venerdì 8 marzo 2013

Due torri campanarie, due simbolii un glorioso novecento


C'è chi dice che ebbe solo lui ad onorare a Racalmuto il pittore arciprete, padre Puma. Sia lode a lui. Non si può omettere però di riconoscere che il prmo critico di padre Puma fu chi scrive. Era il 1948. Estate. Al Sacramento, nelle proprietà di famiglia dei Puma Pagliarello,di lu zzi Caliddu, insomma. E fragile con i miei quattordici anni appena, vestito di nero e in lungo, da seminarista, abbozzai un tentativo di critica pittorica. Dissi qualcosa che piaque all'ancor seminarista sem. mag. Puma. Lo ricorda in questa intervista che qui sotto torno a pubblicare. Nell'intervista scorre sotto traccia la mia ira contro codesto paludato Bonanno che fingendo di lodare, stronca, che misconoscendo, esalta. Pittura umile, di estremo candore nel linguaggio, come dire lindore linguistico che si smunge nell'acceso cromatismo di un essere semplice uomo o uomo semplice; insomma rossi e gialli slabbrati, per scelta, o per limitatezza espressiva.
 
Lasciamo perdere: ho voluto bene ad Alfonso Puma. Se ingenuità vi fu in lui fu quella di ritenersi grande amico dell'altro grande personaggio, di quel simbolo eccelso della Racalmuto novecentesca: Leonardo Sciascia. E qui prendiamo due foto, e le mettiamo come alfa ed omega di un grande percorso artistico, letterario ma anche religioso di una Rcalmuto con due simboli opposti e convergenti, come le due torri campanarie della Matrice, di questa matrice falso gotica di faccia, ma d'intima fede nella trpliice navata interna. Quella matrice che Alfonso Puma restituì al devoto culto dei racalmutesi e che qualche successore vorrebbe espungere dai meriti altrui forse per accidia, forse per carente visione storica.



LA  MIA PITTURA TRA IL POPOLO DI DIO

DELL’ARCIPRETE

Alfonso Puma

 

 

 

Cinquant’anni, una semisecolare vicenda – e mesi da aggiungere, e già molti mesi – una lunga parabola missionaria, un ministero della mia modesta persona sorretto dalla divina grazia di cui mi sento e sono indegno – ma Dio lo vuole, Dio l’ha voluto, ecco il mio sacerdozio tra il popolo di Dio, il colto, irrequieto, di sovente ironicamente blasfemo: mi riferisco, è ovvio al mio paese a Racalmuto. Sì, una arcipretura ultra semisecolare!

 

E poi da oltre settant’anni, il pennello, il carboncino, i colori, la tavolozza, la pittura, la figura, l’immagine, la composizione, il cromatismo ora ieratico, ora accorato, ora illagrime, ora triste – e da tempo ormai stanco e canuto nei momenti dei cupi rintocchi del mio umano esecrare l’inquietante senescenza – e dapprima, nella giovinezza, anche sognante  (forse l’allucinazione dei mistici, forse l’alumbramento iberico di sciasciana memoria). Ma in tutto, una misura un metro, un pentagramma disnodantesi sopra i meandri delle umane pulsioni ed il lambire, senza superbie babeliche, le gioiose altitudini della spirituale redenzione. Là dove l’uomo, il pittore e l’unto del Signore attingono il mistero dell’agnazione divina, dell’essere cioè figli di Dio..

 

Antitesi o simbiosi tra il ministrare Dio agli uomini nel cerchio stellare della mistica Ecclesia, che tutti unisce e sublima, umanamente e le sfibranti paratie di una scisti parrocchiale da dirigere e reprimere, da esortare e correggere, da ammonire ed assolvere, da sospingere verso le salvifiche vie dei sette sacramenti, da quelle della vita, a quella della corroborazione, a quella nuziale, a quella dell’ultimo viatico, e, in contrapposto o in armonica digressione, il diletto dell’umano dipingere?

