogni sognati dai greci è poi ampiamente dimostrata – secondo Nietzsche – dalla loro virtù plastica riscontrabile soprattutto nella scultura: un’arte sopraffina, che trasmette una così alta serenità e precisione, che non può che farci presumere che anche i loro sogni (appunto il modello dell’arte plastica stessa) fossero alimentati da un ordine e un’armonia tra forme, linee, colori, ecc.

Per quanto riguarda invece l’aspetto dionisiaco presente nell’anima greca è importante ricordare che esso non si confonde con i seppur simili fenomeni presenti nelle altre culture arcaiche. È vero cioè, come abbiamo già ricordato, che esistono fenomeni analoghi in altri contesti, fenomeni dionisiaci a Roma come a Babilonia. Fenomeni che sono accomunabili dal fatto che quasi sempre vigeva in queste situazioni, in queste feste, la sregolatezza in campo sessuale, per cui ogni legge etica, ogni ordine famigliare veniva eliminato, messo a tacere seppur temporaneamente. Ora però questo aspetto, questa scostumatezza propria dei popoli barbari soprattutto, non è presente nei Greci. (Ricordiamo che Nietzsche quando in questi casi usa la parola “barbaro”, la intende alla greca – e anche alla romana: cioè chi non è greco – romano –, chi non parla il greco – il latino: lo straniero. Inutile ricordare il legame tra l’essere straniero e Dioniso). Perché questa scostumatezza non è presente nei Greci? Come si spiega? Molto semplice: appunto grazie alla dimensione propria di Apollo, che agisce all’interno della cultura greca, e che bilancia le veementi scosse di Dioniso. Soprattutto questo aspetto regolativo, calmante, cristallino è rappresentato dall’arte dorica, momento nella storia dell’arte greca nel quale l’apollineo domina sul dionisiaco (ricordiamo che la storia dell’arte è descritta da Nietzsche proprio come un continuo dominio del dionisiaco o dell’apollineo, con la sola eccezione della tragedia).

Le feste dionisiache dei greci, rispetto a quelle analoghe tra i barbari, hanno una dimensione di redenzione universale, di trasfigurazione, là dove invece nelle feste come per esempio le sacee di Babilonia, l’uomo è degradato ad animale. Tra i greci, durante queste feste, l’uomo si reintegra con la natura e la natura si presenta nella sua dimensione artistica, libera e gioiosa. In questi contesti il principio di individuazione, quel principio per cui io sono io e non sono altro da me, viene a cadere, a frantumarsi e la sua stessa eliminazione diventa un fenomeno artistico. In questi momenti le persone che partecipavano a queste feste cantano, ballavano, si dimenavano... e il loro stato era compenetrato di gioia da una parte e spasimo dall’altra. Qualcosa ovviamente di mai visto: la gioia solitamente si distingue dall’orrore, dal terrore, eppure nei dionisiaci queste realtà coabitano, in quanto la musica dionisiaca soprattutto produce stupore, rapimento e terrore contemporaneamente. Se la musica sotto l’insegna di Apollo segue le regole dell’arte figurativa dorica, se essa è la perfetta trasposizione in note dei chiari e cristallini stati emotivi apollinei, la musica dionisiaca invece conduce violentemente l’ascoltatore in un flusso senza inizio e senza fine, senza regole, lo stordisce, squarta il suo senso d’identità, è un vero e proprio torrente che travolge tutto ciò che viene a contatto con esso. Vediamo qui che Nietzsche pone una distinzione tra musica apollinea e musica dionisiaca. Precedentemente la distinzione era tra arte plastica (apollinea) e arte non figurativa, cioè la musica (dionisiaca): però qui la coppia apollineo/dionisiaco sembra tracciare delle distinzioni anche all’interno della musica stessa.

Ovviamente il riferimento di Nietzsche è al ditirambo, cioè al canto corale della lirica greca originariamente legato al culto di Dioniso. Nelle feste in suo onore il coro, accompagnato dal flauto, intonava melodie tumultuose e appassionate, di un carattere orgiastico che era tra l’altro ulteriormente ribadito dalle altrettanto sfrenate danze e mimiche. (Qui naturalmente agisce la classica tesi di Aristotele, secondo la quale la tragedia deriverebbe dal ditirambo). È qui che l’uomo, dice Nietzsche, dà sfogo alla sua completa possibilità di esprimersi; qualcosa in lui di mai provato prima cerca uno sfogo e ciò che gli pulsa dentro è così ingestibile, disordinato, innominabile, informe, che straborda in tutti i sensi: attraverso la mimica, il canto, il ballo, lo scatenarsi completo, ecc. Uno scatenarsi che, come abbiamo detto, necessita un preventivo oblio di sé, per far sì che il velo di maia possa venire squarciato, cioè che la dimensione apollinea venga “aperta”, per inabissarsi in quella dionisiaca. Dietro alla dimensione apollinea, c’è quella dionisiaca: cioè non sono estranee l’una all’altra: la coscienza apollinea è un velo dietro il quale c’è la realtà dionisiaca.

 

Ora, a questo punto Nietzsche si trova di fronte a un problema che potrebbe sorgere nel suo tipo di interpretazione. Cioè: se Apollo è a capo di tutta la civiltà estetico-apollinea – appunto – nella quale ovviamente ritroviamo anche, tra le varie immagini, quelle degli déi olimpici, come mai allora Apollo è in mezzo a loro, non apparendo invece al di là della loro dimensione, o almeno al vertice supremo di essa? Allora Nietzsche dice che questo tipo di uguaglianza tra Apollo e gli altri déi greci in realtà non fa problema: in realtà Apollo è la rappresentazione di quell’istinto che ha prodotto l’intero mondo olimpico e quindi Apollo è in un certo senso padre di tutti gli altri déi. Vedete che, volendo seguire strattamente il processo di un argomentare logico, Nietzsche in realtà non risolve il problema, semplicemente ribadendo un dato della sua interpretazione. Insomma, rimarrebbe la questione del tutto aperta del perché sia Zeus e non Apollo il capo degli déi.

