venerdì 2 novembre 2012

"E' stato il figlio", perché piace il film di Ciprì





di CARMELO SCIASCIA

Grazie a Bellocchio ed al festival di Bobbio, di cui è stato l'ideatore e ne è tuttora l'animatore, ho potuto conoscere, qualche anno addietro, i due registi più originali del cinema italiano: Ciprì e Maresco. Dopo Pasolini sicuramente i più provocatori (provocazione come pro-posizione) della cinematografia contemporanea. Allora i due registi a Bobbio presentavano il film Cagliostro (film del 2003) film ideato e diretto dalla coppia. Quest'anno Ciprì da solo si è presentato al festival del cinema di Venezia, col suo "E' stato il figlio", film che qualche comunanza (e molte differenze) ha con la Bella addormentata di Bellocchio. In comune hanno un attore premiato, Fabrizio Falco premio Marcello Mastroianni., ed essere entrambi i film stati riconosciuti di interesse culturale e realizzati con il contributo della direzione generale per il Cinema. Di diverso, il premio per il miglior contributo tecnico per la fotografia, vinto da Daniele Ciprì. Molto se ne è parlato dalle pagine culturali di questo giornale (anche perché lo meritava) del film di Bellocchio, meno di quello di Ciprì. Ed è anche per questo che qualcosa vorrei sottolineare. La trama di "E' stato il figlio" è semplice, tutti la conosceranno o potranno facilmente conoscerla da un qualsiasi sito cinematografico. Quello che vorrei invece aggiungere e che non ho trovato scritto da nessuna parte è il continuo rimando di quest'opera al neo realismo cinematografico del dopoguerra. Mi spiego: vedere E' stato il figlio oggi nel 2012, è stato come rivedere La terra trema di Luchino Visconti del 1948.
La comunanza è data dall'unità di luogo, sono stati girati in Sicilia. Dall'unità di classe: i vinti (pescatori i primi, sottoproletari metropolitani i secondi). Dalla lingua dialettale, (vernacolo siciliano catanese in Visconti, palermitano nazional popolare in Ciprì). Stessa è la sofferenza di una miseria materiale delle famiglie coinvolte. Nel caso di Visconti, la famiglia Velastro, cerca un qualche riscatto con il figlio maggiore ‘Ntoni. Nel caso di Ciprì la famiglia Ciraulo cercherà di sopravvivere con il sacrificio del figlio Tancredi. Vi è un'aggravante in questo film. Si assiste, come bloccati, al dispiegarsi di una miseria morale che è tipica del nostro tempo: la miseria del totem del possesso. Il simbolo del possesso e del riscatto per antonomasia: la macchina. Una Mercedes nera sarà il simbolo della ricchezza, ma sarà anche ed inevitabilmente il corpo del reato di una sconfitta fisica, la morte del capofamiglia (il bravissimo Toni Servillo) ad opera del nipote, mafioso nell'animo e di bassa manovalanza.
Sarà la sconfitta anche del figlio Tancredi (nome nobile e glorioso, come non ricordare Tancredi d'Altavilla). Il figlio Tancredi che poi è l'uomo comune (in contrapposizione all'eroe delle crociate) che ci racconta la storia facendo la fila (come la facciamo noi quotidianamente, - c'è sempre qualche bolletta da pagare! -) in un qualsiasi ufficio postale. L'incubo del mare di notte nei Malavoglia ad Acitrezza, diventa l'incubo del quartiere ZEN a Palermo, in pieno giorno. Un quartiere che da elemento scenografico, si trasforma, diventa attore evidente ed invadente.
Il quartiere ZEN a Palermo, le VELE di Napoli, simboli di una miseria morale e materiale
cui sono cadute tante blasonate città italiane. Avrà qualche responsabilità, oltre le scelte opportuniste dei piani regolatori, la moderna architettura? Certamente no, se si osservano piazze come Potsdamer platz a Berlino, certamente sì, se si osservano gli squallidi quartieri dormitorio di tante periferie di città italiane. Cosa è mai cambiato dal ‘48 ad oggi? Ai lettori la risposta, a me rimane il compito di sottolineare, la drammaticità e la poesia (forse la poesia nasce proprio dalla sofferenza?), del film di Visconti come in quello di Ciprì. C'è nel suo film il canto di una poesia:
"Lu suli si nni va dumani torna
si mi nni vaiu iu, nun tornu chiui"
(il sole se ne va domani ritorna - se me ne vado io non torno più)
Drammatica e struggente poesia che da sola rappresenta l'eterna sofferenza della Sicilia. E basta ascoltarla dalla voce corale degli attori nel film che è come rivivere e riascoltare il dolore di una precarietà storica come è ci stata gridata dalla voce di Rosa Balistreri.
E il citare le favole di Giufà da parte del nonno è come sentire l'eco dei "cunti" (racconti) di una epopea popolare, che facendoci ridere della bonaria superficialità del personaggio ci aiutano a superare le difficoltà quotidiane, dandoci l'illusione di una intelligenza superiore. (Un po' come con il ragioniere Fantozzi di Paolo Villaggio). Per questo e per altre infinite suggestioni il film di Ciprì piace e commuove, diventa teatro epico, surreale ed iperrealista come verista lo era stato il film di Visconti, La terra trema di verghiana memoria. Unica e sostanziale differenza, oltre alla miseria materiale, l'abbrutimento morale cui ci ha fatto sprofondare sessant'anni di cattivo indottrinamento televisivo, a dimostrazione, ce ne fosse bisogno ricordarlo, della sempre attuale analisi di pasoliniana memoria.


30/10/2012

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