giovedì 12 settembre 2013

sabato 5 gennaio 2013

sabato 5 gennaio 2013

“STORIA RELIGIOSA DI RACALMUTO” Studi e ricerche

PICCOLA PREMESSA
questo che pubblico è vecchio materiale e trattasi di un dattiloscritto di una ventina di anni addietro. Molta roba storica va rivisitata. Successive ricerche d'archivio affinano, puntualizzano ed in qualche modo correggono taluni tratti storici della nostra Racalmuto. Mi si dice che sono supponente. Sono solo supponente con i supponenti. Vediamo un po': Sciascia, il grande Sciascia cade se non in contraddizione, di sicuro in una disattenzione (a meno che non si trattasse di maliziosa dimenticanza). Parlando del suo anico e collega E.N. Messana, lo accredita della "pubblicazione, nel 1969, della terza storia del paese ... voluminosa, FITTA DI NOTIZIE" (v. pag. 8 del commento delle Memorie del Tinebra). Poi forse distratto o forse troppo attratto dalle teoriche del Castro sulla storia "narrabile", chiude il  Nostro dichiarando "limitato il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e da manoscritti". Non ci resta, poeticamente, quindi di spillarne di "moltissime e di sottili e lunghi tentacoli" come "quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria". Non è mestiere che ci si addice quello di rincorrere se non storia manco cronaca da siffatta memoria. Finimmo come stordito vecchio insegnante dalla saccente pedanteria quando un nocino sciasciano si vide andare in frantumi una sua storiella sui del Carretto, dopo essere finito nella biblioteca di Finale Ligure ed avere avuto curiosità a sfogliare un nostro volumetto, dissolvente invero la fondatezza di tutte le spese sostenute e sostenende dal Comune per la nota tragicommedia del gemellaggio con il marchesato di Finale Ligure.
Non cessano qui le nostre disavventure: avevamo dato il materiale che qui ostendiamo a padre Puma perché se ne servisse per una sua pubblicazione. Ovvio che doveva rieleborare il tutto, se no finiva coll'essere un plagiario. Padre Puma non ottenne fondi dal Comune e abbandonò l'idea. Ma se non lui , un giovinetto vi cadde nel plagio: avuto fra le mani, morto l'Arciprete, il dattiloscritto, non si appropriò solo delle notizie storiche che avevo ricostruito con ricerche d'archivio in Vaticano, ma si rivestì anche del mio stile di scrivere e di porgere che credo inimitabile. Comunque sono cose belle e stampate sotto alieno autore. Verrò querelato?. Cercherò di difendermi dall'accusa di essere dopotutto io il plagiario.
 Calogero Taverna
P.S. Qualcuno si chiederà: ma chi sarà mai codesto che ha voglia di irridere alle ricerche sugli inesistenti marchesi Del Carretto finalesi finiti a Racalmuto. Presto detto, è il tipografo osannato da Sciascia FRANCO SCIARDELLI, quello che stampò GLI AMICI DELLA NOCE. Scrisse  un libricino, invero elegante non solo tipograficamente ma anche nella grafia dei concetti. Ma quello che voleva dimostrare era cosa che i miei documenti coevi domostavano essere cazzabubblole. Stizzito ebbe a darmi del petulantino professorucolo, professore poi a me che non mai messo piede dietro una cattedra. Davanti per aprendere per decenni.

