mercoledì 6 marzo 2013

Racalmuto, un paese ben amtico con una grande storia tutta "narrabile" in gran parte ancora da scoprire


Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:

«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.

La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente:  le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.

E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torno o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.

Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.

Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente  ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri domenicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.

Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.

Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta”  della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.

 

 

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Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.

Ma alla Matrice di Racalmuto, no.  Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.

Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana  il 24 aprile 1879. ([1])

 

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Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua  frequentazione e meticolosa attenzione.

Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco più che tredicenne.

Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.

(E tanto grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).

 

Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:

12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo

 

Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.

 

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Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).  

E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto sacerdote  - atto transattivo che si conserva in Matrice -  per fugare tali infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.

 



[1]) Domenico De Gregorio: Biblioteca Lucchesiana Agrigento, Palermo 1993, pag. 209

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