lunedì 2 settembre 2013

storia di Racalmuto -- temppi moderni


 

GIROLAMO I DEL CARRETTO

 
 
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed  avesse in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona documentato  l’insigne virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
 «Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra  è ben chiaro che Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli  testimoni ampiamente comprovano.»
 
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del serenissimo  Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576, [1] esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. [2] Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 [3], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. [4] di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese [5] - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto imperio, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale.  Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
 

Peste e tasse a Racalmuto

 
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto]  restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570  Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle  sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà,  come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato  ... ,  à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto,  che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza  sia quello mezzo che si concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora  della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali  «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus  ... conservatore [f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..»
 
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto -  ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
 
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
 
 
è stato supplicato da parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
 
e vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di rendita.
 
*     *    *
 
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
 
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con  quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese  come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.

 

Popolazione racalmutese nel 1577

 
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576. Il crollo demografico di quell’anno irreversibile (anche se fu dovuto  più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze  d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per “tande”.
 
 

Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto

 
 
In prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione (transactio et accordium) [6] tra il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
 
 
Il carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito consiglio del 1580:
 
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello, e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità, e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij nonae Ind. 1580.
 
Il 3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del Carretto.
 Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco; sapiti ch’avendosi  tanto tempo  ed anni litigato infra l’università di questa terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.: supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni,  renunciationi, stipulazioni giuramento firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio: Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto magnifico Gio: Vito d’Amella, 
 
        
 
Già tutti voi esistenti in lo consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
 
 
Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
 
 
per lo quali si havi di promittiri di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia imposto perpetuo silentio:
 
Testes magnificus Marianus Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med:  doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice, Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d. Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
 
*   *   *
Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese, nell’ultimo ventennio del Cinquecento.
All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a prezzo prestabilito.
All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che si arguisce dall’ex voto del Monte.
All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del ’500.
L’art. 4 disciplina l’istituto della “baglia”, una magistratura feudale che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai locali regolamenti di polizia. 
 
L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina, ovina.
 
L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte feudale.
L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
 
L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere intensamente coltivato.
 
 
L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle vigne e sulle licenze comitali occorrenti.
 
L’art. 10 concerne la nomina del “rabbicoto” il commissario per il grano.
 
L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia  in natura come frumento, bestiame, etc.
 
L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.
 
Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.
 
L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.
 
L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono vacue le terre al di fuori del territorio feudale.
 
L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di Garamoli.
 
 
Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.
 
Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le  vendite abusive di abitazioni all’interno dell’abitato di Racalmuto.
 
L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.
 
L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
 
Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.
 
L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se non nelle forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.
 
L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è raggiunto.
 
L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre “strasattate”.
 
 
L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del conte che da parte dell’Università.
 
L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre ingabellate inferiori a salme 50.
 
L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni d’imposta.

 

L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.

 
 
 
Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[7] sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti.  Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
 
Quale il rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento fatto  a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò volle  e non altrimenti né in altro modo.»
«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure locali,  personaggi pubblici.
«Racalmuto 28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.
«Testi ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»
 
 
Identica relazione fanno i sotto indicati personaggi:
nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto “pratica et canuxi la sua manu”;
magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;
Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».
 
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
 
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.

GIOVANNI IV DEL CARRETTO

 
 
 
 
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione  delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
 
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
 
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni [8] «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo  riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
 
 Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannâro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
 
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo  - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).

 

 

L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto. Il Sant’Offizio.

 
 
Ma dobbiamo al Garufi[9] queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante]  - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto[10] con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.  [...]».
 
Ed  il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto  passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato  per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
 
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo:  che “di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
 
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che  Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista -  faceva  al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale  del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
 
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
 
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
 
Morì il 2 [11] ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
 
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
 
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel  1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano [12] che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600 [13] , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.

Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.

 

La presa del possesso di Racalmuto.

 
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
 
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
 
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
 
«In relazione a ciò, nel predetto giorno,  lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture,  con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
 
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione  civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.
 