Sempre riguardo agli Déi greci, poi  Nietzsche rileva la netta distinzione tra il loro mondo “morale” rispetto all’interpretazione che potrebbe nascere in un cuore educato per esempio cristianamente e che si ponga a valutare un certo mondo religioso diverso dal suo. Cioè qualcuno si potrebbe aspettare da degli déi sentimenti immutati di serenità, amorevolezza, compassione, ecc.: insomma, l’apice di ciò che si ritiene comunemente l’agire morale. Qui Nietzsche non fa un esplicito riferimento al Cristianesimo, ma è evidente che ciò che ha in mente è soprattutto esso e più in generale la condizione dello spirito che si è realizzata durante tutta la storia filosofica occidentale, a partire – come vedremo – da Socrate: quella condizione secondo la quale c’è distinzione tra morale e immoralità, e per la quale quindi va abbraccia la prima e tenuta a distanza la seconda.

In realtà questo tipo di approccio sarebbe del tutto fuori luogo nel caso greco. Il mondo divino greco è invece fatto di dinamicità, realtà lussureggianti, un mondo nel quale ogni cosa, ogni istinto, ogni sentimento è portato alla sua ennesima potenza, è cioè in questo senso divinizzato, al di là del fatto che sia buono o cattivo. Come si spiega questo fatto? Come si spiega la parificazione a pari dignità del bene e del male sul piano divino? Il motivo è dato nel meccanismo che ha fatto sì che il greco si inventasse il mondo degli déi. I greci vivevano, sentivano gli orrori e i terrori che venivano loro procurati dall’esistenza, dalla loro vita. Allora, per trovare la forza di vivere, di andare avanti, si posero, davanti a loro, il mondo olimpico nella sua bellezza eccelsa: questo mondo serviva per superare la paura immobilizzante del greco di fronte alla forze titaniche, impersonali e cieche della natura. Questa realtà terrorizzante fu cioè nascosta, coperta con l’espediente del mondo olimpico. Infatti, così argomenta Nietzsche, anche nella teogonia greca – Esiodo – si passa dall’era dei Titani (con la loro dimensione impersonale, oscura, terrorizzante) all’era olimpica della gioia. Ed è proprio grazie a questo escamotage, potremmo dire, che il popolo greco, quel popolo così aperto – secondo Nietzsche – alla capacità di soffrire e di provare sentimenti intensi, ha potuto tollerare l’esistenza, appunto potendola paragonare a quella più alta, più luminosa, più bella degli déi. Se bene e male, gioia e terrore, gradevole e sgradevole fanno parte dell’esistenza umana, allora queste coppie di contrari vengono trasferite anche nelle vicende mitologiche, nelle vite degli déi, per dare loro senso di esistenza, bellezza, verità in un certo senso.

 

 

 


L’ultima volta ci eravamo soffermati, alla conclusione della lezione, sul rapporto tra mondo olimpico e amoralità: gli déi, nella loro tumultuosa realtà dinamica, vivono tutto ciò che è vivibile, lo elevano all’ennesima potenza, al di là del bene e del male, trasfigurando ciò nella loro sublime altezza e perfetta luce. Questa realtà apollinea, appunto il mondo degli déi olimpici, permette all’uomo greco di vivere e di affrontare i grandi problemi.

Ecco: questa realtà, appunto perfettamente apollinea, in quale autore, secondo Nietzsche, è stata svolta nel modo più eccelso? In Omero. Cioè Omero è – dice Nietzsche – l’unico artista del sogno, ovvero l’unico artista nel quale l’apollineo, l’apparenza, la realtà del sogno dominano incontrastate, senza praticamente lasciare spazio al dionisiaco: detto in altre parole, Omero è tutto apollineo. Omero è per antonomasia il poeta del mondo olimpico degli déi.

 

Poi Nietzsche torna sul rapporto apparenza/sogno e realtà. Quando una persona sogna – dice Nietzsche – ce la immaginiamo immersa nel suo stato, nel godimento che ne viene e intenzionata a continuare a permanere nel suo sogno: egli si dimentica la realtà quotidiana con i suoi problemi ed è completamente avvolto dalla bella apparenza del suo sogno. Però è anche vero che la realtà, la vera realtà sembra a tutti preferibile a quella del sogno: più importante e l’unica da essere veramente vissuta. A questo punto Nietzsche dice che tuttavia queste due sfere (realtà e sogno) non sono l’una maggiore dell’altra: nella natura stessa agiscono quegli istinti artistici legati al mondo dei fenomeni (cioè all’apparenza); eppure io sento, dice Nietzsche, che agisce in modo sotterraneo quell’Uno primigenio nel quale agiscono le infinite contraddizioni e sofferenze, il quale Uno per essere liberato, cioè per manifestarsi, necessita dei fenomeni, delle visioni, dell’apparenza: quindi della realtà apollinea. Noi siamo completamente immersi nella realtà dell’apparenza, nel suo eterno fluire, però siamo altrettanto consapevoli che essa è in realtà il vero non-essere in rapporto a quell’Uno che costituisce il vero essere. (Ricordiamoci del parallelo discorso che Nietzsche fa riguardo alla consapevolezza dell’uomo che sogna che ciò che sta vivendo è apparenza). Quindi ci è possibile, tramite un’astrazione dalla nostra realtà quotidiana, concepire il mondo da un punto di vista più esterno, più oggettivo e intenderlo dunque “come una rappresentazione prodotta ogni momento dall’Uno primigenio”. La ragione unica del mondo è l’eterno dolore primordiale, l’eterno contrasto; l’apparenza ne è il riflesso, trasfigurato. Nietzsche fa l’esempio della Trasfigurazione di Raffaello: nella parte inferiore c’è il bambino ossesso, con gli uomini angosciati che lo guidano, con i discepoli che non sanno cosa fare: questo è l’eterno dolore primordiale. Nella parte superiore del quadro c’è invece un mondo in cui gli uomini che stanno sotto non sanno nulla. Questo mondo è un mondo di godimento, di contemplazione, di luce, completamente libero da dolore: è il mondo apollineo. In Apollo avviene la deificazione del principio di individuazione, si realizza il fine ultimo dell’Uno primigenio, la sua liberazione attraverso l’apparenza. In questa realtà, dell’Uno, si comprende che tutto il mondo dei conflitti, delle tragedie, dei travagli, è necessario, perché l’uomo venga spinto a produrre la visione liberatrice di tutto ciò, immergendosi quindi nella sua contemplazione.

