giovedì 24 ottobre 2013

Du Mazel a Racalmuto




Nel successivo anno Bertrand du Mazel (arcidiacono che non significa alto prelato) giunge in Sicilia. Un suo esattore arriva a Racalmuto e in brutta ecco cosa scrive:


 Calogero Taverna E' il secondo capoverso. Chi non lo sa leggere, legga i miei libri. Anche qui si ribadisce che il mio paese si chiama RACHALMUTU. Perché non tornare al nostro vero nome? Quella "u" finale mi delizia. Anche oggi, come diciamo? RACARMUTU. Altro che Regalpetra o Paese di Sciascia. Altro che Paese di morti. Da MUTU come si può arrivare a MAUTH=MORTI (a li mortacci loro, direbbero qui a Roma). Tocchiamo ferro, racalmutesi tutti.






La corte pontificia, ancora ad Avignone, versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava disponibile ad una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione del gravame papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia con il papa: bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe finito direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto naturalmente.

E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era inffetti Pietro Roger de Beaufort nato a  Limoges nel  1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo pontificato fu contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane. Nel 1375 e nel 1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede la guerra degli «8 santi», novanta citta e castelli dello Stato pontificio si sollevavano contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della Santa Sede.

Negli ultimi anni della loro dominazione in Italia, i papi avignonesi ricorsero molto spesso alla generosità dei loro sudditi con richiesta di sussidi straordinari, tanto da trasformarsi in imposte ordinarie. Quanto al consenso dei parlamenti, divenuto alla lunga puramente formale, a partiva dal 1374 esso tendeva a sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina la guerra di Perugia e diviene controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia in favore del patrimonio della Santa Sede.  Scoppia quindi la guerra milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei sussidi relativi agli anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la devastazione della peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata a Genova nel 1372 si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374 raggiunge la Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del 1373. Dopo, nel seuccessivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte che rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che continuava più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.

All’inizio del 1375, la Camera apostolica non incontra difficoltà soltanto in alcune province dell’Italia centrale. La carenza contributiva si estende alla Cristianità intera. Salvo forse la Francia, la percezione dell’obolo è un totale falimento nel reame di Napoli e, specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata contro le pretese di Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le vecchie tasse e dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste (qui 20.000 e là 25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno orecchi da mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di Narni, i contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e, per calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.

La guerra milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4 giugno 1375, la tregua con i Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una situazione fortemente compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni. I mercenari, privi del loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e rifarsi con i saccheggi. Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a frenarli. Solo degli espedienti possono salvare provvisoriamente la Camera apostolica.  Gregorio XI si fa prestare somme enormi.

L’incapacità del papato di procurarsi il denaro necessario al finanziamento della guerra contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento finale della fiiscalità avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello Stato pontificio e si estende atutta la Cristianità, come mostra il rifiuto pressoché generale di pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio XI nel 1373.

Per un sussidio di carità può però la Sicilia torgliersi da dosso l’interdetto, conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è perdonata; lo può Manfredi Chiaramonte e tutte le sue terre sono perdonate;  lo può Racalmuto ed il 29 marzo 1375 viene solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità” di una colpa mai commessa. 

Storici di acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento comune del mondo moderno che è stato considerato come il fondamento del suo processo evolutivo, nelle forme di stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura. Per produrlo le nazioni occidentali dovettero formare quasi un unico stato spirituale e temporale insieme.»  Ma ciò per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si ritirò dinanzi all’impellanze delle varie lingue delle varie nazioni.»  L’universalità perse terreno; l’elemento ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si mettono in cammino lungo percorsi  nuovi, in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati. La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.

Seguirono i tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per lungo tempo a questo movimento; quando Edoardo III non volle più pagare il tributo al quale i re suoi predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso dei suo parlamento. Il re prese allora misure per prevenire altri attacchi della potenza papale.

Una nazione dopo l’altra si rende autonoma; le  pubbliche autorità rigettano le idee di sudditanza ad una autorità superiore, sia pure a quella del papa. Anche la borghesia si discosta dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di costoro vengono respinti dai principi e dai corpi statali.

Il papato cade allora in una situazione di debolezza e di imbarazzo che rese possibile ai laici, che sinora avevano cercato di difendersi, di passare al contrattacco. Si ebbe addirittura lo scirma. I papi poterono essere deposti per volontà delle nazioni. Il nuovo eletto doveva adattarsi a stabilire concordati con i singoli stati.

E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento ulminante della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplemante si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.

La meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesetto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.  

 

 

Le decime del 1375

 

Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Originario della diocesi di Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano V e di Gregorio XI. Si distinse come collettore in Germania (1366-1367) e quindi nella Penisola Iberica (1368-1371). A questo punto il suo destino si lega a quello della Sicilia ed investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.

Bertrand du Mazel era “archidiaconus Tarantone in ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f. 67) cioè a dire un diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di taluni settori della chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente onorifico e viene attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du Mazel , come tutti i collettori, dovette tenere un registro delle sue operazioni per sottometterle al controllo dei chierici della Camera apostolica. Pare che si stato un uomo preciso e motodico: conservo una copia della sua corrispondenza. Una parte di tale corrispondenza riguardava, pernostra fortuna, la Sicilia e risulta custodita in Vaticano. Ciò si deve al fatto che per il diritto di spoglio tutte le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate in blocco alla Camera apostolica alla morte del proprietario.

Du Mazel curò un carteggio con le autorità siciliane dell’epoca nella sua qualità di collettore del sussidio riscosso dal popolo siciliano. Inoltre conservò i documenti contabili tra cui quietanze, conti dei sotto-collettori, minute e bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol. 414-419v, abbiamo la minuta autografa, cancellata e corretta, del conto del sussidio raccolto dal popolo siciliano.