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
 
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
 
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
 
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
 
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.
 
«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.
 
«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.
 
«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami,  regio pubblico notaio del Regno.»
 
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584  - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.

 

Il “paragio”.

 
 
Tra tutti primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il “paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.  
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’)  e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
 
Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti [14] un  fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
 
I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).
 
Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni?  Tutto lo fa pensare.

 

Donna Aldonza del Carretto

 
 
Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
 
Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, [15] che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».
 
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.
 
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
 
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
 
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
 
Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
 
Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto, [16]  morta nel settembre del 1592.
 
 
 
 


 

Racalmuto secondo il rivelo del 1593.


 


I beni ecclesiastici di Racalmuto.


 

Il singolare vescovo di Agrigento Horozco, con cui già ci siamo imbattuti, ebbe modo d’interessarsi delle finanze ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad limina” della diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre, VIII^ ind. 1599[17]). Il vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia. Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto, preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il 17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].

Dalla documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era in grado di “ingabellare”  9.500 onze di rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in causa:

al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;

tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100;

l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.

Tirando le somme, i racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.

Ma, allora - come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.

ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA SECONDA META’ DEL CINQUECENTO


 


Don Aloysio (Lisi) Provenzano


 

Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.

In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi (come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).

La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come dal seguente atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano della Matrice.

La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.

Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio Crapanzano (ma trattasi di Provenzano) ... del tenor seguente: .. da parte del rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della giusridizione di V.S.  ... In tempi passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello inter alia capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in satisfatione de suoi peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni hereditari durante la vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in die lunae cuiusvis hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per ipse esponente. Et mancando, che tali  tarì dudici li havissero li frati di ditto convento durante la vita di esso esponente, si como per ditto legato appare in ditto testamento fatto ni li atti de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto testatore, che havea stato in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale legato et li frati di ditto convento quello si exigero con diri che ipsi voleano dire tali missa.

Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si dichiara disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma i frati sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella messa nella chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità di adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può celebrare

ditta missa per la repugnantia di ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere et comandare che ipso exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto defunto che di ditti tarì dudici anno quolibet  staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat. ..

Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il vescovado.

Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di un legato in suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì per una messa la settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei propri peccati investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i frati siano riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia stato quest’ultimo a venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.

Il documento è comunque importante perché ci fornisce qualche dato sul convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che dispongono della chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere  che essi fossero già insediati. Nel 1548 il convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso  datata 21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro Vescovi 1547-48, p. 142).

Con i padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un legato del 1545. Il convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il 1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed al convento ma in questi termini:

Del pari lo stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo del Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare delle messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che sia costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal suddetto erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due anni dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del predetto testatore e dei suoi predecessori.

Inoltre decide di venire sepolto nella chiesa di S. Francesco con l’abito francescano:

Item elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.

Anche da qui emerge che S. Francesco esisteva da tempo.

Il Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del suo sacerdozio tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè del testamento del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo prima del 1520. Morì attorno al 1597.

Nel 1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo su una casa una volta appartenuta a Violante Petruzzella:

Actus donationis o. - 6.

Pro ven: Eccl. Sanctae Marie inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.

Die xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584

Reverendus presbiter Aloisius Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl. Sanctae  Mariae Inferioris dictae terrae per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit et habet in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum Joseph Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus  facti in actis meis die etc.

Testes m.j Joseph Lomia et Jacobus de Poma.

Arciprete Gerlando D’Averna


 

Con bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio Segreto Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 -  f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna). La bolla viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.

Pius episcopus servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae archipresbiteratus nuncupatae Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.

E’ del tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur sempre un riconoscimento di meriti:

Vitae ac morum honestas aliaque laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus apud nos fide digno commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.

Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita fosse di concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il papa mostra di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:

Dudum siquidem omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis auctoritate scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.

In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il beneficio di Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del Papa.

 Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris sponte factam  et per nos admissam apud Sedem predictam vacantem.

L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.