I greci apollinei vedevano in ciò che non faceva parte della loro visione delle cose – nel titanico (cioè il mondo pre-apollineo) e nel barbarico (il mondo extra-apollineo) – l’effetto prodotto dal dionisiaco, ma comprendevano anche allo stesso tempo che essi erano estremamente affini e vicini a questa realtà. Comprendevano che la loro esistenza fatta di bellezza, di misura, di proporzione delle forme era uno schermo posto sopra a un fondo oscuro fatto di dolore e di contraddizioni. Per usare le parole di Nietzsche: “Apollo non poteva vivere senza Dioniso!”. Tutto era necessario: l’apollineo così come il titanico e il barbarico. E in questo mondo apollineo si manifestò il suono estatico dei festeggiatori di Dioniso e ciò dovette provocare una reazione particolarmente estrema: cioè tanto più la civiltà di allora era apollinea quanto più fu grande il fascino e lo sbigottimento davanti alle esternazioni dionisiache, dove smisuratezza, gioia e dolore si compenetravano vicendevolmente. Le muse apollinee dell’apparenza vennero inabissate dall’ebbrezza e dal frastuono dei dionisiaci; l’individuo, fatto di misure e di limiti, si dissolve nell’oblio di sé – quell’oblio dato dal dionisiaco; si realizzò l’equivalenza tra verità e dismisura.

Dove apparve il dionisiaco, l’apollineo cadde. Ma è anche vero che quanto più forte fu l’azione dionisiaca, tanto più potente fu la reazione da parte apollinea. In questo senso Nietzsche si spiega lo Stato dorico e l’arte dorica: il periodo dorico (VII sec. A.C.) è cioè la reazione apollinea al dionisiaco. Scrive Nietzsche: “Un’arte così fieramente cruda, circondata di bastioni, un’educazione così guerriera e aspra, una costituzione statale così feroce e disumana non è ammissibile che durasse a lungo, se non come una resistenza pertinace all’essenza titano-barbarica dell’impulso dionisiaco”.

Quindi dionisiaco e apollineo hanno dominato la storia dell’ellenismo, attraverso alterni successi dell’uno e dell’altro, e così rafforzandosi l’un l’altro. Dall’epoca del bronzo con le sue titanomachie e la sua saggezza popolare, si è passati all’età omerica e cioè guidata da un senso di bellezza tipicamente apollineo; poi questa situazione fu di nuovo messa in crisi dai festanti dionisiaci, davanti ai quali lo spirito apollineo si contrappose attraverso la concezione dorica. Questo eterno confronto tra apollineo e dionisiaco ha poi la sua conclusione con la tragedia attica e nel ditirambo drammatico, nei quali i due impulsi si equilibrano perfettamente.

Ma la prima volta nella quale, nella storia greca, troviamo una indicazione relativa al bilanciamento tra apollineo e dionisiaco, è – dice Nietzsche – ravvisabile là dove troviamo rappresentati nella scultura Omero e Archiloco insieme, intesi come i progenitori della poesia greca. Abbiamo già detto che Omero rappresenta ed è l’artista apollineo per eccellenza, è il sognatore. Ed eccolo che guarda stupito la testa fremente di Archiloco, preso nel turbine dell’esistenza. Omero è sognante e invece Archiloco ci appare in modo spaventevole, “con il suo grido di odio e di scherno, con lo scoppio insensato delle sue brame”; Archiloco è lirico, mentre Omero è epico. Archiloco rappresenta l’artista dionisiaco per eccellenza: nella sua lirica, egli si immedesima completamente con l’Uno primigenio e con tutti i contrasti al suo interno, e così traduce in termini musicali l’immagine di questo Uno; poi, sotto l’impulso apollineo, questa dimensione musicale diventa a lui visibile come una visione di sogno e così la trasforma in versi. In questo processo l’artista perde la sua individualità e si immerge nel processo dionisiaco fatto di contrasto e dolore. Anche in questo caso Nietzsche si pone agli antitesi rispetto alla critica ufficiale: mentre solitamente si vede in Archiloco quell’autore che non si rifà, per la propria ispirazione poetica, alla tradizione – come avveniva nell’epica -, bensì alla propria esperienza personale, Nietzsche dice che i suoi versi non hanno nulla a che fare con il loro autore nella sua specificità, ma con il suo inabissarsi nell’impersonale vortice del dionisiaco. (Tra l’altro Archiloco dice in un frammento di saper comporre in ditirambo dionisiaco quando è preso dall’ebbrezza provocata dal vino: questo, tra parentesi, è la prima testimonianza di cui disponiamo in cui si fa riferimento al ditirambo).

Da una parte abbiamo cioè l’artista plastico e il poeta a lui affine (l’epico), che sono immersi nell’intuizione delle immagini; dall’altra il musico dionisiaco, che non vede nessuna immagine, che è immedesimato con il dolore che sta vivendo: in questo caso il lirico sente sorgere da questo obnubilamento del sé un mondo di immagini, di simboli che è completamente altro dal mondo dell’artista plastico e dal poeta epico. Quest’ultimo vive piacevolmente le immagini che contempla nel suo stato sognante, per cui anche le immagini rappresentanti stati negativi vengono trasfigurate nella dimensione dell’apparenza e ricevendo questo aspetto apparente proteggono l’artista da una completa identificazione con esse; invece le immagini del lirico si identificano con il lirico stesso, sono oggettivazioni di se stesso, per cui il suo proprio io non è più quello della vita reale, quello soggettivo, ma è quello unico, eterno e universale, vivente in fondo a tutte le cose. Archiloco, nel momento nel quale è infiammato dalle passioni, è intriso di amore e odio, non è più lui stesso, ma è – come dire – universalizzato, cioè esprime il dolore primordiale.

Quindi il vero artista non è qualcosa di soggettivo, ma una sorta di medium, grazie al quale “l’unico soggetto realmente esistente celebra la propria liberazione nella visione artistica”. E solo nel momento della produzione artistica, il genio si fonde con l’artista primigenio del mondo e sa qualcosa dell’essenza eterna dell’arte. Quindi noi – propriamente parlando – non siamo i creatori di alcuna opera d’arte; al limite siamo noi stessi proiezioni artistiche di quell’artista primigenio, e la nostra esistenza, insieme a quella del mondo, è giustificata solo in quanto fenomeno estetico ai suoi occhi.

