martedì 4 marzo 2014

SCIASCIA e BRUNO: scrittura e pittura


Carissimo Agato,

la tua prensile sensibilità d’artista ti ha spinto a mirare (ed ammirare) plaghe, dirupi, alberi, ulivi, mandorli, sommaccheti, vigneti dell’acre terra racalmutese: col tuo singolare cappellino bianco, per ripararti dal sole di Sicilia, nelle precorse estati hai osservato, scrutato e trasferito in tela o su tavola o cartone il senso recondito del luogo che ti ospitava.

Tu ami Racalmuto, i suoi colori, il suo sole, il suo imbrunire, il suo esplodere cromatico a mezzogiorno, o il suo imbronciarsi per qualche passeggera nuvola estiva.

Anche per te, come per Bufalino, Racalmuto può essere un godibile piccolo lembo di paradiso.

Chi è creativo vede nell’opaco o nell’occulto o nell’assurdo emblemi, messaggi, redenzioni, richiami della memoria, a noi comuni mortali negati perché ciechi nell’immaginare e sordi nel percepire. Capita così che Sciascia, seduto a sera davanti al casolare della Noce, veda laggiù, circondante l’aprica “casina” dei Matrona, «un paesaggio in tutto simile a quello che fa da sfondo all’Amor sacro e all’Amor profano di Tiziano … Poi di colpo, come un ventaglio quella visione si chiude: ed è la notte col suo pergolato di stelle e con la luna così vicina che sembra la si possa colpire e far vibrare come un gong.» Agato Bruno sta, invece, a dipingere la quaternaria pendice di Cozzo della Loggia, il retroscena dell’altra cadente casina degli antagonisti Tulumello, anche lui immaginifico, sognante, trasfigurante. Non per nulla Vincenzo Perna rinveniva in lui il pittore che aveva attraversato e preservato «il rigoglioso, forte paesaggio mediterraneo, ricco di esplosioni di colore» essendosi «misurato con gli insegnamenti della grande pittura veneta rinascimentale e postrinascimentale da Veronese e Tiepolo, catturandone versatilità di luce.»

Non mi intendo di pittura se non per il solo epidermico goderne e non ho quindi legittimazione alcuna per parlarne. Resto solo ammirato per il mio amico Agato, come lui resta ammaliato dai richiami cromatici del mio luogo natio, da questa terra che in otto secoli di memorie storiche da me investigate non sembra essere andata al di là di uno stentato humus di sopravvivenza umana, di uomini attaccati alla vita, come “erba abbarbicata alla roccia.”

 

 

 

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Carissimo Agato, mi sei sodale nella nostra ricerca del sociale, nella schietta lettura di questo evolversi dell’umana vicenda, di questo contemperarsi impossibile di irrefrenabili impulsi verso la globalizzazione totalizzante e di minimali vocazioni localistiche: ne abbiamo discusso, d’estate, a Racalmuto; abbiamo cercato di discettarne nella scuola da te presieduta.

Agato Bruno, per me, è sempre sincero sino all’autocritica politica e credo che ben si ambienti in questa terra racalmutese satura di contraddizioni, eppure vogliosa di genuinità sino alla macerazione, sino alla tortura dello spirito. Per chi, come Agato, sa anche “ri-guardare”, in grande, con ilare esuberanza cromatica, questi uomini, spesso cupi, così diversi da lui, vengono sussunti ad intimo termine di confronto, per quella necessità di contrapporsi a ciò che non ci è simile, che si snoda nel fioco, nel rappreso, nel malinconico dissolversi.

 

Da qui, gli spunti, gli umori, gli ammiccamenti, le volute pittoriche, gli onirici “ri-guardi” per una godibilissima pittura, suggestiva, ammaliante che Agato Bruno vuole esporre al Castello Chiaramontano a futura memoria – diremmo noi maldestri fruitori di luoghi comuni – di questa singolare vicenda umana, di questo approdo nel mondo sciasciano di uno spirito ilare e profondo, diverso eppure convergente, di un ibrido sconcertante ma rilucente di mirabile malia.

E qui desisto. Con l’augurio ed il grazie dell’amico

Calogero Taverna

 

Estate, 2006.

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