La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro degli eventi sopra abbozzato.  In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmette alla Santa Sede questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.

L’accordo si rendeva necessario per le ristrettezze finanzierie pontificie a seguito della lotta contro i Visconti di cui abbiamo detto. Si è anche visto come i “sussidi caritativi” chiesti al clero di molti paesi fossero risultati fallimentari.. In Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono madalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo.In virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero si parla ancora più esplicitamente di  “subsidio auctoritate apostolica imposito . E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.

Illuminato Peri  chiarisce gli aspetti storici di siffatta atipica tassazione pontificia. «La esazione fu affidata a collettori pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe andato alle finanze regie. Nella forma Federico IV si presentò mediatore fra popolazione e autorità ecclesiale. Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il quale egli fissò la misura della sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”. Con tale atto si cercò di sedare le reazioni piuttosto violente suscitate dalla prima richiesta (“rumori, rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e turpi parole contro la chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore Bertrand du Mazel). Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato fossero.»

Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca  (reg. Vat. 268, f. 295-297).

Sempre da Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia Guglielmo affinché interponga “partes suas consolidationi Agrigentinae civitatis efficaciter et, cum consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat obedientiam et reverentiam, sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°). Si ripristini ad Agrigento la fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava infranta.

Vediamo questo diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo Guglielmo di Peralta, conte di Caltabellotta della diocesi di Agrigento, salute. Ed al magnifico  diletto figlio, nobiluomo Giovanni Chiaramonte, signorotto (domicellus) della diocesi di Agrigento, nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di Mazara, a Manfredi Chiaramonte, (domicellus) della diocesi di Siracusa, a Benvenutode Graffeo, signore di Partanna della diocesi di Mazara.» Il pontefice mostra di conoscere molto bene la mappa del potere feudale in quel frangente storico, come dimostra il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva di cui abbiamo citato l’indirizzario.

Ma particolare attenzione viene rivolta a Giovanni Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e domina sull’intera provincia agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i Del Carretto, argomento ex silentio, quanto si vuole, ma pur sempre circostanza rivelatrice). Sottolineamo questa lettera del 20 gennaio 1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi buoni offici tra la Regina di Sicilia e Federico d'Aragona - secondo il tenore delle lettere per Nicolò de  Messana, Pietro d'Agrigento custodi delle custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.» (Reg. Vat. 268, f. 247). In ben sei lettere papali a Giovanni Chiaramonte, questi viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso periodo sono sette le missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il papa avignonese Giovanni Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato “domicello dell’isola di Sicilia”.  In appendice citami altri diplomi vaticani ad ulteriore esemplificazione dell’importanza rivestita dai due Chiaramonte, succedutisi nella signoria di Racalmuto in quel torno di tempo tra il 1371 ed il 1375.

Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si denomena dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...»  Il processo verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico nella casa dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e imperiale «presentibus reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti Severini Majoris de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo Pictingna de Messana milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii de Florencia, Manfredo de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio Pictngna de Messana et aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol. 4.]

Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituiisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame smentisce in pieno.

«Cum zo sia cosa ki - soggiunge il conte di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che ha il suo fascino - a nuy sia debitu procurari vostru beneficiu et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu, idcirco vi significamu ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et la celebracioni di li missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di quistu Regnu, et maxime per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay discurrendu per diversi terri et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et fichimu juramentu di observari la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ... observirà et hannu juratu li altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la universitati di Palermu et di Girgenti; per la quali concordia esti commisu a lu venerabili misser Bertrandu, capellanu et nunciu apostolicu et collecturi deputatu per nostru signuri lu papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di lu interdictu, ki pagandu vuy chauna universitati oy locu la taxa imposita et consueta, comu ànnu pagatu li altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la auctoritati a ssì commissa relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu divinu officio et la celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu et comandamu ki vuy, officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna terra et locu predicti ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu supradictu. Et pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu fari quista nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu, cum li nomi di li terri et loki infrascripti. Datum in  castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII indictionis [rectius: XIII indictionis = 1375].

«Nomina terrarum et locorum sunt hec, videlicet:

 

Spackafurnu -         Naru  -               lu Mucharu -    Sanctu Stephanu -        la Petra d’Amicu

Sicli -                       la Delia -            li Glubellini -   Perizi -                          Calatrasi

Modica -                  la Favara -         Sutera -            lu Palazu Adrianu -      lu Misilendinu

Ragusa -                  Monticlaru -      Manfreda -       Cacabu -                       Camarana

Claromonti -            la Licata -         Camastra -        Chifalà -                       Petra Russu

Odorillu -                Rachalmutu - Castrunovu -    Misilmeri -                       ________

Terranova -             Guastanella -      Bibona -           la turri di Capublancu -    Et cetera

 

Copia di B. du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»

 

Ancora una volta le singole università dievono dunque nominare tre probiviri (tri boni homini) i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la ficcante tassazione.

L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese di arricchisce di unaltro importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi diviene nullo.

Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo);  il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.

Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto.  Dal nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamento Racalmuto.

Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:

«Item eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27 (anziché 27) dato che così andava ripartita:


 

 

quota individuale

totale in tarì

pari ad onze

e tarì

numero fuochi

136

 

238

onze 7

tarì 28   

ceto medio (1/4)

34

2 tarì

68

 

 

benestanti (1/4)

34

3 tarì

102

 

 

poveri (1/2)

68

1 tarì

68

 

 

 

 Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dipersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento, come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.

Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.

Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi censuari. Abbiamo solo muneri simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per le legge o per dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessabili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte dell’ordierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.

 

 

Racalmuto alla fine del Trecento

 

 
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro  - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.»  Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
 

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