Tornando poi al rapporto tra musica e lirica, il lirico traduce la musica in parole e concetti. La lirica quindi dipende dallo spirito della musica, mentre la musica non ha bisogno di immagine e di concetti. La poesia lirica non potrà mai dire ciò che già nella sua potente universalità e massima efficienza non è contenuto nella musica. Per questo la musica non sarà mai esauribile nella parola: perché appunto essa si riferisce a quel contrasto e dolore primordiali nell’Uno primigenio, e quindi si riferisce a una sfera al di là di qualsiasi apparenza, per cui ogni apparenza è solo simbolo.

 


Nel settimo capitolo Nietzsche parla finalmente dell’origine della tragedia.

La sua tesi è questa: la tragedia è nata dal coro; in origine c’era solo il coro. Era il coro che costituiva il dramma, e non era affatto quello che si dice oggi, cioè lo spettatore ideale (tesi romantica portata avanti da Schlegel), oppure il simbolo del popolo (tesi questa sostenuta da Hegel). Qui ripetiamo che Nietzsche riprende Aristotele. Infatti Aristotele nella Poetica scrive che la tragedia è nata all’inizio dalla improvvisazione, da quelli che guidavano il coro: cioè dal ditirambo. Poi si sviluppò con il tempo fino a diventare ad avere la sua natura propria. Eschilo fu il primo a portare il numero di attori da uno a due, diminuì l’importanza del coro e fece del discorso parlato il vero e proprio protagonista della tragedia. All’origine le storie erano bravi e lo stile era giocoso, perché si stava mutando il genere dall’originario genere satiresco: solo più tardi la tragedia acquisì quel carattere serio che tutti noi oggi conosciamo.

Il coro si muove su un terreno ideale: cioè il coro è situato in una zona che è molto al di sopra della vita reale dei comuni mortali; ma con questo non si deve credere che il suo sia un mondo meramente fantastico e casuale: anzi, il mondo nel quale è posto è un mondo dotato di piena realtà e degna di fede totale agli occhi di quei greci che allo stesso modo credevano nell’Olimpo e nei suoi abitatori. La tragedia ha inizio con il satiro come coreuta dionisiaco (il danzatore e cantore del teatro greco). I satiri, come sappiamo, sono legati al culto dionisiaco, e secondo Nietzsche il coro ditirambico che starebbe alla base della nascita della tragedia, era formato da satiri. Ecc, per bocca del satiro parla la sapienza dionisiaca della tragedia ed egli agisce in modo del tutto bizzarro rispetto all’uomo incivilito, così come è la musica dionisiaca rispetto alla civiltà. L’uomo incivilito, davanti a questa realtà, si sentì nel panico: si sentì come annullato dal coro dei satiri e infatti è proprio questo l’effetto principale e immediato della tragedia dionisiaca: davanti cioè a un sentimento così forte e potente, scompaiono tutte le barriere tra società e stato, tra uomo e uomo, e ogni cosa viene riportata alla natura, in un sentimento appunto di unità. Questa è quindi la consolazione che ci lascia ogni tragedia autentica: cioè sentiamo che nonostante i diversi fenomeni che ci appaiono nella vita siano contrastanti, dolorosi, di passaggio, ecc., tuttavia la vita, nella sua essenza e nella sua profondità, persiste e continua indistruttibile, potente, gioiosa, assai fisica e presente, così come lo è il coro dei satiri, che permane immutato al di là degli eventi che si danno nella tragedia.

Il greco dall’animo profondo comprendeva la dimensione della storia universale, che volgeva continuamente al suo annientamento, così come sentiva la crudeltà della natura. E così rischiava anche lui di immergersi in un annientamento nichilistico di sé. Ciò che lo salvò fu proprio l’arte, l’arte nella quale agisce la vita stessa, che quindi nella sua eterna dinamicità viene anche ad aiutare l’uomo, mantenendolo gioiosamente in vita.

L’estasi che viene vissuta nel momento dionisiaco porta all’annullamento dei propri limiti abituali, degli stretti confini dell’esistenza personale: tutto viene a cadere. Questa dimensione è ovviamente completamente diversa da quella propria della vita quotidiana. Allora succede che appena questa ritorna alla coscienza di chi ha vissuto l’esperienza dionisiaca, quest’ultimo la sente con estremo disgusto. L’uomo dionisiaco viene confrontato da Nietzsche non a caso con Amleto: entrambi hanno gettato uno sguardo fugace sull’essenza delle cose e riprendono la loro vita con ribrezzo, perché hanno la consapevolezza ora che la loro azione non potrà mai mutare l’essenza eterna delle cose. La vera conoscenza conduce all’inibizione dell’azione: ogni azione per essere tale deve essere almeno in parte avvolta dall’illusione. Vedere la verità in faccia, la terribile verità, elimina qualsiasi volontà di agire. In questo caso non c’è consolazione che tenga: c’è solo un desiderio disperato di morte.

A questo punto però interviene con effetto salvifico l’arte: solo grazie a lei il terrore e il disgusto, l’assurdo dell’esistenza vengono piegati a rappresentazioni che rendono tollerabile la vita. E questo è proprio quello che fa il coro dei satiri del ditirambo, agendo in esso la funzione salvatrice dell’arte greca.

Il satiro – ricordiamo l’impostazione appunto tragica di Nietzsche – non ha alcun aspetto romantico: non c’entra nulla – dice Nietzsche – con il pastore vagheggiato da alcuni moderni nostalgici della cita campestre. Non ha nulla di effemminato, ma rappresenta la natura non elaborata ancora da nessuna conoscenza. Natura non elaborata da nessuna conoscenza significa la natura per quello che è: nulla di più e nulla di meno. Cioè: l’espressione delle passioni più veementi e contraddittorie, l’essere inebriati della presenza immanente di dio, quel dio che parla attraverso il fondo della natura stessa. Il satiro era quindi da considerarsi come qualcosa di altissimo e divino.