Noi, quindi vogliamo concederti una speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale censura, disponiamo che tu ottenga tutti i singoli  benefici ecclesiastici con cura e senza cura (d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro  come tu stesso affermi.

 E vogliamo ciò  anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma speciale e generale.

Pertanto ti conferiamo il beneficio con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.

 

Intorno a quanto precede, diamo mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/ nonché al diletto Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente o per il tramite di qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale possesso della chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto della chiesa parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti qualsiasi contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria, nostro predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso decreto riformatore.

 

Vogliamo che tu comunque entri in possesso di detta chiesa parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento o presso chiunque altro che sia stato dalla Sede apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei beni della chiesa, non gli si accordi costrizione o interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione, presentazione e qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che separatamente, non può provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena ed espressa menzione, parola per parola, alla presente, la quale ha forza di annullare qualsiasi altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede apostolica.

 

 

La complessità della bolla invero illumina poco sulle peculiarità parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali, del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.

L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento. E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.

Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità negli atti di battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il primo quinterno è incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.

L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:

24 5 1576 Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;

madrina:  Juannella di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.

 

Va, quindi, fugato il  sospetto che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto percepito i proventi della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579 che subentra l’arc. Michele Romano.

Don Vincenzo D’Averna


 

Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel “liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di quel cappellano.

Don Giuseppe D’Averna


 Appare per la prima volta in un atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31 agosto 1578:

Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores venerabilis  ecclesiae Sanctae Mariae Inferioris ...

Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:

14 2 1580 Vincentia    di Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di Averna  la q. Betta la Carretta'.                                              

 

E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua morte che il ‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata .. cit. col. 1. n.°  13). Una malcerta annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo dubbio per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di

3    7 1598 Margarita donna di Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto, per don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna Piamontese                                                            

 

Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto, conte di Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre del 1587.

Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al 1590, con il nobile Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello di Racalmuto nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.

Clerico Blasi Averna


 

Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali tal Clerico Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione della Matrice:

7 1 1601 Averna Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il sac.Macaluso Jo:

Don Monserrato d’Agrò.


 

Compare come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli esordi dell’arcipretura Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito da parte dei fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la concessione di sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce il suo benestare nella cennata veste di cappellano:

Praesente ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante de praesente attu et omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.

 Ma negli ultimi giorni di agosto dell’anno successivo è già infermo e si accinge a fare testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita annua di un’onza e 3 tarì.

In un atto della chiesa del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di concessione in termini che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei racalmutesi dell’epoca.

Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48 anni. Abitava, apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da questa nota del rivelo del 1593:

3 149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI ANNI 45

 

La cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae Majoris prope  Cappellam Sanctae Mariae Itriae in frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si parla, infatti della dote Cappellae Sancti Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).

Per quel che ci dice il Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:

Est sciendum quod inter alia capitula donationis causa mortis facta per condam don Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus est infrascriptum capitulum tenoris  ....

Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone d’Agrò che approvò la transazione feudale con il conte Girolamo del Carretto nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la sua firma come teste.

 

I primi cappellani:


don Vincenzo Colichia;


don Antonino La Matina;


don Dionisi Lombardo;


don Antonio Castagna.


 


 

Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è composto di n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563  (adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.

Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio). Non riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né quello che si considera il suo predecessore,  don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).

I cappellani officianti risultano:

 don Vincenzo Colichia;

 don Antonino La Matina;

 don Dionisi Lombardo;

 don Antonio Castagna.

 

La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e per don Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti” (prete).  Di nessuno di loro si fa il più vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare soltanto il cappellano don Antonino La Matina.

 

I cappellani del periodo successivo (1570/1571):


Don Vincenzo d’Averna;


Don Jo Cacciatore;


Don Antonino D’Auria;


Don Giuseppe Garambula;


Don Antonino La Matina;


Don Filippo Macina.


 

E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che spesso presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo già abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don Antonino La Matina, presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul D’Auria, Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8).  Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina ed il Garambula appaiono oriundi.