PRIMA DELLA STORIA

Racalmuto si affaccia sulla ribalta della storia - quella almeno documentata - molto tardi: bisogna attendere il 1271 per imbattersi in un diploma angioino ove il casale della diocesi di Agrigento è segnato in termini tali da non lasciare troppi dubbi sulla esistenza del paese. Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto nome arabo di Racalmuto.
Il toponimo “Racel ...”, ad evidenza corrotto ed incompleto, che trovasi nelle cronache del Malaterra, è da riferire secondo alcuni a questo  entro dell’agrigentino: di conseguenza esso sarebbe uno dei dodici borghi arabi soggiogati, violati e ricristianizzati dai lancieri di Ruggero il Normanno, nell’aggiramento per la conquista della Ghirgent di Kamuth. E Racalmuto nient’altro sarebbe che “Racal-Kamut”, Borgo o Fortezza di Kamuth - come del resto lascia trapelare la grafia del toponimo nel diploma del XIII secolo che si custodiva a Napoli, negli archivi angioini.
Altri si ostina a collegare una delle località descritte dal geografo Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale “Racarmutu”). Altri come Eugenio Messana, invece, reputa che il toponimo Al Minshar sempre dell’Edrisi non sia nient’altro che il Castelluccio.
Non manca certo l’erudizione, ma ci troviamo di fronte solo a vaghe congetture.
Noi, invece, restiamo presi da quanto afferma un archeologo del valore di Biagio Pace che, forse un po’ troppo avvalorando il nostro Tinebra Martorana, propende per la tesi secondo la quale le Grotticelle, sotto la contrada del Giudeo, sarebbero state adattate, nei tempi bizantini prossimi al papa Gregorio Magno, ad ipogeo cristiano.
E sulle ali dell’entusiasmo archeologico, avremmo voglia di ritenere che quella crocetta che è marcata in una Tegula Sulphuris, di cui parla qualche archeologo, stia ad indicare una presenza cristiana a Racalmuto addirittura sotto l’imperatore Commodo. Quelle Tegule - così approssimativamente denominate dal Mommsen - venivano fabbricate e vendute nel quartiere ellenico di Agrigento, ma il loro uso riguardava di sicuro le miniere di zolfo di Racalmuto - quelle della zona di Quattro Finaiti e dintorni. Secondo studi attendibili, questo avvenne sotto l’imperatore Commodo. Forse un liberto cristiano fu inviato nelle officine zolfifere imperiali della nostra terra e nelle sue Tegulae - le antenate delle moderne ‘gavite’ - fece incidere il segno della sua fede: la piccola croce che non è sfuggita agli archeologi della nostra epoca. Se è così, la presenza cristiana a Racalmuto è antichissima, quasi una predestinazione, un pionierismo i cui meriti si sono protratti nei millenni. Racalmuto è stata una chiesa salda nella fede: giammai vi ha attecchito la mala pianta dell’eresia: qualche presenza massone alla fine dell’Ottocento ha rappresentato semplicemente lo snobismo di qualche ex seminarista alla ricerca di intime rivincite o di moti liberatori da psicoanalitici complessi. Diversamente che da Grotte, qui da noi mai si sono avuti fomiti scismatici e giammai si sono espanse sette eretiche. La vicenda emblematica di Fra’ Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra’ Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Lo attesta la più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi.