Il coro dei satiri vive la realtà in un modo più autentico rispetto all’uomo incivilito, anzi nell’unico modo autentico: nella tragedia cioè viene indicato quel nocciolo esistenziale che sta sotto a tutti i fenomeni e che è l’origine delle eterne e alterne vicende della vita. E nella tragedia attica il pubblico veniva completamente immerso nella scena artistica: il pubblico si veniva a identificare con il coro stesso, si sentiva rappresentato dai satiri. Un pubblico così come quello che conosciamo oggi noi, i greci non l’hanno mai avuto: i loro teatri erano costruiti in modo tale (la forma concentrica e a terrazza) che ognuno poteva abbracciare con lo sguardo tutto il mondo attorno a lui, e così sentirsi immedesimato nella scena, sentirsi anche lui stesso cantore e danzatore nella scena. In questo senso è possibile chiamare il coro, nel primo grado della tragedia originaria, “lo specchio dell’uomo dionisiaco”, dice Nietzsche.

Abbiamo detto che secondo Nietzsche, sulla scorta di Aristotele, la tragedia è originariamente il coro dei satiri. Il mondo della scena è successivo ed è una visione di questo coro; questa visione è così potente e travolgente da rendere inaccessibile e insensibile allo sguardo la realtà circostante fatta dai semicerchi di uomini inciviliti seduti che stanno assistendo all’opera d’arte. La forma del teatro greco ricorda una valle solitaria ed è come se le baccanti possedute contemplino dalle cime dei monti la rivelazione di Dioniso.

Nella tragedia greca si realizza quello che è il fenomeno estetico stesso, cioè quella capacità di vedere svolgersi un’azione vivente, sentendosi circondati senza sosta da una folle di spiriti. Consiste in questo l’essere poeti, dice Nietzsche. E l’emozione dionisiaca ha questa capacità di comunicare a tutta una moltitudine di persone questa facoltà artistica: essa si vede circondata cioè da una folla di spiriti, e si identifica con essa. È questo il fenomeno drammatico primitivo: vedere se stessi trasformati (nel coro ditirambico) e agire come se si fosse entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Qui l’uomo si snatura di sé, si svuota della sua identità: anzi, questo accade a tutta la folla. È in questo effetto tumultuoso che il ditirambo si distingue da qualsiasi altro canto corale. Nel coro ditirambico agiscono dei trasformati, che hanno azzerato completamente il loro stato civile, sociale, si sono trasferiti in una dimensione senza tempo, divenuti servi del loro dio Dioniso.

Nel momento nel quale il tripudiatore dionisiaco si vede satiro a causa dell’incantesimo attivato nell’arte drammatica, e in quanto satiro vede il dio, cioè nella propria trasformazione contempla fuori di sé una nuova visione, come perfezionamento apollineo del proprio stato. Con questa visione il dramma è completo. In questo senso la tragedia greca cosa è? È lo stesso coro dionisiaco che di continuo si va sempre scaricando in un nuovo mondo figurativo apollineo. Le parti corali sono quindi l’origine dell’intero dialogo che si dipana nella tragedia. La parte del coro produce la visione del dramma; una visione che è un’apparizione di sogno, cioè è l’oggettivazione di uno stato dionisiaco: per questo apollineo e dionisiaco agiscono parallelamente. Il dramma, dice Nietzsche, è l’incarnazione apollinea di conoscenze e impressioni dionisiache. Il coro è insomma l’unica realtà, ed esso genera da sé la visione, cioè la scena e l’azione che si svolgono nella tragedia. In questa visione il coro contempla il suo dio, Dioniso sofferente e glorificato.

Dioniso è allora il vero protagonista della scena tragica, è il centro della visione. In principio, nel periodo più antico della tragedia, egli non esiste veramente, ma viene ideato come se realmente ci fosse; cioè, come già detto, all’origine la tragedia è solo coro e non ancora dramma. Più tardi si cercherà di presentare il dio come un personaggio reale, e solo da quel momento avremo a che fare con il dramma vero e proprio. A questo punto il coro ha come funzione quella di condurre l’animo dello spettatore al grado dionisiaco, in modo tale che quando compare l’eroe tragico sulla scena, lo spettatore non veda un uomo grottescamente mascherato, ma l’immagine propria di quella visione sorta in lui a causa del rapimento dionisiaco provocato dal coro. Già lo spettatore, quando vede comparire sulla scena il dio, lo vede con quelle stesse passioni di cui lui stesso è partecipe. Trasferiva cioè su quella figura l’immagine del dio che gli teneva l’anima tutta tremante: ed è proprio questo lo stato apollineo di sogno. In esso infatti il mondo quotidiano viene a nascondersi e nasce un mondo più evidente, più comprensibile, eppure più apparente. Per questo nella tragedia incontriamo un contrasto tra gli stili: da una parte abbiamo la lingua, il colore, il movimento, la dinamica della parola, la lirica dionisiaca del coro: dall’altra il mondo apollineo della scena. Le manifestazioni apollinee nelle quali Dioniso si oggettiva non sono più la musica e i canti del coro: egli parla ora attraverso la scena e attraverso la figura epica rappresentata sulla scena stessa; Dioniso non si comunica più attraverso un sentimento indefinito, ma come un eroe epico, come accade negli eroi narrati da Omero.

 


Nella tragedia avviene quel contrasto che rappresenta quell’avversità di contrari che fa parte dell’essenza delle cose. Per es. il mondo divino e il mondo umano: si vengono a trovare all’interno della tragedia come due mondi diversi, ma entrambi con il loro pieno diritto ad esserci. Ogni individuo nella tragedia ha il suo diritto di esistenza ma soffre anche a causa della sua individuazione, cioè per il fatto stesso che è un individuo. Il singolo ha questa tensione a superare se stesso, a universalizzarsi, ad andare oltre la propria individualità; soffre in sé questo contrasto che fa parte del fondo stesso delle cose.

È in questo che consiste il nocciolo del mito di Prometeo. Il mito di Prometeo è proprio dei popoli ariani: qui Nietzsche usa proprio questa categoria, molto probabilmente ripresa dall’amico Wagner. Prometeo è di spirito ariano, maschio, è colui il quale ha sottratto il fuoco agli dèi senza il loro consenso, è chi si prende ciò che ritiene suo senza attenderlo come dono degli déi; in questo senso il mito di Prometeo è il corrispettivo greco di ciò che è il peccato originale nella prospettiva semitico-cristiana, là dove in quest’ultimo agisce l’aspetto femminile, la curiosità, la bugia, la facilità a lasciarsi sedurre. Il mito di Prometeo indica la necessità del sacrilegio per l’individuo che anela a una potenza titanica; esso ha una carica potentemente anti-apollinea. La tendenza apollinea è quella di fare rientrare tutto in regole, entro certi limiti, fare sì che gli uomini siano e rimangano all’interno dei loro spazi, dei loro confini, con l’importanza data quindi al concetto di misura. Per far sì che questa tendenza non congeli tutto, non irrigidisca oltremodo la realtà, allora agisce la tendenza opposta, quella dionisiaca, che rimescola ciò che l’apollineo aveva incantato e irrigidito.