 

I cappellani del periodo 1575/76


Don Vincenzo d’Averna;


don Lisi Provenzano.


 

I salti della documentazione disponibile ci portano a questa quarta indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza. Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna

I cappellani del periodo 1579/1582:


Don Michele Abate;


Don Monserrato d’Agrò;


Don Lisi Provenzano;


Don Giuseppe d’Averna.


 

Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.° 18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono Luigi Provenzano morto il 20 luglio 1600.

I cappellani del periodo 1583/84:


Don Monserrato d’Agrò;


Don Francesco Nicastro;


Don Paolino Paladino;


Don Lisi Provenzano.


 

Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in qualche battesimo. Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta don Francesco Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel Liber, ma senza alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.

Don Giuseppe Romano


 

Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:

Die 24 ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.

L’arc. don Michele Romano era morto solo da poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è congetturabile.

Arciprete Michele Romano


 

Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine racalmutese. Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna. Muore il  28 luglio 1597, prossimo al suo ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto sta che il vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per rivendicare i beni successori del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra l’altro si legge:

« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la spoglia[18] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »

A distanza di secoli non è facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano durante la sua vita non si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte è persino propenso a favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij, falsi  e litigiosi».

L’arciprete Romano deve vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto - divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore, l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio 1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo. L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel 1581, oneri e tributi di vassallaggio.

Quando scende a Racalmuto un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un personaggio eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è ovviamente presente:

“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare l'Ill'S.ora Donna Maria del Carretto''

In ogni caso, nei raduni del popolo, chiamato ad avallare gravami tributari, l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al di sopra delle parti e non appare neppure come teste.

Arciprete Alessandro Capoccio


 

Il Vescovo Horozco lo nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di formalissimi  atti notarili. Presso la Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:

«DIE 16 Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO (?) procuratori di don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I -  1582-1600 )

Tre anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a Roma, al posto del Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina' dei Vescovi di Agrigento al Papa[19]. Nell'atto di delega del 12 settembre 1595 "Don Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.

In Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento) - ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per niente compiacente (f. 36v e 37).

Sintetizzando e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:

«Depone il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e residente per il momento in questa  corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don Juan de Horoczo y Covarruvias  di vista  e solo da due mesi, poco più poco meno, e di non essere né familiare né parente dell’ Horozco».

 Salta quindi ben dodici domande che attenevano alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La sua testimonianza è quindi molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento (circostanza che non ci pare qui conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento per esservi stato due anni, poco più poco meno’.

Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[20] Quel che appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.

I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500

CENNI INTRODUTTIVI


 

Non crediamo che vi siano  stati conventi a Racalmuto nei primi quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il convento di S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine dei Minori Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don Lisi Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni del Carretto).

Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino presso Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a ritenere che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.

Quanto all’altro convento francescano, quello dei Minori di Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia la sua attività nei primi anni del ‘600.

Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi femminili a Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare verso il 1645.

Convento di S. Francesco.


 

Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il convento di S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono i padri minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni del Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a questo convento racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il maltese Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e, descrivendo le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S. Francisci”, prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:

LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis  pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus 1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno 1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico Claramontano constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata.[21]

Dunque non era nota la data di fondazione, per la distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta, giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.

Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non aveva tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per la sua cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae, che dunque nel 1560 era attivo.

Francescani conventuali nel 1593


Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che nel 1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:

1
1593
COLA  ANDREA
GAITANO
PADRE PRIORE
2
1593
GIOVANNIANTONIO
TODISCO
FRA
3
1593
SEBASTIANO
D ' ALAIMO
FRA
4
1593
FRANCESCO
BARBERIO
FRA
5
1593
GIO
BARBA
FRA
6
1593
LODOVICO
DI  SALVO                          
FRA
7
1593
GIUSEPPE
LA MATINA
FRA

 

Francamente non conosciamo granché di tutti questi francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo punto stabilisce:

Et voluit et mandavit ditta donatrix quod dittus Jacobus donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato solvere uncias decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti Francisci, filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos duos cursuros et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est anno quolibet  in fine unc. unam in pacem pro vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et solutis dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et successores teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere unciam unam  redditus supra dicto loco de supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae Racalmuti eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu in perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti cuiuslibet anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius anima ipsius donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres dicti ven. conventus

Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.