LE PROBABILI ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO

Non v’è dubbio sull’origine araba dell’attuale Racalmuto: il suo nome lo attesta inconfutabilmente, anche se non significa sicuramente Paese Morto o Distrutto o simili assonanze funeree. I modernissimi arabisti (Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990) sconfessano la vecchia lugubre etimologia ma si avventurano in una infondata interpretazione: Racalmuto - dicono - “deriva dall’arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) ‘sosta, casale’ del Mudd <latino modium ‘Moggio’ “. “Paisi di lu Munnieddu”, dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L’immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Nell’antico diploma, quello angioino che abbiamo citato all’inizio, la grafia - per noi molto eloquente - è quella di rachalchamut
Uscendo dalle secche della toponomastica, sappiamo di sicuro che per un paio di secoli a Racalmuto ebbero il sopravvento i musulmani. Questi introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall’Amari descrivono la  coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l’attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag.  305-306: dal Kitab ‘al Falah (Libro dell’Agricoltura di Ibn ‘al Awwam). I secoli dal Nono all’Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto. Ma ebbe davvero a sparire il cristianesimo radicato nelle ‘massae’ attorno all’asse Casal Vecchio-Montagna dell’epoca bizantina? Pensiamo di no. Vi fu convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici rinvenuti nelle zone del Giudeo potrebbero risalire a quei secoli arabi, e sembrano testimonianze cristiane.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d’acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d’ortaggi, in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l’emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in quel documento greco  del  1178 abbiamo il  primo attestato storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande paleografo siciliano Salvatore Cusa (cfr. I di­plomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in   rahalhammut, per il prezzo di 50 ta­rì. A venderlo, nel settembre di quell’anno, fu tale Pietro di Ni­cola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il toponimo  Rachal Chammoùt (racal cammout) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più,  subito l’onta  dell’assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per volontà dell’invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.
Racalmuto normanna ivi citata, invero, è terra piuttosto frazionata: il fondo in vendita confina con parecchi proprietari di terreni che non dovevano essere molto estesi: chorafion è il termine greco usato proprio per significare un  fondo non vasto. I nominativi sono: a) Basilio Burrello, b) Martino di don Guglielmo; c) il fu Michele di Rosaneto, sacerdote; d) Niceforo Lipta; e) Rinaldo figlio del chierico Baldi; f) Nicola figlio del prete Michele; g) il fu  Giovanni genero di Filax;  h) Basilio  Gu­dela.
La preminenza dei ceppi sembra greca, ma i Rinaldo ed i Baldi  con i Martino fanno pensare a casati latini e normanni. Una mistura dunque di gente che sembra essersi ripartito il territorio saraceno del nostro paese. Vi si possono leggere i segni dei grandi sommovimenti feudali dei tempi di Margherita e di suo cugino Stefano Le Perche. Racalmuto che non figura mai nei diplomi della Chiesa Agrigentina, appare ora pertinenza di quel priore Berardo che ha tutta l’aria di un monaco benedettino. Forse ebbe ad impossessarsi per soli 50 tarì - cifra sicuramente esigua - di va­sti possedimenti cui erano addetti  i saraceni del luogo in condizioni di quasi schiavitù;   tutto fa pensare che dopo vi mandò i suoi monaci per  ergervi un convento e sfruttare le locali culture granarie. Nel   1308, a pagare le decime al Papa per Racalmuto abbiamo due nomi che nulla hanno a che fare con la nostra località, ma che proprio possono collegarsi con i monaci benedettini: Martuzio de Sifolono, titolare della chiesa di S. Maria, chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il prete  Angelo di Montecaveoso, tassato per nove tarì  in re­lazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Sono testimonianze postume che però sembrano condurci all’erezione del convento di S. Maria, divenuto francescano solo nel secolo XVI.
All’importante e fondamentale diploma  del 1178  ci ha portato, dicevamo,  il GARUFI, il grande storico cui fa ricorso Sciascia nella ‘morte dell’inquisitore’. Nel suo studio sui ‘Patti agrari e comuni feu­dali di nuova fondazione in Sicilia’ (cfr. Carlo Alberto Garufi, parte II dell’articolo, in Archivio Storico Siciliano, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota: «soggiungo che l’unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d’indagarne l’origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l’atto di compra-vendita, dell’a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell’a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».    
Purtroppo l’autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare questo documento con altro di analoga portata, alla luce di quanto scrive il Di Giovanni (ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera  poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.), e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sull’effettivo riferimento alla terra di Racalmuto.
Non si riferisca pure a Racalmuto, il documento tuttavia illumina sui processi di colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E benedettino fu certamente il primo convento che sorse a Racalmuto.

Un passo della Sicilia Sacra del Pirri testimonia della presenza benedettina a Racalmuto. Stralciando dalle colonne dedicate alla “Agrigentinae ecclesiae” (foglio 758 e segg.), veniamo resi edotti dal Netino che «Coenobium cum Ecclesia S. Benedicti prope viam, qua itur Agrigentum, & Rahyalmutum, de suffraganeis Ecclesiae Agrigentinae invenio excriptum in libro Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211; puto id esse hodie Monalium Annuntiatae Musumellis. Olim enim erat coenobitarum eiusdem Ecclesiae Annuntiatae. Vide ibidem». <!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]--> A dire il vero, l’abate Pirri si avvale dei Capibrevi del Barberi che risalivano ad un secolo prima. La descrizione del convento di monache benedettine sotto titolo dell’Annunziata interessa poco Racalmuto e resta una mera ipotesi quella del Netino che vuol far derivare il convento di Mussomeli da quello, già distrutto nel XVII secolo, che sorgeva nel nostro territorio. Quel che rileva è invece l’accenno ben preciso all’abbazia benedettina di Racalmuto. «Trovo scritto - ci par qui di dover tradurre il passo dal latino - nel Libro dei Capibrevi Ecclesiastici nei Registri della Cancelleria, foglio 211, che si ergeva un cenobio con una chiesa dedicata a S. Benedetto presso la via di congiunzione di Agrigento con Racalmuto e rientrava tra quelli suffraganei della Chiesa Agrigentina. Penso che esso sia lo stesso di quello che è oggi il convento di monache dell’Annunziata di Mussomeli. Una volta  apparteneva a cenobiti della Chiesa dell’Annunziata. Vedi colà.» Eugenio Napoleone Messana colloca, anche sulla scia di alcuni ruderi archeologici di una cisterna, quell’importante abbazia benedettina al vecchio Campo Sportivo.
Siamo franchi, il Pirri nei passi citati non è né perspicuo né convincente. Se un convento benedettino vi fu a Racalmuto, esso dovette essere ben più antico del 1466, diversamente da quanto sembra ritenere lo storico di Noto. Ai suoi tempi - e siamo attorno al 1630 - non vi erano più memorie documentabili. Nella visita pastorale del vescovo Tagliavia del 1542-1543 non è dato di rintracciare alcun riferimento all’abbazia.
Nella prima decade del 1300 rinveniamo, invece, un sacerdote officiante a Racalmuto che ha tutta l’aria di un benedettino, oriundo di Montescaglioso in provincia di Matera. Trattasi delle decime pagate per gli anni 1308 e 1310 ai Papi di Avignone. I tassati di Racalmuto sono due, come abbiamo avuto modo di dire, ed uno di essi è palesemente designato con il suo nome di religioso: Angelo di Montecaveoso
Costui appare come il primo arciprete di Racalmuto, stando almeno ai documenti disponibili.
L’ipotesi, dunque, che Racalmuto si avvii all’attuale conformazione ad opera dei benedettini non è poi del tutto cervellotica. Dovette avvenire la colonizzazione benedettina attorno al Dodicesimo-Tredicesimo secolo, alla stregua di quanto desumibile dal documento greco di S. Maria di Gadera che abbiamo prima revocato. L’opera contadina e civilizzatrice dei frati per tanti versi ebbe a sopperire alla grave crisi determinata dalla repressione dei saraceni da parte di Federico II.

