venerdì 3 gennaio 2014

A proposito


Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi fiscali:

·       il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;

·       in paese vi erano 52 cavalli;

·       le giumente, invece, in minor numero, appena 38;

·       i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori agricoli;

·       le “vacche di aratro”, n.° 191.

 

Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche gli asini.

Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di 3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria. Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando  i dissestati Moss degli americani, la meccanizzazione, il trasporto su camion.

La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone; l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale  - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in  missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [1]

«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.

«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso:  ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»

Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:

 «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»

 

L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.

 

i)                Archeologia e preistoria

 

 

In sintonia con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico. La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [2] comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [3] Fu epoca questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione  della fascia sud-occidentale dell’Isola, determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini, rapidamente assimilati.» [4] E continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio a.C. dunque, ndr] , e certamente in un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della neolitizzazione nella media valle del Platani.»

Lo sprofondo di Gargilata -  con le sue acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate – fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C., anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di molto.

 Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [5]:

a)     il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso, destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno della copertura di capanne;

b)     il secondo momento è quello delle capanne con battuti pavimentali;

c)     segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili alcove e con probabili contenitori di derrate;

d)     il quarto momentoè quello dei rifacimenti;

e)     un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare impostato su di uno strato di giallastro.

 

Per un quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [6]

«L’età del rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati, sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»

Discorso questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.

Scavi recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi finali del bronzo antico; [7] quelle del bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal prof. Vincenzo La Rosa [8]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per le nostre ancor più ubertose plaghe.

A mo’ di nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di Fabrizio Nicoletti [9]:

«Non sappiamo se la nostra regione sia stata popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…] L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […] L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi  quale possa essere stato il ruolo delle importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti, sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»

Succede così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti metallici [10]. Racalmuto non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti? 

Ma se tombe a tholos dell’età del bronzo  il Tomasello [11] ha individuato in località Furnieddu (c/o Sorgente), così prossima ai confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle circonvicine terre racalmutesi?

«La tomba di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali. Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione.  Infatti la tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora sostenibile.»

Risalirebbero addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale, articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.

Una tomba a tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio di capra che il vedersi al Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il popolare abbrividire  al ricordo «delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.

Confessiamo che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così, potuto stabilire età,  sì, presunte ma con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain[12] che sono termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte in BP e cioè a dire before present (prima del presente):

 

 

sito strato
età presunta
Serra del Palco recinti
 
Recinto maggiore
NEOLITICO MEDIO
 
7000-6500 BP

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
6893
864
864
4893
5757
4029
7445
1068
1068
5445
6513
4377
6852
871
871
4852
5723
3981
7770
981
981
5770
6751
4789
7055
739
739
5055
5794
4316
10148
2292
2292
8148
10440
5856
6773
398
398
4773
5171
4375

 

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
5361
6278
4443

 

 

RECINTO MINORE
NEOLITICO MEDIO
 
7000-6500 BP

 

 

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
6387
447
447
4387
4834
3940
6923
600
600
4923
5523
4323

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
4655
5179
4032

 

 

FONTANAZZA IV

 
CAVE
RAME
 
5500-600O BP

 

 

 
età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
4759
427
427
2759
3186
2332
 
4773
615
615
2773
3388
2158
 

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
2766
3287
2245

 

 

 

 

SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
SEQUENZA STRATIGRAFICA
BRONZO MEDIO
 
3400-3200 BP

 

 

 

età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
3248
590
590
1248
1838
658
3690
820
820
1690
2510
870

 

 

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
1469
2174
764

 

SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
SEQUENZA STRATIGRAFICA
BRONZO ANTICO
 
3800-3600 BP
Età BP
+
-
ETA' PRESUNTA non BP
Età a.C. MASSIMA
Età a.C. 2 MINIMA
3420
367
367
1420
1787
1053
4205
461
461
2205
2666
1744
4303
619
619
2303
2922
1684

 

MEDIA ETA'
MEDIA ETA' MASSIMA
MEDIA ETA' MINIMA
1976
2458
1494

 

 

Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361 anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro). Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.). Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di Agrigento sarebbero quindi confermate.

 Non dovrebbero significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto

Denominazione
Età media
Età massima
Età minima

Recinto maggiore Serra del Palco

5361
6278
4443
Recinto minore Serra del Palco
4655
5179
4132
differenza
706
1100
311

 

Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.

Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici oscillano attorno al  2700 a.C.  in un arco di tempo ipotizzabile tra un massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303 a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.

Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.

Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del Mauceri  del 1879 di cui parliamo in vari punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.

Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia archeologica.

Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999 in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest: un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di una dismessa miniera di zolfo. Prima  uno dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto. E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo, alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C.  Lungo tutto il pendio di quella vallata sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto, sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso, reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [13] Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei, desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti: sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano dall’opera settecentesca degli agostiniani.

E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus  perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di tegole, di canali d’argilla cotta.

In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio, tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove,  affiorano ancora le sciasciane necropoli, non vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.

In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora, da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:  aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona;  alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!




[1] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[2] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[3] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43
[4] ) ibidem, p. 52.
[5] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena in età neolitica, in Dalle capanne alle “robbe”cit. p. 55 e ss.
[6] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p. 63 e ss.
[7] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 111 e ss.
[8] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra del Palco di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”  … cit, p. 93 e ss.
[9] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 117 e ss.
[10] ) Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche nel volume “Dalle capanne alle robbe ..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[11] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl), in Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 165 e ss.
[12] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 241 nota a Tab. 1)
[13] )  v.d.s. André Guillou,  L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,  Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987,  p. 192 per la data del ritrovamento.
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