Il guardiano padre Cola Andrea Gaitano


 

La Morreale si ricorda di questo priore anche a proposito della sistemazione della non  chiara vicenda del lascito da parte del marito di  un vestito appartenente a don Cesare del Carretto. In dialetto, ella dispone piuttosto prolissamente che:

Item ipsa donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et donat ditto ven. conventui Sancti Francisci  ditte terre uti dicitur: una robba di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et quelli denari convertirli et expenderli in   subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.

 

Il nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non è certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri sei fraticelli.

Fra Ludovico de Salvo


 

 La famiglia cui apparteneva fra Ludovico Salvo è così censita nel rivelo del 1593:

36
360
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45
Nora de Salvo moglie; Santo anni 14; Ludovico 11; Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
confina con  La Lattuca Paulino
abita  al Monte

 

Nel 1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato oltre. Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:

Ludovico di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602  ... S. Francisci

Fra Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di battesimo:

19
7
1581
Lodovico
Rogieri m.o
Salvo
Nora

 

 

Fra Sebastiano d’Alaimo


 

Semplice frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali. Nella visita del 1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:

Frater Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex menses

Risulta dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597. Null’altro ci è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.

Il Convento del Carmine.


 

Per il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540) contava 10 religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per 46 anni il racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce questi dati biografici:

Paolo Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo tempio; curò l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e nell’anno della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel Signore.

Fra Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del cenobio carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato accanto alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili sorgeva invero da tempo, a dir poco dal 1540.

La chiesa, invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni del Carretto che così ne accenna nel suo testamento:

Item praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas centum triginta in emptione lignaminum et tabularum  facta per Magistrum Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum heredem particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu, et uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti, et voluit  quod debeat expendere unceas quindecim in pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum annorum trium.

 

Nel 1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e doveva soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non è attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa. Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.

I carmelitani racalmutesi del secolo XVI


 

Nel rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:

1
1593
PAULO
FANARA
PADRE PRIORE
2
1593
RUBERTO
COSTA
PADRE
3
1593
SALVATORE
RICCIO
FRA
4
1593
FRANCESCO
SFERRAZZA
FRA
5
1593
ANGELO
CASUCHIO
FRA
6
1593
GEREMIA
RUSSO
FRA
7
1593
GIUSEPPI
RAGUSA
FRA
8
1593
ZACCARIA
RICCIO
FRA

 

Fra Paolo Fanara


 

Nella visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato fugacemente come confessore approvatoed indicato semplicemente come  “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del Carmine”.

Fra Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in un documento del 1614[22]  in cui si briga per consentire una “fera franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.

«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX° octobris XIII^ ind. 1614.»[23]

Nel 1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita di S. Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla celebrazione del matrimonio di qualche racalmutese in vista.

Fra Salvatore Riccio di Racalmuto


 


Dalla solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato alle confessioni per sei mesi:

Frater Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.

A dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del cognome. Se Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.

Fra Zaccaria Riccio


 

Anche in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un chierico a nome Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti di trascrizione matrimoniali  della Matrice dal 1598 in poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:

cl: Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias vocatus Leonardus

Tratterebbesi di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di battesimo:

5
9
1581
Rizzo
Leonardo
Martino
Norella

 

Ma resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello carmelitano ed il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della curia vescovile di Agrigento.

Fra Angelo Casuccio


 

Nel 1608 lo ritroviamo fra i confessori:

P. Angelo Casuchia

Stando al Liber in quo ..  sarebbe morto il 4 febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano del 1593 ed il sacerdote che del 1608  vi sia identità di persona. Noi siamo per la tesi affermativa e pensiamo ad una secolarizzazione del giovane fraticello del Carmine. Il Casuccio che s’incontra in Matrice è chierico tra il 1598 ed il 1600 e figura come diacono in un atto di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12 gennaio 1601 è già stato, comunque, ordinato sacerdote.