GLI ESORDI STORICI

Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S. Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato in Sicilia per raccogliere il sussidio che  doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate  e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la sicilia dopo il vespro  - Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto  (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili.   In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra-Martorana hanno una qualche attendibilità - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di   paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai patronimici. 
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d’Aragona.                            
Non è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico - lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 
Per avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba.     
        Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo  calcolare in   meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni  dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     
        Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il Pirri, sarebbe stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del Collura, prima citato, dissolvono quella tradizione, così gradita al Tinebra-Martorana o a Eugenio Napoleone Messana. Il documento che ha dato adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo  momento aveva indotto in errore lo stesso P. Collura.            
        L’analisi attenta fa luce sul fatto che trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali Rahalbiath’  la quale è gravata verso la curia vescovile di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi da Castronovo’ (cfr. Paolo Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092  - 1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi  nei secoli, si spiega forse con l’interesse della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si  premette che Roberto di Malconvenant aveva ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita. Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.  
        Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S. Margherita, che probabilmente va identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella  seconda metà del sec. XII pagava come censo tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf. Garufi: I documenti  inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona; tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. Scaturro, I, p. 246)”.
        Svanita la prova di un luogo sacro risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo potesse  sorgere un centro agricolo, per esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto
        Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in disarmo,  vi costruisce una chiesa (una chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel 1310 è operante ed il suo presule, martuzio de silofono, versa un’oncia al papa per le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: alibithumen, hben el chassar, sellem eblis, mirriarapip abdelcai, maimon bin cuiduen, hii quinque’. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite  Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat’. 
Con siffatta benedizione, anche  Racalmuto ebbe a prosperare.    
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle Rationes Collectorie Regni Neapolitani - 1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso  pro officio suo sacerdotali quod impendit in Casali rachalamuti solvit pro utraque (decima)......tt. (tarì) IX».     
        Si rammenti che  30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S. Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura  delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’ secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per  due decime dei primi anni dieci  del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.              
Dei saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba, si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che  troviamo negli archivi del cinquecento, seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la  scena e sono l’alta borghesia del paese.   
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i d’amella, i la lomia, gli ugo, i piamontisi ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di Racalmuto. Alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. savatteri, buscemi, schillaci, rizzo, bongiorno, chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo esemplificativo:  
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli  7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di Vito et   Angila Carlino cum Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D’Amella et di multa quantità di personj».

IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO

Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 (<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]-->) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente ci interessa in questa sede.(<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]-->)
Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino (<!--[if !supportFootnotes]-->[4]<!--[endif]-->):
Il documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento.  Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO

La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. (<!--[if !supportFootnotes]-->[5]<!--[endif]-->)
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra. <!--[if !supportFootnotes]-->[6]<!--[endif]-->
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.
E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.