 

Scrisse a proposito di me, il mio presule mons. Carmelo Ferrara: “l’arte …. rivela Dio … ne diventa non solo epifania, ma scala elevante” sino a Lui. Vi ho provato, padre; vi ho provato come uomo, come prete, come primo presbitero della comunità racalmutese ove talora vi ha scorazzato il demone della superbia, della scristianizzante affabulazione letteraria, del blasfemo irridere a Dio e Santi. Se eretico fu il secentesco agostiniano dell’ordine centuripino Fra Diego La Matina, se eretico volle apparire il suo celebre agiografo, se ora spunta qualche impubere loquace, propenso all’imitazione blasfema addirittura verso la Madonna (la “regina” – né patrona né compatrona - di Racalmuto) qualche colpa eppure mi macula, ma la mia pittura è per tale verso illibata.

 

  Ebbi a scrivere (meglio a dire): Io credo che se il Signore ci assiste - ho molta fiducia nella Provvidenza, nei collaboratori - Racalmuto avrà un futuro migliore. Le chiese stanno per essere tutte restaurate e sono un patrimonio artistico e culturale, con grande vocazione turistica, anche. Dal punto di vista morale c’è da sperare in bene. Guardiamo ai tanti ragazzi, ai tanti giovani che si dedicano ad un meritevole volontariato. Gli oratori - ben quattro - sono segni tangibili di questa buona volontà, della saldezza dell’istituto familiare. Abbiamo, anche, alcune organizzazioni culturali, artistiche. Vedo che diverse mostre sono state organizzate in questi ultimi tempi, segni di una crescita culturale, di una maturità diffusa. Per quanto riguarda il fattore politico, credo che se non cambia qualcosa a livello nazionale, regionale, non riuscirà a cambiare nemmeno un piccolo paese. A Racalmuto, al popolo di Dio di Racalmuto, vada tutto il mio affetto, il sincero augurio del loro parroco, di questo sacerdote prossimo alle nozze d’oro con la Chiesa, alle nozze d’oro di un sacerdozio tutto speso qui, in questa terra del sale e dello zolfo, dei campi e delle vigne, del pavido commercio, della minuscola borghesia; in questo paese talora inverecondamente bagnato di sangue, in questo paese che ad ogni buon conto ha una insopprimibile voglia di redimersi, di migliorare, di essere civile, di avere fede in Dio, nella sua materna Madonna del Monte. Racalmuto, ove la gente nei tempi si è abbarbicata “come erba alla roccia”. Pervicacemente. Ove la gente vuole costruire una città del sole, la città di Dio.

 

Ribadisco, anche con una punta di fierezza che il Signore vorrà punire, ma son sicuro, con affettuosa blandizia.

 

Non sono un professionista della pittura, ma solo un prete che si diletta di pittura: dilettante, dunque, soprattutto perché il mio impasto cromatico è un momento di preghiera, un atto di ringraziamento verso Iddio, un pensiero riverente e filiale verso la Madonna, sì, la Madonna dei Racalmutesi, la Madonna che svetta all’interno della chiesa del Monte (e diffido dalle marmoree imitazioni, specie se sguaiatamente esposte sui muretti dei vetusti campi sportivi locali). Mi si vede in una foto (assicuro, non narcisisticamente) in camicia talare, sotto l’ancora integro Castelluccio, tra l’esplodere dei colori canicolari, con la tela da fecondare pittoricamente appoggiata sulla pietra gessosa del pleistocene , immerso tra le ingiallite erbe della macchia mediterranea. A dipingere “il sogno di Giacobbe” o “il parassita” (meno probabile, “liberta di colombe”) o “incendio nel bosco” o “natura madre” (non certo “tramonto, né l’ ecumenico e ‘politico’ “incontro di popoli” e neppure “la città dell’industria” o “terra e luna”), molto probabilmente “il paese”, ma non escludo “l’infinito” o “preghiera incontro”.