Fra Francesco Sferrazza


 

Analogo dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della Matrice figura un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come don Francesco Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).

A quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608, ove è reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:

D. Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm ... quas dixit amisisse

Costui era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi di quella relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:

Sequitur Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri Iesu Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza propriis expensis. et adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter ornatum super quo est Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum, est bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q. Antonino praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet hebdomada quae celebratur a Cappellano Ecclesiae

Habet etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio inius orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o Antonino Sferrazza.

 

Da altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante famiglia degli Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere l’identità con l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta fu peraltro anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio 1630.

Se fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa, come sembra, nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.

Fra Giuseppe d’Antinoro


 

                                                 

Dalle brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio del ‘500 affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti a Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un carmelitano, che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente celebrato nella chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era occorso il benestare del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra certo La Licata Paolo di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse le nozze l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il citato fra Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva nella matrice.

11  9  1584 La Licata Paolo di Paolo             e di Angela con La Matina Antonella di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele arciprete. Testi: Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro benedetti nella chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi. Agrigentini  

Due religiosi di fine secolo:


fra Antonino Amato;


fra Pasquale Di Liberto


 

gli atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi due monaci, di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un qualsiasi altro dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in queste annotazioni d’archivio:

1 9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di Joanne Benedice le nozze: Amato frati Antonino. Testi: Todisco Pietro e Rotulo Pietro

 

30 9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con Aucello Antonella di Paolo e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di Liberto frati Pasquali.

 

Nella visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra Antonino Amato: che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi per affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:

Notamento di confessori di S.to Francisci:  il p.re guardiano - fra. Antonio di Amato.

 

 

 


 

Giurati a Racalmuto a fine ’500


 

I giurati di Racalmuto allo spirare del secolo XVI sono:

Nicolò Macaluso: ha 45 anni; abita nel centro del paese, al 159° fuoco del quartiere di S. Giuliano; la moglie si chiama Francesca ed è coadiuvata nei servizi di casa da Dora una “citella di casa”; non ha figli che coabitano con lui;

Giuseppe Cacciatore: ha 42 anni e viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 226° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con lui quattro figli: Giuseppe di anni 11 e le femminucce Caterina, Franceschella e Contessella;

Giuseppe Vilardo: ha 30 anni ed anche lui viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le femminucce  Franceschella, Costanza, Innocenza, Angela  e  Fania [Epifania];

il notaio Giuseppe Sauro e Grillo: ha solo 25 anni ed è sposato con Antonella: non ha figli; professionalmente si affermerà molto; frattanto abita al quartiere di S. Giuliano al 167°  fuoco; si era sposato a Racalmuto il 20 settembre 1592 appunto con  Antonella Magaluso e le nozze erano state benedette da don Francesco Nicastro: compari, il sac. don Paolino Paladino e il maggiorente Giovan Francesco d’Amella. Abbiamo l’impressione che il Sauro e Grillo non fosse racalmutese: il matrimonio con una locale gli poteva consentire di installarsi nel feudo dei del Carretto per una esplosiva carriera ed una fortunata professione notarile.

 

Sono chiamati a fungere da delegati per il Rivelo:

per il principale e più popoloso quartiere di Santa Margaritella:

Martino di Messina: ha 35 anni circa; abita al quartiere Fontana al 29° fuoco; la moglie si chiama Catherinella ed ha un figlio di otto anni;

Vincenzo di Amella Pridicaturi: ha 40 anni; abita al quartiere Santa Margaritella al 369° fuoco; la moglie si chiama Biatricella; ha tre figli maschi: Giuliano di anni 9, Giuseppe di 6 e Diego di un anno, ed una femminuccia,  Jurla [Gerlanda];

per il  quartiere di San Giuliano:

Giovanni Antonio Sferrazza: secondo noi risiedeva al quartiere Monte di cui, come detto, non abbiamo il quinterno di dati demografici;

e per il quartiere della Fontana:

Giovan Cola Capoblanco;

Natale Castrogiovanni;

Pietro Bellomo.