IL SECOLO DELLA MADONNA DEL MONTE

La tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.
Un quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi con sopra il venerato simulacro della Madonna.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino. Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale (<!--[if !supportFootnotes]-->[7]<!--[endif]-->) ha come un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700, dopo l’opera del p. Signorino.
La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento storico  basilare. Pur nel linguaggio non perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.

questo che pubblico è vecchio materiale e trattasi di un dattiloscritto di una ventina di anni addietro. Molta roba storica va rivisitata. Successive ricerche d'archivio affinano, puntualizzano ed in qualche modo correggono taluni tratti storici della nostra Racalmuto. Mi si dice che sono supponente. Sono solo supponente con i supponenti. Vediamo un po': Sciascia, il grande Sciascia cade se non in contraddizione, di sicuro in una disattenzione (a meno che non si trattasse di maliziosa dimenticanza). Parlando del suo anico e collega E.N. Messana, lo accredita della "pubblicazione, nel 1969, della terza storia del paese ... voluminosa, FITTA DI NOTIZIE" (v. pag. 8 del commento delle Memorie del Tinebra). Poi forse distratto o forse troppo attratto dalle teoriche del Castro sulla storia "narrabile", chiude il  Nostro dichiarando "limitato il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e da manoscritti". Non ci resta, poeticamente, quindi di spillarne di "moltissime e di sottili e lunghi tentacoli" come "quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria". Non è mestiere che ci si addice quello di rincorrere se non storia manco cronaca da siffatta memoria. Finimmo come stordito vecchio insegnante dalla saccente pedanteria quando un nocino sciasciano si vide andare in frantumi una sua storiella sui del Carretto, dopo essere finito nella biblioteca di Finale Ligure ed avere avuto curiosità a sfogliare un nostro volumetto, dissolvente invero la fondatezza di tutte le spese sostenute e sostenende dal Comune per la nota tragicommedia del gemellaggio con il marchesato di Finale Ligure.
Non cessano qui le nostre disavventure: avevamo dato il materiale che qui ostendiamo a padre Puma perché se ne servisse per una sua pubblicazione. Ovvio che doveva rieleborare il tutto, se no finiva coll'essere un plagiario. Padre Puma non ottenne fondi dal Comune e abbandonò l'idea. Ma se non lui , un giovinetto vi cadde nel plagio: avuto fra le mani, morto l'Arciprete, il dattiloscritto, non si appropriò solo delle notizie storiche che avevo ricostruito con ricerche d'archivio in Vaticano, ma si rivestì anche del mio stile di scrivere e di porgere che credo inimitabile. Comunque sono cose belle e stampate sotto alieno autore. Verrò querelato?. Cercherò di difendermi dall'accusa di essere dopotutto io il plagiario.
 Calogero Taverna
P.S. Qualcuno si chiederà: ma chi sarà mai codesto che ha voglia di irridere alle ricerche sugli inesistenti marchesi Del Carretto finalesi finiti a Racalmuto. Presto detto, è il tipografo osannato da Sciascia FRANCO SCIARDELLI, quello che stampò GLI AMICI DELLA NOCE. Scrisse  un libricino, invero elegante non solo tipograficamente ma anche nella grafia dei concetti. Ma quello che voleva dimostrare era cosa che i miei documenti coevi domostavano essere cazzabubblole. Stizzito ebbe a darmi del petulantino professorucolo, professore poi a me che non mai messo piede dietro una cattedra. Davanti per aprendere per decenni.