 

Lo so, l’ho capito: i professionisti della pittura storcono il naso, hanno i canoni delle loro evirate accademie che a parole rinnegano, ma nella loro esangue circolazione subiscono ossessivamente, peggio di un eretico prete alle prese con il rinnegamento di tanti pur scomodi dogmi. Mi si vuole immergere nel “de rerum natura”, ma Lucrezio ed il suo mondo mi è estraneo, preferisco qualche salmo latino, magari criptico, magari ammiccante. “nigra sum sed formosa”. E distinguo la parabola dal simbolo, il racconto dall’immagine. Oh! Questi critici. E per quanto il mio linguaggio è contadino (atavicamente agreste) non ha candore, ne rifugge. E’ robusto, stridulo, forse frinisce come cicala d’estate sulla spiga. E se la mia scrittura pittorica non è reboante ma monodica, anche paratattica, non si dispiega su pentagrammi asfittici, monotoni, privi di insolenze espressive, candidi, appunto. Scusami, buon Pippo Bonanno, ma dissento da te.

 

Mi lusinga invece l’aforisma bonanniano che mi accredita di “una essenziale orditura semantica” felicemente armonizzata dal colore. Non sapevo comunque di fare pittura su un “piano senza dimensione”. Francamente il critico d’arte – escludendo i sommi alla Zevi o alla Argan – è spesso un ilare comico. Già, avrei “percepito il segreto anelito di infinito che è una delle più grandi aspirazioni dell’uomo contemporaneo”. Perché in antico non era così? La reietta anima contadina non aveva aneliti ancora più intensi e più esclusivi? Ed io – di vetusta anima campagnola (“de rerum natura” appunto) – vanto agnazioni georgiche mai rinnegate, per di più non rinnegabili. Il “contemporaneo” sarà esotico ma mi è artisticamente alieno. Lo annotava 50 anni fa il piccolo – allora anche di anni – Calogero Taverna. “ ne ultra …” caro Bonanno!

 

Che cosa è poi il “contemporaneo” in arte? Mirate il mio obnubilato peregrinare da villico prete di Sicilia tra le innaturali fronde del Boulevard de Paris. La peccaminosità moderna non tange il prete, perché contadino e contadino anche andando a ritroso nella propria genealogia. E l^ i colori non sono né chiari né gialli; non sono né scarni né corposi e non necessitano di controllo o di essenziale (come dire angusta) orditura semantica. Eccentrico il buco bianco della salvezza o del ripudio, del ritrovarsi ovunque figlio di Dio, sublime anima destinata al regno dei cieli.   

 

Mi rivedo in fotografia a la Funtana (quando si tornerà a chiamarla come veniva nomata da secoli, in quarterio Fontis, alla latina, secondo il gergo notarile? Gramsci è rispettabile ma le nostre memorie storiche sono il flusso del nostro sangue genuinamente racalmutese, non certo regalpetrese? Abisit iniuria verbis!) Sotto la fonte cinquecentesca ( al Settecento risale solo l’orrido rifacimento) e dietro il castello biturrito che impudentemente si vuole fridericiano mentre è solo chiaramontana, ma della fine del secolo di quella contorta famiglia. Ci riferiamo al “domicellus” Manfredi Chiaramente (il bastardo aggiungono i malevoli). Le grandi falsità della piccola storia locale mi stanno alle spalle, la mia pittura ne è immune. Ha voglia di cielo, di sole all’occaso, di fremiti umani di dubbi ammessi, di certezze che solo il magistero della Chiesa sa darti. L’uomo in bianco, piccolo, ed il pargolo piccolo che gli è avvinto e sullo sfondo marino quattro barchette per un trapasso alla gioia perenne tra le nubi di incerto, impalabile colore chissà se non rievocano tenerezze paterne perdute da tempo, forse del tutto obliate a livello cosciente. Un motivo per psicanalisi del prete contemporaneo, solo con se stesso, nel solipsismo di un subconscio senza complessi di edipo e di altre elucubrazioni freudiane. Già, l’ebreo d’Austria ha mai scandagliato il superio di un prete contadino del sud?

 

 
Vette superne lontano lassù, picchi glabri quaggiù e un paio di stambecchi, avranno valenze simboliche imponderabili. Io li ho solo dipinti e non ricordo di avere inteso ordire “un discorso pittorico [che] si affida ad un esplicito simbolismo: troppo evidente (e necessario) residuo strumento della parabola e piccola concessione ad un supporto letterario. Ho dipinto certo per mio diletto, per un moto incantato del mio spirito, soprattutto per una mia sommessa e discreta preghiera. Ne sono fiero, ne sono appagato. Che Dio mi perdoni.  

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