Di questi tre personaggi non abbiamo notizie certe: dovrebbero tutti e tre abitare al quartiere Monte.

 


 

Chiese, quartieri e facoltà nel rivelo del 1593


 

I ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.

A quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza). In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S. Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di nord-ovest.

All’interno vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.

 

 


 




[1] ) (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1]
[2] ) (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[3] ) (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f. 242 retr.]
[4] ) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta di VICARI, e porta di MACQUEDA]
[5] ) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 17
[6] ) PALAGONIA . N.° 709 ANNI 1613-1749 - N.° 2
[7]) Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 509 - f. 52-55.
[8]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato - Palermo 1989, pag. 334-335. Trattasi della ripubblicazione di un testo manoscritto del 1627 (una trentina d’anni dunque dopo la conclusione degli eventi).
[9]) C.A. Garufi - Fatti e Personaggi dell’Inquisizione di Sicilia - Edizione Sellerio, Palermo 1978, pag. 255; 260; 260 e 262-263
 
[10]) Il Garufi non indica con precisione gli estremi di questo Rapporto.
 
 
[11]) Nel libro dei Morti della Matrice di Racalmuto del 1614 alla colonna n. 83, n.ro d'ordine 17, leggesi:
 
«2 dicto [maggio 1622] il Ill.mo D. Ger.o [Geronimo] del Carretto fu morto e sepp.[llito] nella ecclesia di S.to Francesco per lo clero». Dai processi d’investitura sappiamo che era morto  il giorno prima 1° maggio 1622.
 
 
[12]) Crivella A. -Trattato di Sicilia - Palermo 1970
 
[13]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi d’investiture - Busta n. 3542 - Contea, terra e castello di Racalmuto - del Carretto Francesco (così erroneamente indicato, ma trattasi di Giovanni del Carretto)   
[14]) Archivio di Stato di  Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 204:
«ex actis meis notarii Angeli Castro Joanne Racalmuti -
«Est sciendum qualiter inter alia capitula testamenti solemnis et in scriptis quondam don Vincentij del Carretto sacerdotis, ultimi sub quo decessit, facti in actis meis notarii infrascripti die XV° augusti VII ind. proximae praeteritae 1624, aperti et publicati in eisdem  actis meis sub die XVIII presentis  mensis septembris  VIII^ inditionis instantis, extat capitulus ut infra:
«“Item dictus testator legavit et legat de summa illarum unciarum quadraginta novem redditus supra statu et baronia Ciramis vigore contractuum superius expressatorum  uncias duodecim redditus Ven: Conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo terrae Racalmuti pro celebratione unius missae de requie pro anima Ill.i Don Hieronimi del Carretto comitis Racalmuti eius fratris.”»
Se ne ha la riprova nell’atto di donazione del 10 luglio, IIIJ^ Ind.  1621 (ASP - Protonotaro Regno - Investiture - Busta n.° 1569 -  Processo n. 4074 - 1621 -   f. 10) che recita:
 «.. Don Vincentius del Carretto frater ipsius Don Hironimi comitis et avunculus dictorum Don Joannis et Donnae Dorotheae...»
[15]) vedi testamento reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 501.
[16]) Archivio di Stato di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie Investiture - Busta n.° 141-  Anni 1636-48 - f. 118.
[17]) Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad limina - 18A - f. 5. La relazione economica è al f. 16 e ss.
[18]) Ciò che alla morte del prelato ricade nel dominio del Governo durante la sede vacante:  spoglio.
[19]) Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad Limina - 18A - f. 1.
In spagnolo, il Covarruvias così presentava il Capocho alla Sacra Congregazione competente:
«Quando no veniera negocios en esta Corte a que embiar a Don Alexandro Capocho mi secretario, me diera contento embiarlo a hacer riverencia a V.S.Ill.a y darle cuenta de las cosas de por aca, como lo hara Don Alexandro ...el obispo de Girgento».
[20]) Cfr. Atti Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I -  1582-1600. E’ ivi annotato: «Di la maiori ecclesia di Racalmuto pigliao possisioni don Andria Argumento  a li 7 di  marzo XIII ind.1600».
[21])  ALMAE SICILIENSES PROVINCIAE - ORDINIS MINORUM CONVENTUALIUM S.FRANCISCI - a patre magistro Philippo CAGLIOLA - a MILITA.
"Sicilia francescana secoli XIII-XVIII a cura di Filippo ROTOLO" Venetiis, MDCXLIV - Officina di Studi Medievvali - Via del Parlamento, 32 - 90133 PALERMO - 1984. pag. 108 [Petrus Rodulfus THOSSINIANUS, Episcopus Senegallensis ordinis nostri, in Historia Serafica - v. per RACHALMUTUM lib. 2] .
[22]) Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol. 506 - f. 1.
[23]) Il prosieguo del documento è in latino e recita:
«Cons. Ref., eodem, Ad relationem U.J.D. Francisci la Rizza fuit provisum quod concedatur petitio et fiat actus in curia juratorum, Joannes Gulielmus secretarius etc.».
 