PRIMA DELLA STORIA

Racalmuto si affaccia sulla ribalta della storia - quella almeno documentata - molto tardi: bisogna attendere il 1271 per imbattersi in un diploma angioino ove il casale della diocesi di Agrigento è segnato in termini tali da non lasciare troppi dubbi sulla esistenza del paese. Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto nome arabo di Racalmuto.
Il toponimo “Racel ...”, ad evidenza corrotto ed incompleto, che trovasi nelle cronache del Malaterra, è da riferire secondo alcuni a questo  entro dell’agrigentino: di conseguenza esso sarebbe uno dei dodici borghi arabi soggiogati, violati e ricristianizzati dai lancieri di Ruggero il Normanno, nell’aggiramento per la conquista della Ghirgent di Kamuth. E Racalmuto nient’altro sarebbe che “Racal-Kamut”, Borgo o Fortezza di Kamuth - come del resto lascia trapelare la grafia del toponimo nel diploma del XIII secolo che si custodiva a Napoli, negli archivi angioini.
Altri si ostina a collegare una delle località descritte dal geografo Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale “Racarmutu”). Altri come Eugenio Messana, invece, reputa che il toponimo Al Minshar sempre dell’Edrisi non sia nient’altro che il Castelluccio.
Non manca certo l’erudizione, ma ci troviamo di fronte solo a vaghe congetture.
Noi, invece, restiamo presi da quanto afferma un archeologo del valore di Biagio Pace che, forse un po’ troppo avvalorando il nostro Tinebra Martorana, propende per la tesi secondo la quale le Grotticelle, sotto la contrada del Giudeo, sarebbero state adattate, nei tempi bizantini prossimi al papa Gregorio Magno, ad ipogeo cristiano.
E sulle ali dell’entusiasmo archeologico, avremmo voglia di ritenere che quella crocetta che è marcata in una Tegula Sulphuris, di cui parla qualche archeologo, stia ad indicare una presenza cristiana a Racalmuto addirittura sotto l’imperatore Commodo. Quelle Tegule - così approssimativamente denominate dal Mommsen - venivano fabbricate e vendute nel quartiere ellenico di Agrigento, ma il loro uso riguardava di sicuro le miniere di zolfo di Racalmuto - quelle della zona di Quattro Finaiti e dintorni. Secondo studi attendibili, questo avvenne sotto l’imperatore Commodo. Forse un liberto cristiano fu inviato nelle officine zolfifere imperiali della nostra terra e nelle sue Tegulae - le antenate delle moderne ‘gavite’ - fece incidere il segno della sua fede: la piccola croce che non è sfuggita agli archeologi della nostra epoca. Se è così, la presenza cristiana a Racalmuto è antichissima, quasi una predestinazione, un pionierismo i cui meriti si sono protratti nei millenni. Racalmuto è stata una chiesa salda nella fede: giammai vi ha attecchito la mala pianta dell’eresia: qualche presenza massone alla fine dell’Ottocento ha rappresentato semplicemente lo snobismo di qualche ex seminarista alla ricerca di intime rivincite o di moti liberatori da psicoanalitici complessi. Diversamente che da Grotte, qui da noi mai si sono avuti fomiti scismatici e giammai si sono espanse sette eretiche. La vicenda emblematica di Fra’ Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra’ Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Lo attesta la più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi.

LE PROBABILI ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO

Non v’è dubbio sull’origine araba dell’attuale Racalmuto: il suo nome lo attesta inconfutabilmente, anche se non significa sicuramente Paese Morto o Distrutto o simili assonanze funeree. I modernissimi arabisti (Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990) sconfessano la vecchia lugubre etimologia ma si avventurano in una infondata interpretazione: Racalmuto - dicono - “deriva dall’arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) ‘sosta, casale’ del Mudd <latino modium ‘Moggio’ “. “Paisi di lu Munnieddu”, dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L’immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Nell’antico diploma, quello angioino che abbiamo citato all’inizio, la grafia - per noi molto eloquente - è quella di rachalchamut
Uscendo dalle secche della toponomastica, sappiamo di sicuro che per un paio di secoli a Racalmuto ebbero il sopravvento i musulmani. Questi introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall’Amari descrivono la  coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l’attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag.  305-306: dal Kitab ‘al Falah (Libro dell’Agricoltura di Ibn ‘al Awwam). I secoli dal Nono all’Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto. Ma ebbe davvero a sparire il cristianesimo radicato nelle ‘massae’ attorno all’asse Casal Vecchio-Montagna dell’epoca bizantina? Pensiamo di no. Vi fu convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici rinvenuti nelle zone del Giudeo potrebbero risalire a quei secoli arabi, e sembrano testimonianze cristiane.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d’acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d’ortaggi, in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l’emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in quel documento greco  del  1178 abbiamo il  primo attestato storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande paleografo siciliano Salvatore Cusa (cfr. I di­plomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in   rahalhammut, per il prezzo di 50 ta­rì. A venderlo, nel settembre di quell’anno, fu tale Pietro di Ni­cola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il toponimo  Rachal Chammoùt (racal cammout) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più,  subito l’onta  dell’assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per volontà dell’invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.
Racalmuto normanna ivi citata, invero, è terra piuttosto frazionata: il fondo in vendita confina con parecchi proprietari di terreni che non dovevano essere molto estesi: chorafion è il termine greco usato proprio per significare un  fondo non vasto. I nominativi sono: a) Basilio Burrello, b) Martino di don Guglielmo; c) il fu Michele di Rosaneto, sacerdote; d) Niceforo Lipta; e) Rinaldo figlio del chierico Baldi; f) Nicola figlio del prete Michele; g) il fu  Giovanni genero di Filax;  h) Basilio  Gu­dela.
La preminenza dei ceppi sembra greca, ma i Rinaldo ed i Baldi  con i Martino fanno pensare a casati latini e normanni. Una mistura dunque di gente che sembra essersi ripartito il territorio saraceno del nostro paese. Vi si possono leggere i segni dei grandi sommovimenti feudali dei tempi di Margherita e di suo cugino Stefano Le Perche. Racalmuto che non figura mai nei diplomi della Chiesa Agrigentina, appare ora pertinenza di quel priore Berardo che ha tutta l’aria di un monaco benedettino. Forse ebbe ad impossessarsi per soli 50 tarì - cifra sicuramente esigua - di va­sti possedimenti cui erano addetti  i saraceni del luogo in condizioni di quasi schiavitù;   tutto fa pensare che dopo vi mandò i suoi monaci per  ergervi un convento e sfruttare le locali culture granarie. Nel   1308, a pagare le decime al Papa per Racalmuto abbiamo due nomi che nulla hanno a che fare con la nostra località, ma che proprio possono collegarsi con i monaci benedettini: Martuzio de Sifolono, titolare della chiesa di S. Maria, chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il prete  Angelo di Montecaveoso, tassato per nove tarì  in re­lazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Sono testimonianze postume che però sembrano condurci all’erezione del convento di S. Maria, divenuto francescano solo nel secolo XVI.
All’importante e fondamentale diploma  del 1178  ci ha portato, dicevamo,  il GARUFI, il grande storico cui fa ricorso Sciascia nella ‘morte dell’inquisitore’. Nel suo studio sui ‘Patti agrari e comuni feu­dali di nuova fondazione in Sicilia’ (cfr. Carlo Alberto Garufi, parte II dell’articolo, in Archivio Storico Siciliano, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota: «soggiungo che l’unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d’indagarne l’origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l’atto di compra-vendita, dell’a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell’a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».    
Purtroppo l’autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare questo documento con altro di analoga portata, alla luce di quanto scrive il Di Giovanni (ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera  poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.), e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sull’effettivo riferimento alla terra di Racalmuto.
Non si riferisca pure a Racalmuto, il documento tuttavia illumina sui processi di colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E benedettino fu certamente il primo convento che sorse a Racalmuto.