È proprio questo che lega il prometeico con il dionisiaco: questo impeto di voler portare i singoli al di là di loro stessi, di scardinare i limiti imposti. Il Prometeo di cui ci parla Eschilo è una maschera di Dioniso, è la maschera del tragico: in lui agisce la discendenza apollinea come quella dionisiaca. Nell’essenza del tragico c’è proprio questa commistione, questo contrasto: tra individuale e universale, tra il limite e il trascendimento di esso, tra la serenità tipicamente greca e la sofferenza, tra il piano degli uomini e quello degli déi, tra la giustizia e l’ingiustizia. Queste contrapposizioni agiscono fortemente nella trama della tragedia greca. Nel Prometeo eschileo agisce sia la natura apollinea che quella dionisiaca, per cui la formula nella quale si potrebbe riassumere la sua essenza è: “Tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e come giusto e come ingiusto è ugualmente giustificato”. Questa è la verità che passa attraverso la tragedia, ma è anche e soprattutto l’essenza delle cose stesse: è il mondo.

Allora: il vero e solo protagonista della tragedia greca è Dioniso con le sue sofferenze. Egli fu per molto tempo il solo personaggio presente nella scena della tragedia. Fino a Euripide Dioniso è stato sempre l’eroe tragico, e tutti i grandi personaggi successivamente presenti nella scena, come Edipo, Prometeo, ecc., non furono altro che maschere di Dioniso. Dioniso cioè compare in una molteplicità di figure, in un certo senso. Egli compare come un individuo che erra, come un individuo che si affatica, come un individuo che patisce. Ma l’eroe è sempre lui: il Dioniso sofferente di cui ci parlano i misteri greci, il dio che porta su di sé ed è simbolo dei dolori causati dall’individuazione. Dioniso, secondo la famosa versione mitica, fu fatto a pezzi – fanciullo – dai titani, e in questo stato adorato come Zagreus. Zagreus è la principale divinità del culto orfico, considerata la prima incarnazione di Dioniso. Nato da Zeus e Persefone, fu catturato dai Titani, smembrato; il suo cuore fu portato a Zeus, il quale lo ingerì e dalla ricomposizione delle sue membra nacque il secondo Dioniso, il dio che comunemente viene chiamato proprio usando questo nome. Ecco, lo smembramento – dice Nietzsche – simboleggia la sofferenza dionisiaca, cioè lo stato di individuazione come causa e origine di tutti i dolori e i mali. La speranza degli iniziati ai misteri di Eleusi relativa a una rinascita di Dioniso va interpretata come una speranza per la fine dell’individuazione, cioè per la venuta di questo terzo Dioniso per il quale risuonava il canto festante degli iniziati stessi. Possiamo qui notare un parallelo implicito con la speranza cristiano del ritorno di Gesù alla fine dei tempi.

Solo in questo senso, solo con questa speranza si giustifica l’esistenza in un mondo dilaniato e frammentato in individui; solo così si spande un velo di allegrezza sulla sofferenza e sul dolore cosmico al fondo di tutte le cose. In questa prospettiva Nietzsche interpreta il mito di Demetra sofferente che ritorna lieta quando le viene concesso di partorire nuovamente Dioniso, quella Demetra la cui figlia Persefone – secondo la tradizione – ha generato il primo Dioniso, Zagreus e il cui culto è – come sappiamo – parte integrante dei misteri eleusini.

Nella lettura di questi miti Nietzsche intravede la teoria dell’unità fondamentale di tutto ciò che esiste e della teoria secondo la quale l’individuazione è l’origine del male. Male davanti al quale, come abbiamo già avuto modo di ripetere, solo l’arte si pone come speranza del suo superamento, cioè dell’eliminazione dell’inividuazione, restaurazione dell’unità originaria.

La tragedia è uno scossone forte contro la concezione omerica del mondo. Tutto è partito dall’era dei titani e delle titanomachie; poi si è passati all’epos omerico e alla civiltà omerica; successivamente, sotto l’impulso della poesia tragica, i miti omerici e la loro civiltà sono tramontati, davanti a una nuova concezione del mondo vissuta come più vera. Davanti all’occhio finalmente sbendato, che può vedere la verità direttamente, nel suo fondo, nel suo terribile fondo, il mondo omerico e i suoi miti impallidiscono, si indeboliscono, fino a trasfigurarsi in qualcosa di sottomesso alla nuova divinità, Dioniso. La verità dionisiaca prende il dominio di tutta la conoscenza mitica e si esprime nella tragedia a livello pubblico e nelle feste dei misteri a livello segreto. Prometeo così si liberava dalla sua punizione, dall’avvoltoio e il mito si trasformava in strumento di sapienza dionisiaca. Come? In che modo? Grazie a che cosa questo è potuto avvenire? Lo sappiamo: attraverso la forza invincibile della musica, la quale ha questa capacità potente di interpretare il mito in modo nuovo e profondo.

C’è una grandissima differenza tra mito e storia. Il destino di ogni mito è quello di congelarsi, di rattrappirsi a evento storico, a venire considerato traduzione di una realtà storica nelle epoche successive. Ma è questa la causa della morte delle religioni: nel momento nel quale i fondamenti mitici di una religione vengono indagati attraverso la fredda lente della ricerca storica, filologica, in una prospettiva di un rigido dogmatismo ortodosso, quando questi presupposti mitici vengono ad essere sistematizzati in una catalogazione di avvenimenti storici, allora la religione e la sua forza muoiono. Insomma: l’ambito proprio del religioso è il mito; la fine del mito (leggi: l’inizio del cristianesimo) segna la fine dell’autentico sentimento religioso. Il cristianesimo, avendo trasformato il mito in fatto storico, rappresenta la degenerazione del religioso. Ed ecco invece cosa fa la musica: prende il mito, che giace moribondo a causa di questo approccio – potremmo dire: a causa di una certa impostazione di sapore omerico – e lo fa rifiorire. Nella tragedia dunque il mito mostra il suo contenuto più vero e profondo; esso per l’ultima volta si risolleva come un eroe ferito, dice Nietzsche. E chi gli diede l’ultima stilettata, chi l’uccise definitivamente fu Euripide.