Più complesso il seguito che trascriviamo per gli eventuali cultori della lingua latina in uso nella curia racalmutese del primo Seicento:
 
 «Die XXI ottobris XIII^ Ind. 1614:
 
«fuit provisum et mandatum per Ill.mum Dominum Comitem Don Hyeronimum del Carretto Comitem huius terrae et Comitatus Racalmuti ad relationem U.J.D. Francisci la Rizza consultoris, vigore provisionis fattae in dorso memorialis venerabilis fratris Pauli Fanara prioris venerabilis conventus Sanctae Mariae de Monte Carmelo, eiusdem terrae, sub die 20 praesentis mensis
 
 
«quod otto de numero dierum sexdecim nundinarum quae antiquitus fiebant in hac praeditta terra et in festivitate Divae Margharitae et postea translatae in festivitate divae Mariae Jesu, eiusdem terrae solitae fieri in die in die secundo mensis Julij cuiuslibet anni cum illis franchitijs pro ut hactenus servatum fuerat.
 
«Intelligantur et sint concessae ditto venerabili conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo pro ut vi praesentis actus perpetuo valituri, spectabilis ill.mus Comes per se et suos etc. tribuit et concessit eidem ven: conventui Virginis de Monte Carmelo eiusdem terrae  nundinas praedittas pro maiori decoro et devotione festivitatis dittae Beatae Mariae Virginis de Monte Carmelo celebrandae in dominica tertia cuius libet mensis Julij cuiuslibet anni in perpetuum fiendas ante eccelsiam et conventum praedittum per dies quatuor ante et dies quatuor postea dittum festum
 
«et hoc cum omnibus et singulis franchitijs et alijs pro ut dittae nundinae gaudunt et sunt exemptae ab omnibus gabellis ditti ill.mi domini comitis ut supra dittum est et non aliter.
 
 
«Remanentibus tamen de numero dierum sexdecim nundinarum praedittarum divae Margharitae alijs diebus octo pro ditta ecclesia et Conventu Sanctae Mariae Jesu eiusdem terrae fiendarum quoque antea dittam ecclesiam et conventum dittae Sanctae Mariae de Jesu pro ut hucusque servatum est, in festivitate dittae Beatae Mariae Virginis de Jesu quae celebratur in die secundo cuiuslibet mensis Julij in perpetuum,
 
« hoc est pro diebus quatuor antea et diebus quatuor postea dittam  festivitatem et cum franchitijs et aliis ut supra dittum est e non aliter nec alio modo etc.
 
 
 
 
«Unde ut in futurum appareat fattus est praesens actum in curia juratorum huius terrae praedittae juxta ordinem et provisionem praeditti ill.mi D. Comitis suis die loco et tempore valitures etc.
 
«Unde etc. -
 
«Ex actis Curiae Juratorum huius terrae et Comitatus Racalmuti, extratta est praesens copia - Coll. Sal. - Sanctus Poma, magister notarius.»

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