Un passo della Sicilia Sacra del Pirri testimonia della presenza benedettina a Racalmuto. Stralciando dalle colonne dedicate alla “Agrigentinae ecclesiae” (foglio 758 e segg.), veniamo resi edotti dal Netino che «Coenobium cum Ecclesia S. Benedicti prope viam, qua itur Agrigentum, & Rahyalmutum, de suffraganeis Ecclesiae Agrigentinae invenio excriptum in libro Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211; puto id esse hodie Monalium Annuntiatae Musumellis. Olim enim erat coenobitarum eiusdem Ecclesiae Annuntiatae. Vide ibidem». <!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]--> A dire il vero, l’abate Pirri si avvale dei Capibrevi del Barberi che risalivano ad un secolo prima. La descrizione del convento di monache benedettine sotto titolo dell’Annunziata interessa poco Racalmuto e resta una mera ipotesi quella del Netino che vuol far derivare il convento di Mussomeli da quello, già distrutto nel XVII secolo, che sorgeva nel nostro territorio. Quel che rileva è invece l’accenno ben preciso all’abbazia benedettina di Racalmuto. «Trovo scritto - ci par qui di dover tradurre il passo dal latino - nel Libro dei Capibrevi Ecclesiastici nei Registri della Cancelleria, foglio 211, che si ergeva un cenobio con una chiesa dedicata a S. Benedetto presso la via di congiunzione di Agrigento con Racalmuto e rientrava tra quelli suffraganei della Chiesa Agrigentina. Penso che esso sia lo stesso di quello che è oggi il convento di monache dell’Annunziata di Mussomeli. Una volta  apparteneva a cenobiti della Chiesa dell’Annunziata. Vedi colà.» Eugenio Napoleone Messana colloca, anche sulla scia di alcuni ruderi archeologici di una cisterna, quell’importante abbazia benedettina al vecchio Campo Sportivo.
Siamo franchi, il Pirri nei passi citati non è né perspicuo né convincente. Se un convento benedettino vi fu a Racalmuto, esso dovette essere ben più antico del 1466, diversamente da quanto sembra ritenere lo storico di Noto. Ai suoi tempi - e siamo attorno al 1630 - non vi erano più memorie documentabili. Nella visita pastorale del vescovo Tagliavia del 1542-1543 non è dato di rintracciare alcun riferimento all’abbazia.
Nella prima decade del 1300 rinveniamo, invece, un sacerdote officiante a Racalmuto che ha tutta l’aria di un benedettino, oriundo di Montescaglioso in provincia di Matera. Trattasi delle decime pagate per gli anni 1308 e 1310 ai Papi di Avignone. I tassati di Racalmuto sono due, come abbiamo avuto modo di dire, ed uno di essi è palesemente designato con il suo nome di religioso: Angelo di Montecaveoso
Costui appare come il primo arciprete di Racalmuto, stando almeno ai documenti disponibili.
L’ipotesi, dunque, che Racalmuto si avvii all’attuale conformazione ad opera dei benedettini non è poi del tutto cervellotica. Dovette avvenire la colonizzazione benedettina attorno al Dodicesimo-Tredicesimo secolo, alla stregua di quanto desumibile dal documento greco di S. Maria di Gadera che abbiamo prima revocato. L’opera contadina e civilizzatrice dei frati per tanti versi ebbe a sopperire alla grave crisi determinata dalla repressione dei saraceni da parte di Federico II.