Dopo la morte della tragedia si aprì un grande vuoto. Il genere che poi ne seguì fu la commedia attica nuova, un goffo e degenerato prodotto rispetto alla tragedia stessa, e l’anello di congiunzione tra i due generi fu Euripide.

Cosa ha fatto Euripide? Ha dato importanza allo spettatore e ha voluto portarlo sulla scena, rappresentandolo nel modo più realistico possibile. Tendenza questa esattamente contraria a quella presente nella tragedia, nella quale non vi era certo la volontà di portare sulla scena la realtà “quotidiana”. Euripide nelle Rane di Aristofane dice che è stato grazie a lui che l’arte tragica si è liberata di tutti quegli elementi pesanti e pomposi di cui era caratterizzata, è grazie a lui che finalmente si è resa comprensibile, mentre in Eschilo era del tutto oscura. Ma Nietzsche ribatte che con questo non è certamente vero che l’opera d’arte di un Eschilo o di un Sofocle fosse sproporzionata all’intelligenza del pubblico di allora: anzi, sappiamo che Eschilo e Sofocle, finché vissero, godettero pienamente del favore del pubblico.

Invece Euripide si sentì superiore alla folla e volle piegarsi all’intelligenza minuta (presunta o reale) del suo pubblico, trasferendo il mondo dei sentimenti, delle passioni, delle esperienze che fino ad allora erano presenti solo tra gli spettatori nell’anima dei suoi eroi della scena. Sulla scena delle opere di Euripide c’era la gente comune con le sue situazioni di ogni giorno; egli rese più razionale la tragedia e fece opera anche educativa rispetto al suo pubblico, che è ora più sveglio a sbrigar le faccende, a fare ogni cosa rispetto a prima, come ricorda Eurpide nelle Rane. Insomma: Nietzsche vuole dire che con la fine della tragedia ha inizio il processo di razionalizzazione del mondo; l’arte diventa qualcosa di cui discutere ed entra a far parte della quotidianità dell’esistere.

Lo spettatore vedeva nella scena euripidea il proprio doppione e si compiaceva nel sentirlo parlare così bene. Nell’opera di Euripide si esprimeva la mediocrità borghese, trasfigurata in espressione artistica: quella mediocrità del popolo sul quale Euripide ha costruito il suo successo di artista.

Con la fine della tragedia scompare la fede del greco nella propria immortalità, la fede in un passato ideale e in un altrettanto ideale futuro. Questo viene sostituito dal motteggio, dal capriccio, dall’arguzia, dalla frivolezza, così massicciamente presenti nella nuova commedia. Domina ora la mentalità degli schivi, del quinto stato; anche quando si parla ancora di serenità greca, la si intende come una serenità da schiavo, cioè tipica di colui che non è degno di grandi responsabilità, che non sa aspirare a nulla di grande. In questo caso Nietzsche fa un paragone con i primi quattro secoli del cristianesimo, con i suoi martiri, il vivere eroico di tante nature forti: ecco, ai loro occhi questa fuga da ogni cosa seria e profonda, questa codardia che si accontenta dello stare comodi e tranquilli, fu vista come un atteggiamento non solo immorale, ma totalmente anticristiano. Qui c’è un giudizio positivo da parte di Nietzsche riguardo al cristianesimo, o meglio: riguardo il cristianesimo delle origini.

 


La tendenza di Euripide fu quella di eliminare l’elemento dionisiaco da essa; così facendo egli costruiva un nuovo tipo di arte, di morale, una nuova concezione del mondo, del tutto non dionisiache. Per Euripide il dionisiaco va estirpato dal suolo greco; ma – come vedremo - questo non è del tutto possibile. Dioniso è troppo potente per morire così facilmente.

Lo stesso Euripide era a sua volta una sorta di maschera: in lui certo non parlava Dioniso e nemmeno Apollo, dato che anche Apollo necessita dell’aspetto dionisiaco di cui si fa – in certo senso – traduttore e schermo protettivo. Euripide è invece la maschera di un nuovo demone, nato da poco: Socrate. Socrate infatti è vissuto esattamente nello stesso periodo di Euripide. Socrate, con la sua filosofia, aveva creato una nuova contrapposizione, del tutto inedita: l’istinto dionisiaco contro il razionalismo socratico. Con questa contrapposizione la tragedia greca morì.

A questo punto il dramma non poteva nascere più dalla musica, dal misterioso istinto dionisiaco, avendo vinto il razionalismo socratico. Allora quale poteva essere la nuova forma di dramma ammissibile dopo questo cambiamento? Solo l’epos drammatizzato, cioè qualcosa di tipicamente apollineo (ricordiamoci Omero), nel quale non è certo possibile raggiungere i risultati e i picchi propri dell’effetto tragico. Qual’è il rapporto tra Euripide e questo tipo nuovo di forma drammatica? Nietzsche cita al riguardo un passo dello Ione di Platone, in cui Ione stesso descrive il suo stato nel momento nel quale recita: “Quando dico qualcosa di triste si riempiono i miei occhi di lacrime; se però quel che dico è spaventoso e orribile allora mi si rizzano i capelli sulla testa per il raccapriccio e il cuore mi batte forte”. In queste righe viene descritto uno stato che non ha nulla a che fare con il perdersi nell’apparenza dell’epica, con la freddezza imperturbata e priva di passioni del vero attore, secondo Nietzsche. Il vero attore è invece tutto apparenza e piacere dell’apparenza.

Invece Euripide è l’attore del cuore che picchia, dei capelli dritti in testa; in lui non c’è l’effetto apollineo dell’epos, come non sussistono più elementi dionisiaci. Egli, per raggiungere l’effetto, ha bisogno di nuovi strumenti, che non hanno nulla a che vedere con gli unici due istinti artistici dell’apollineo e del dionisiaco. I suoi nuovi eccitanti sono pensieri freddi e calcolatori al posto delle intuizioni apollinee e affetti ardenti e femminei al posto dei rapimenti dionisiaci. Sono pensieri e affetti che Euripide copia tali e quali sono nella realtà quotidiana, senza minimamente trasfigurarli in arte vera.