GLI ESORDI STORICI

Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S. Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato in Sicilia per raccogliere il sussidio che  doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate  e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la sicilia dopo il vespro  - Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto  (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili.   In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra-Martorana hanno una qualche attendibilità - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di   paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai patronimici. 
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d’Aragona.                            
Non è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico - lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 
Per avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba.     
        Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo  calcolare in   meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni  dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     
        Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il Pirri, sarebbe stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del Collura, prima citato, dissolvono quella tradizione, così gradita al Tinebra-Martorana o a Eugenio Napoleone Messana. Il documento che ha dato adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo  momento aveva indotto in errore lo stesso P. Collura.            
        L’analisi attenta fa luce sul fatto che trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali Rahalbiath’  la quale è gravata verso la curia vescovile di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi da Castronovo’ (cfr. Paolo Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092  - 1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi  nei secoli, si spiega forse con l’interesse della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si  premette che Roberto di Malconvenant aveva ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita. Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.  
        Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S. Margherita, che probabilmente va identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella  seconda metà del sec. XII pagava come censo tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf. Garufi: I documenti  inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona; tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. Scaturro, I, p. 246)”.
        Svanita la prova di un luogo sacro risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo potesse  sorgere un centro agricolo, per esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto
        Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in disarmo,  vi costruisce una chiesa (una chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel 1310 è operante ed il suo presule, martuzio de silofono, versa un’oncia al papa per le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: alibithumen, hben el chassar, sellem eblis, mirriarapip abdelcai, maimon bin cuiduen, hii quinque’. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite  Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat’. 
Con siffatta benedizione, anche  Racalmuto ebbe a prosperare.    
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle Rationes Collectorie Regni Neapolitani - 1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso  pro officio suo sacerdotali quod impendit in Casali rachalamuti solvit pro utraque (decima)......tt. (tarì) IX».     
        Si rammenti che  30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S. Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura  delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’ secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per  due decime dei primi anni dieci  del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.              
Dei saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba, si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che  troviamo negli archivi del cinquecento, seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la  scena e sono l’alta borghesia del paese.   
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i d’amella, i la lomia, gli ugo, i piamontisi ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di Racalmuto. Alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. savatteri, buscemi, schillaci, rizzo, bongiorno, chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo esemplificativo:  
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli  7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di Vito et   Angila Carlino cum Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D’Amella et di multa quantità di personj».

IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO

Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 (<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]-->) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente ci interessa in questa sede.(<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]-->)
Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino (<!--[if !supportFootnotes]-->[4]<!--[endif]-->):
Il documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento.  Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.

GLI EBREI  A RACALMUTO

La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. (<!--[if !supportFootnotes]-->[5]<!--[endif]-->)
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento  interessante e che va riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra. <!--[if !supportFootnotes]-->[6]<!--[endif]-->
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro  - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -  e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che  gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento  con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.
E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.

IL SECOLO DELLA MADONNA DEL MONTE

La tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.
Un quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi con sopra il venerato simulacro della Madonna.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino. Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale (<!--[if !supportFootnotes]-->[7]<!--[endif]-->) ha come un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700, dopo l’opera del p. Signorino.
La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento storico  basilare. Pur nel linguaggio non perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.

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