Euripide non riesce a fondare la sua arte, il dramma solo sull’apollineo: la razionalità che sta alla base delle sue opere in realtà è una degenerazione dell’apollineo stesso. Il dramma euripideo è in questo senso una vera e propria nuova concezione dell’arte: è il prodotto di quel socratismo estetico per cui bellezza e razionalità diventano sinonimi (“Per essere bello, tutto deve essere intelligibile”); socratismo estetico che ha il principio parallelo nell’aforisma di Socrate “Solo chi sa è virtuoso”.

Ciò che è massimamente ripugnante in un’ottica tragica è il prologo nel dramma di Euripide. All’inizio arriva un personaggio, si presenta, racconta ciò che è avvenuto prima del tempo narrato nell’azione scenica e ciò che accadrà nello svolgimento dell’opera. Tutto questo è qualcosa di imperdonabile: si rinuncia così all’effetto della tensione prodotto dalla non completa padronanza, all’inizio della tragedia, di ciò che è la sua premessa e dalla totale ignoranza rispetto a quello che accadrà. Se sappiamo cosa accadrà, perché mai vorremmo stare lì ad attendere il fatto che quella situazione si compia realmente? Ma il procedimento di Euripide è un altro: l’effetto della tragedia per lui non poggio sulla tensione epica, sul fatto che il pubblico non sappia quello che accadrà; per lui l’effetto sta tutto nelle grandi scene retoriche, liriche, in cui a farla da padrone ci sono le passioni, la dialettica del protagonista, ...

Eschilo e Sofocle si erano invece impegnati a porre subito lo spettatore in medias res dell’azione, facendocelo entrare all’inizio con la sua ignoranza riguardo a quello che stava accadendo, ignoranza che moltiplicava l’effetto tragico stesso. Per Euripide invece questa scelta non faceva che creare nello spettatore una sorta di impazienza, di insofferenza a causa del suo non sapere le cose come stavano precisamente; uno stato d’anima che non gli permetteva di godere appieno delle bellezze poetiche e del pathos presenti nell’opera d’arte. Perciò Euripide inserì il prologo prima dell’esposizione e lo mise in bocca a un personaggio degno della massima fiducia, cioè in bocca a una divinità.

Euripide si immaginò essere una specie di sistematizzatore e ordinatore, rispetto agli altri poeti della tragedia. Di Anassagora si riporta questa sentenza: “In principio tutto era confuso; poi venne l’intelletto e creò l’ordine”. Ecco: Euripide si vide come quell’intelletto che pone finalmente ordine nella struttura e nello svolgimento della tragedia (tipico atteggiamento socratico). Euripide è il poeta del socratismo estetico: Platone parla sempre con ironia della facoltà creatrice del poeta, il quale nel momento nel quale crea, non è cosciente di sé, non ha in lui alcun intelletto che opera rettamente e consapevolmente. Il poeta è irragionevole per antonomasia. E così Euripide, da parte sua, è stato chi per primo ha incarnato il principio per il quale “tutto deve essere cosciente, per essere bello”. Ed è stato dunque la causa della rovina della tragedia greca: lui e il suo socratismo estetico.

In Socrate dunque dobbiamo riconoscere l’avversario di Dioniso, che lo costrinse alla fuga. Dioniso, in questa fuga, prese scampo nelle correnti mistiche del culto segreto che di lì a poco avrebbe invaso tutto il mondo.

Nell’antichità questo stretto legame che avvicinava Socrate ed Euripide non sfuggì di certo. Il segnale più evidente di questa consapevolezza che già allora esisteva è la diceria diffusa ad Atene secondo la quale Socrate aiutava spesso Euripide nel suo poetare. Nietzsche riprende questa idea da un passo delle vite di filosofi di Diogene Laerzio. I loro due nomi venivano citati insieme da chi, contrapponendosi ai nuovi tempi, voleva elencare i seduttori del popolo. Con questo approccio Aristofane parla di quel tipo di uomini, con scandalo anche dei giovani che si sentivano presentare Socrate (ne Le nuvole) come il primo dei sofisti: proprio Socrate!

Socrate era avversario dell’arte tragica e interveniva solo quando era portato sulla scena un lavoro di Euripide. Anche questa notizia Nietzsche la riprende da Laerzio. Ma ancora più famoso – continua Nietzsche – è il detto dell’oracolo di Delfi, secondo il quale Socrate è il più sapiente di tutti gli uomini, e in secondo posto era Euripide.

Socrate basa tutto la sua filosofia sulla questione del sapere di non sapere nulla; e con questa chiave lui si presenta alle persone con le quali ha modo di dialogare e confessa di sapere di non sapere e le conduce – anche loro – alla stessa confessione. Neppure loro avevano un’idea chiara, sicura di quello che era il loro compito: essi lo eseguivano per mero istinto. Ecco: è proprio questo il punto, dice Nietzsche. Per mero istinto: in questo approccio Socrate vede la mancanza d’intelligenza, la potenza della suggestione, e quindi lo valuta negativamente. Ma le cose erano viste all’opposto, prima di lui e della sua vittoria nella storia occidentale.

La chiave per comprendere la natura di Socrate ci è data dal cosiddetto “demone socratico”. Nelle situazioni nelle quali il suo intelletto vacillava, egli riprendeva l’equilibrio grazie ad una voce divina interna che gli si manifestava in quei momenti e che lo dissuadeva dal permanere in quello stato. In una natura distorta come quella di Socrate, la saggezza istintiva si manifesta – nelle vesti del demone socratico – solo avendo la funzione di inibizione contro uno stato vissuto come negativo, cioè quello stato che offusca la conoscenza consapevole. In tutti gli altri uomini, potremmo dire normali, produttivi, l’istinto è quella forza che crea, mentre la coscienza ha ruolo critico e di freno; invece in Socrate l’istinto è critico e la coscienza è creatrice. È un paradosso: in Socrate c’è qualcosa di mostruoso; egli è l’anti-mistico per eccellenza. In lui infatti la natura logica è così mostruosamente sviluppata, quanto è nel mistico la sapienza istintiva.

 

 

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